Un giallo del Maresciallo Graziosi
Graziosi il venerdì uscì molto presto, come faceva sempre almeno un paio di volte a settimana per una corsetta leggera.
Aveva dei pantaloni blu di una vecchia tuta Adidas, una felpa con la scritta “Carabinieri” sulla schiena che gli aveva regalato un amico del Centro Sportivo, e un cappellino di cotone perché con i pochi capelli che si ritrovava la temperatura rigida di marzo gli faceva venire subito il mal di testa.
A coprire bocca e naso una mascherina azzurra che odiava, ma che proprio lui non poteva esimersi dall’indossare.
Da quando erano scattate le misure di quarantena per l’infezione che stava colpendo tutta la popolazione mondiale le mascherine erano andate a ruba e virtualmente scomparse.
Le forze dell’ordine ne avevano qualcuna, lui in realtà usava sempre la stessa: più per scena che per protezione, per evitare di essere additato come il solito ribelle menefreghista, cosa che in effetti era ma che non voleva in questa situazione dare troppo a vedere.
Attraversò la Nomentana ed entrò nel piccolo parco, imboccando il vialetto in mezzo ai pini.
In altri giorni avrebbe preso la macchina e sarebbe andato a Villa Ada. Gli piaceva fare il giro del laghetto, e sapeva esattamente quanti giri doveva fare per il suo allenamento standard. Poi si fermava qualche minuto agli attrezzi e infine andava a prendere un caffè in un bar là vicino, dove incidentalmente facevano dei cornetti strepitosi che vanificavano tutto il suo allenamento.
Pensò per un attimo con nostalgia alla sua vita di poche settimane prima, ma cominciò a trotterellare nel vialetto ad un’andatura adatta ad un uomo di quasi sessanta anni.
Fece poche centinaia di metri, e arrivò ad uno spiazzo da cui si dipanavano altri percorsi sterrati.
Si fermò.
Si guardò intorno.
Nessuno.
In lontananza, un uomo di una certa età con un cagnolino che lo seguiva da vicino.
Nessun altro.
L’irrealtà di quella situazione lo colpì allo stomaco con così tanta forza che dovette piegarsi e appoggiare le mani alle ginocchia, come se avesse appena finito una maratona.
Si rialzò, guardò per un attimo in cielo, poi tornò lentamente verso casa, la mascherina a pendere inutile sul collo.
Parcheggiò la macchina appena fuori della caserma Nomentana ed entrò.
All’ingresso il piantone di turno, con la mascherina ben stretta, se ne stava chiuso nel suo gabbiotto e non uscì neanche per fare il saluto.
Graziosi lo guardò inarcando il sopracciglio, poi si avviò lungo il corridoio che portava alla sua stanza; le porte degli uffici erano per lo più chiuse e sapeva che dentro non c’era nessuno: non si raccoglievano denunce, non si facevano passaporti, niente.
La caserma era tutta in mano a lui e al suo vice.
Entrò in ufficio, si tolse la giacca e si sedette, mani dietro la testa e piedi sulla scrivania, chiaro segno che non aveva alcuna voglia di affrontare subito le incombenze burocratiche che lo attendevano, visto che si era presentato alle 11.
Di Capua lo raggiunse quasi subito.
– Novità? – chiese Graziosi
Di Capua si strinse nelle spalle.
– Niente di niente. Un paio di denunce in sospeso. –
Graziosi fece un vago cenno di soddisfazione.
– Quindi non è stato ammazzato nessuno oggi dalle nostre parti. –
Lo disse come un fatto, e non come una domanda.
– E no, Marescia’, gli assassini stanno tutti a casa loro, e i ladri pure. –
Graziosi annuì.
– Ma voi perché non ve ne state a casa? tanto qua non c’è gran che da fare. – chiese Di Capua.
Il Maresciallo si decise a tirare giù i piedi dalla scrivania e a riesumare il computer muovendo il mouse.
– A casa mi annoio, e tanto vedrai che prima o poi qualche rogna esce fuori. – disse profeticamente.
– Vabbè ma perché non approfittate della macchina di servizio e non andate a trovare…come si chiama quell’avvocato. –
Graziosi lo fulminò con lo sguardo, e Di Capua arrossì.
– Di Capua, spero che tu non stia diventando una vecchia comare, ma se intendi dire Monica, è un po’ che non ci frequentiamo. –
DI Capua sgranò gli occhi.
– Ah, e come mai? mi sembravate così…-
Graziosi lo interruppe.
– Senti Di Capua ma non c’hai niente di meglio da fare? avrà deciso che uno come me, senza orari, senza una direzione, non andava bene. E poi a dirla tutta voleva un figlio, ma io sono vecchio e poi un figlio già ce l’ho –
– A proposito Marescia’, vostro figlio come sta? E’ ancora a Londra vero? –
Graziosi annuì.
– Già. Infatti sono preoccupato. Gli ho chiesto di starsene rintanato finché non passa la bufera, ma è grande non posso più imporgli niente. Non potevo neanche prima, figuriamoci ora. –
I due rimasero in silenzio per qualche secondo, poi:
– Vabbè io vado di là a smaltire qualche denuncia. – disse Di Capua.
– Bravo. – disse Graziosi – e già che ci stai smaltisci anche la mia, di denuncia, a te che non ti fai mai i cazzi tuoi. –
Lo disse con un sorriso, ma questo non impedì a Di Capua di alzare gli occhi al cielo mentre usciva, con un gesto che ormai era diventato il suo marchio di fabbrica.
La mattinata passò, Di Capua e Graziosi mangiarono un panino stando a debita distanza l’uno dall’altro, poi si rinchiusero di nuovo nei rispettivi uffici.
Di Capua sospettava che il suo capo dormisse, e non era poi molto lontano dal vero: Graziosi era un uomo di azione, non azione fisica ma intellettuale, era uno che amava andare in giro, fiutare le rogne e farle proprie.
Costringerlo in un ufficio a smazzare le denunce di furti d’auto per mancanza di attività era come togliere l’acqua ad un fiore e vederlo appassire a poco a poco.
Ma mentre se ne stava nel suo ufficio, gambe sulla scrivania e occhi chiusi a ripensare a Monica, e ad alcuni suoi particolari anatomici di cui sentiva dolorosamente la mancanza, il cellulare squillò, e il nome che comparve lo fece precipitosamente risistemare sulla sedia, come se la persona fosse davanti a lui.
– Comandi – rispose in maniera quasi automatica
– Graziosi, ho bisogno che mi raggiunga subito. – era il Comandante Generale dell’Arma.
– Certo Generale. – rispose Graziosi mentre cominciava già ad alzarsi – Posso chiederle cosa è successo? –
– E’ scomparsa una persona e lei deve aiutarci a ritrovarla. –
Aiutarci a chi? si chiese Graziosi, ma si fermò un attimo e tentò di ribattere.
– Veramente io Generale non mi occupo… –
Fu interrotto senza tanti complimenti.
– So bene chi è lei e cosa fa, ed è esattamente il motivo per cui l’ho chiamata. Mi raggiunga immediatamente. –
Graziosi non se la sentì di replicare di nuovo, aveva una chiara idea di come funzionasse la gerarchia militare, si chiedeva solo perché questi casi non finissero mai sulla scrivania di quel coglione di Ziliani. Ah certo, perché era un coglione, ecco perché.
– Graziosi è lì? – chiese impaziente il Comandante.
– Certo Generale – si riscosse Graziosi – la raggiungo al Comando Generale? –
– No. Deve venire a Palazzo Chigi. –
Graziosi si fermò un attimo a guardare il grandioso palazzo acquistato dal banchiere senese Agostino Chigi nel seicento, che era stato residenza nobiliare, poi ambasciata, poi Ministero degli Esteri e infine sede del Governo.
Non ricordava di averne mai varcato la soglia, le sue frequentazioni istituzionali erano più legate ai vertici al Viminale, alle riunioni al Comando Generale, e spesso gli capitava di dover andare a Piazzale Clodio presso il Tribunale di Roma, e ogni volta con la non remota possibilità di incontrare quel coglione di Ziliani, l’unico Carabiniere raccomandato della storia dell’Arma.
Dopo i controlli iniziali Graziosi e Di Capua attraversarono il cortile interno e raggiunsero il Comandante, che aspettava sotto i portici bardato con mascherina d’ordinanza.
Non potendosi stringere la mano Graziosi fece un saluto militare che non gli venne molto bene, dato che era più o meno dai tempi dell’accademia, una trentina di anni prima e più, che non portava la mano alla fronte.
Il Generale lo guardò senza traccia di simpatia, e chiese:
– Era necessario che veniste in due? non era sottintesa la riservatezza del caso? –
Di Capua abbassò lo sguardo sui piedi, indeciso su cosa fare.
Graziosi guardò il Generale dritto negli occhi:
– Sì. Era ed è necessario. Qualunque sia il problema, per risolverlo avrò bisogno di tutte le migliori forze in campo, e si dà il caso che l’Appuntato Di Capua sia stato un validissimo e prezioso aiuto per risolvere molti casi spinosi. –
Il Generale annuì, e stava per muoversi, quando Graziosi rincarò la dose:
– Anzi, se mi posso permettere, è il momento di pensare ad una promozione per l’Appuntato Di Capua, che a mio parere merita di avere un comando tutto suo. Magari quello di Piazzale Clodio, che al momento è vacante. –
Il Generale lo guardò sgranando gli occhi e dopo qualche secondo scoppiò a ridere.
– Graziosi, mi è noto quanto le stia sul cazzo Ziliani, ma non si preoccupi, se valuteremo che Di Capua merita un comando, troveremo dove collocarlo. Mi hanno detto che a Orgosolo si sta liberando un posto. – concluse sibilando mentre si avviava verso lo scalone.
Mentre seguivano il Comandante a debita distanza Di Capua parlò con gli occhi a Graziosi, probabilmente insultandolo pesantemente.
Graziosi rispose stringendosi nelle spalle e sorridendo, e infine Di Capua decise di terminare la schermaglia alzando gli occhi verso i magnifici affreschi che correvano sopra le loro teste.
Nella sala riunioni ad aspettarli c’erano tre persone, a due sedie di distanza l’una dall’altra e con mascherine molto sofisticate.
Uno era il Presidente del Consiglio, gli altri due, un uomo e una donna, non riusciva a riconoscerli.
L’uomo poteva avere un’età tra i cinquanta e i cinquantacinque anni, ben piazzato, ritto sulla schiena, decisamente un militare.
La donna era una ragazza bellissima, sui 35 anni, vestita in una maniera che gli sembrava un po’ troppo provocante per una riunione del genere: aveva sì un tailleur scuro giacca e pantaloni, ma i tacchi erano stratosferici, e la giacca lasciava intravedere forme importanti ad ogni movimento delle spalle.
I tre Carabinieri si sedettero e attesero.
Prese la parola il premier.
Era un uomo giovanile, sui sessanta, che aveva trascorso tutta la sua vita al servizio del partito, e che aveva percorso tutti i gradini della scala del potere fino ad ottenere la nomina a primo ministro di una eterogenea coalizione solo un anno prima.
Il Governo si reggeva sulla sua personalità e sulla sua capacità di comunicare, e anche su un certo gradimento presso gli elettori.
Da quando era iniziata l’emergenza le sue apparizioni in televisione avevano avuto l’effetto di coagulare le speranze dei cittadini sulla sua persona, e per questo il suo indice di gradimento era uno dei più alti della storia repubblicana.
– Buongiorno e grazie per essere venuti qui così sollecitamente, nonostante il periodo non particolarmente facile. – fece una pausa.
– Permettetemi prima di tutto di presentarvi i miei colleghi. – disse proprio così, “colleghi”, era un incantatore di folle nato.
Fece un cenno verso l’uomo.
– Il Generale De Dominicis, responsabile della sicurezza della Presidenza del Consiglio e capo degli affari istituzionali del Viminale –
L’uomo salutò con un cenno del capo, che fu ricambiato da Graziosi e Di Capua.
‘Servizi segreti’, pensò immediatamente Graziosi. ‘Andiamo bene’.
La Dottoressa Miceli invece è la responsabile della comunicazione istituzionale della Presidenza del Consiglio, e prima che vi chiediate perché è qui, voglio che sappiate da subito che qualsiasi cosa farete o direte dovrà prima essere concordato con la Dottoressa Miceli perché in questo momento non possiamo permetterci di fornire alla stampa o ai cittadini ulteriori elementi di preoccupazione o di pettegolezzo.
Graziosi allungò le mani sul tavolo e andrò dritto al cuore del problema.
– Signor Presidente, chi è la persona scomparsa?. –
Il Comandante lo fulminò con lo sguardo, ma Graziosi lo ignorò e lo stesso Premier non sembrò offeso dalla domanda.
Fece un cenno alla donna che portò a Graziosi una cartellina, lanciandola da circa un metro.
Nonostante la distanza Graziosi ne potè assaporare il profumo, delicato ma persistente, un profumo che era sicuro non lasciasse indifferente gli uomini, così come non lasciava indifferente lui.
Prima che riuscisse ad aprire la cartellina il Presidente parlò.
– Mia moglie. E’ mia moglie che è scomparsa. E come capirà in questo momento il fatto di non sapere dove sia, se sia stata rapita, se stia male, mi angoscia particolarmente, e allo stesso tempo non possiamo permetterci di dare la notizia alla stampa.
– Diremo che la signora è positiva – intervenne la Miceli – e che per evidenti motivi precauzionali è in quarantena. Il premier dirà di aver fatto il tampone e di essere negativo, e che per questo motivo deve stare distante dalla moglie. –
Graziosi la guardò con interesse, ma la donna sembrò non vederlo.
– Nella cartellina troverà tutto quello che c’è da sapere. Per favore tenga informati me e il Generale De Dominicis, almeno ogni ora. Grazie –
Tutti si alzarono tranne Graziosi.
– Signor Presidente, le devo fare un paio di domande, preferisce che parliamo in privato? –
Il Comandante diventò rosso, e anche il premier.
– Graziosi! – urlò quasi il Comandante Generale
Il Premier alzò una mano per tenere a freno il militare, poi guardò Graziosi.
– Immagino le domande che mi vorrebbe fare Graziosi, e me le ha già fatte il Generale De Dominicis, e le posso assicurare che non è stato gentile. Nella cartellina c’è tutto, ma purtroppo niente che le possa essere d’aiuto. Come immaginerà faccio una vita d’inferno, in particolare nelle ultime settimane. Dormo quattro ore per notte e quasi sempre qui, a palazzo Chigi, perché non ho tempo di tornare a casa. Non vedo mia moglie da tre giorni, quindi non saprei proprio cosa dire sugli ultimi spostamenti. –
Graziosi annuì, tormentandosi la bocca con una mano, mentre il premier attendeva.
Di Capua represse un sorrisetto: conosceva bene il suo capo, e sapeva che quello era il momento in cui dava il meglio di sé.
Lo spettacolo stava per cominciare.
– Capisco Signor Presidente, ma le informazioni di prima mano sono sempre migliori di un rapporto scritto. Senza offesa per il Generale – aggiunse vedendo che le guance del Generale si imporporavano per la rabbia repressa.
Il Presidente del Consiglio si sedette di nuovo con un sospiro.
– Dica pure, e gli altri possono rimanere. Non ho segreti e comunque questa è la mia squadra. –
Graziosi annuì. Poi attese qualche secondo guardando il massiccio tavolo di legno pregiato su cui appoggiava le mani, prima di alzare gli occhi a guardare il Premier.
– Quando ha saputo che sua moglie era scomparsa? –
Il Presidente del Consiglio guardò i suoi un po’ imbarazzato e a Graziosi parve di cogliere un lieve cenno del viso da parte del Generale De Dominicis.
– Beh…come le dicevo, in questo periodo sono stato molto impegnato, quindi con tutto il rammarico possibile devo confessare che non sentivo mia moglie da qualche giorno. Lei aveva provato a chiamarmi ma avevo dato esplicito ordine alla segreteria di non passarmi nessuno che non fosse uno dei Ministri o il Presidente della Repubblica. Poi ho provato a richiamarla stamattina, ma non mi ha risposto, anzi il telefono era staccato. Solo un paio di ore fa ho chiesto a un mio addetto di andare a casa per vedere se andasse tutto bene. Appena ho capito che c’era un problema ho radunato la mia squadra e mi hanno subito consigliato di contattare il comando dei Carabinieri. Il resto lo sa. –
Graziosi annuì, poi si alzò.
– Va bene. Ci sentiamo tra un’ora per il report. – disse, e uscì dalla stanza seguito da DI Capua.
Quando furono di nuovo in macchina, Graziosi al volante e Di Capua rigorosamente seduto sul sedile dietro a un metro di distanza, Graziosi cominciò a parlare ma fu interrotto dal suo appuntato che gli disse:
– Giovanotto, mi porti alla caserma Nomentano, presto! –
Graziosi lo guardò dallo specchietto, e indeciso se incazzarsi o prenderla a ridere optò per la seconda opzione.
– Mavaffanculo Di Capua, te lo dico dal profondo del cuore. –
Quando l’ilarità si calmò, mentre Graziosi saliva per una Via Quattro Novembre deserta, Di Capua aprì il discorso.
– Ma che senso aveva quella domanda, Marescia’? –
Graziosi lo guardò dallo specchietto con gli occhi sorridenti di chi ne sa una più del diavolo.
– E che gli dovevo chiedere secondo te? –
– Ma…non so…se avevano ricevuto minacce, se aveva un amante, cose così. –
Graziosi si strinse nelle spalle.
– Domande inutili, Di Capua, troveremo tutte queste domande, e le risposte opportunamente confezionate, nella cartellina. Invece io volevo capire se ci stavano nascondendo qualcosa. –
– E….? – Di Capua sapeva che il suo capo lo avrebbe stupito. Aveva la capacità di capire le persone come nessun altro, e di penetrare l’animo umano rivelandone i segreti più nascosti.
– E ci stanno prendendo per il culo. Hanno mentito. Tutti. L’unica cosa vera è la scomparsa della signora. Per il resto era un teatrino ad uso e consumo nostro. Dobbiamo solo capire perché , e incidentalmente capire cosa è successo alla moglie del premier. –
Prima che Di Capua potesse obiettare, Graziosi andò avanti.
– Prima di tutto: quella donna va a letto con il Premier. Mi pare chiarissimo. –
Di Capua lo fermò.
– Aspetti un attimo, non le pare un approccio un po’ troppo sessista? Solo perché è una bella donna e si veste in maniera provocante, non necessariamente deve andare a letto con il suo capo. –
– Vero. però lei ci va. Sicuro. hai visto come lo guardava? Come lo ha sfiorato anche se doveva stare a distanza? Lei è la sua amante, e questo è un problema per noi, perché non ci diranno la verità. –
– E il Generale De Dominicis? – chiese Di Capua?
– Bravo. Bella domanda. Mentre parlavano mi sono guardato il suo curriculum sul portale del Ministero della Difesa, dagli un’occhiata anche tu, tanto le password ce le hai.
Di Capua armeggiò un paio di minuti, mentre Graziosi superava Porta Pia e si avviava su via Nomentana verso la caserma.
– Vabbè – disse Di Capua alla fine – mi pare un curriculum impeccabile: accademia militare a Modena, tre missioni di peace keeping in Bosnia, Afghanistan e Libano, ha scalato tutti i gradini del comando nella Nato fino ad assumere il ruolo di vice-comandante delle operazioni in Europa, poi gli è stato preferito un belga nella rotazione e lui ha lasciato la Nato, ed ha assunto l’incarico attuale. Non vedo cosa ci sia di strano. –
Graziosi guardò di nuovo dallo specchietto.
Gli piaceva giocare al gatto e il topo con Di Capua. Lo aiutava a pensare, a focalizzare le sue idee, e a definire la strategia.
– Cosa c’è di strano? Senti, Di Capua, i servizi segreti non sono un gioco di società. Non è che l’ultimo arrivato diventa il capo dei servizi segreti solo perché ha fatto una bella figura sul fronte. Nei servizi devi esserci da tempo, devi aver respirato l’aria dell’inganno e dell’intelligence, insomma: De Dominicis è una spia, e non da oggi. –
Di Capua annuì mentre rifletteva.
– E allora, adesso, da dove iniziamo, visto che non abbiamo informazioni attendibili e tutti ci stanno mentendo? –
Graziosi fermò la macchina.
– Da dove iniziamo? Andiamo a parlare con il bugiardo di professione. Se riusciamo a sapere qualcosa da lui, con gli altri sarà uno scherzo. –
Graziosi era stato già diverse volte a Via In Selci, dove notoriamente anche se non ufficialmente c’era la sede dell’Intelligence italiana. Anche lui vi aveva prestato servizio per qualche mese, e per diverse indagini aveva ottenuto l’aiuto – e qualche volta anche l’opposizione – dei servizi.
Non era passata neanche mezz’ora dall’incontro a Palazzo Chigi, che il Maresciallo, dopo aver lasciato Di Capua alla stazione Nomentana, chiese di vedere De Dominicis.
Anche il palazzo dei servizi era spopolato, non c’era il viavai solito, e la piccola via in discesa che sfociava su Via Cavour era completamente vuota e silenziosa.
L’ufficiale all’ingresso sgranò gli occhi, evidentemente non era così usuale che qualcuno si presentasse senza appuntamento e senza essere stato preventivamente registrato.
– Non so se il Generale è in ufficio, in caso chi devo dire? –
– Sono sicuro che è qui, e comunque se non è qui lo faccia arrivare per cortesia. Mi chiamo Graziosi e sono sicuro che mi riceverà subito. – concluse in maniera brusca. Non voleva perdere tanto tempo in chiacchiere.
Dopo neanche un minuto spuntò un uomo in borghese, con mascherina e guanti che gli si avvicinò fermandosi alla distanza di sicurezza.
– Se vuole seguirmi, il Generale l’aspetta. – disse voltandosi e facendo strada.
“Guarda che damerino” pensò Graziosi “le spie non sono più quei truculenti barboni di una volta, ora si sentono tutti Bond. James Bond. “
L’ufficio del capo dei servizi segreti era molto grande, con una scrivania di massello sovrastata da un’enorme mappa del mondo di legno.
Un computer portatile era l’unico oggetto di dimensioni rilevanti poggiato sulla scrivania, al di là della quale lo aspettava in piedi, sorridente, De Dominicis.
Graziosi si guardò intorno, ma a parte un divano con due poltroncine e un tavolinetto, e una piccola madia con un televisore accesso sulla CNN non c’era altro. Solo un piccolo armadio in un angolo, ma la stanza era sostanzialmente spoglia.
Il civile che lo aveva accompagnato uscì chiudendo delicatamente la porta, ma Graziosi non sentì il rumore delle scarpe di cuoio: evidentemente era appostato dietro la porta, e qualcosa gli diceva che non girava disarmato.
“La prudenza non è mai troppa” si disse.
– E quindi non ci ha messo molto a capire il mio vero ruolo. – disse De Dominicis sorridendo e sedendosi, invitando Graziosi ad accomodarsi su una poltroncina di fronte alla scrivania.
Graziosi ricambiò il sorriso. Quasi tutte le battaglie iniziano con un sorriso, si disse.
– Beh non che ci volesse molto. Se lei fosse stato operativo probabilmente avrebbe preso in mano le indagini. E se ci fosse stata un’esigenza militare non avrebbero chiamato di certo lei. Diciamo che ho intuito che lei seguirà il nostro lavoro, pronto ad intervenire qualora dovessimo muoverci in ambiti che non ci sono concessi. –
De Dominicis rifletté per un attimo, le mani giunte quasi come in preghiera.
– Diciamo che un Stato ha delle priorità. La moglie del premier è sicuramente una priorità, ma NON la principale. Stiamo combattendo una guerra. Una guerra contro un nemico piccolo e invisibile, ma feroce. Non possiamo permetterci troppi errori, e qualcuno lo abbiamo già commesso. Sarò sincero: lei dovrà cercare la signora ma senza smuovere troppa merda. Se sentirò la puzza, allora mi farò vivo, ma spero non sia necessario. –
Come minaccia non era male. Gentile, educata, chiarissima.
Graziosi si sporse leggermente in avanti.
– E allora perché non mi aiuta dicendomi come stanno le cose ed evitandomi di dover frugare nella merda, come dice lei, per trovare il bottino? –
– Beh, nella cartellina che le è stata data troverà… –
– Stronzate! – disse Graziosi battendo il palmo della mano sulla scrivania.
– Stronzate. – ripetè con la voce bassissima, mentre gli occhi del Generale si erano dapprima spalancati per lo stupore, poi ridotti a fessure per la rabbia.
– La cartellina non l’ho neanche aperta. Là dentro ci sono solo puttanate che lei e il premier avete messo insieme per il damage control, tutta roba che se anche io mandassi alla stampa integralmente non farebbe danni. Non c’è niente là dentro di utile per le indagini. Niente. Quindi o lei mi aiuta sul serio, oppure sarò costretto a ravanare la merda. E la avverto. Sono bravissimo a frugare nella merda, è il mio mestiere quotidiano, quello per cui sono diventato famoso, ed è il motivo per cui oggi mi avete fatto chiamare. Ma se pensate di usarmi come specchio per le allodole vi siete sbagliati. –
Il Generale De Dominicis non sorrideva più.
Si alzò lentamente, per sovrastare con il suo fisico imponente Graziosi, ma anche per chiudere l’incontro.
– Sa – disse con tono apparentemente mellifluo – ci metto un attimo a sollevarla dall’incarico e a mettere al suo posto un altro che sarebbe felice di aprire la cartellina, mandare a memoria quello che c’è scritto e magari fare un bell’avanzamento di carriera. Potrei chiamare Ziliani per esempio, che a lei sta così sul cazzo. E a lei mandarla a pulire i cessi in Brianza. Che ne dice di questa alternativa? –
Graziosi annuì, con un sorriso amaro sulla bocca.
– Sì. Era una buona alternativa. Almeno fino a mezz’ora fa. Ma credo che ora non potrà più metterla in pratica. –
De Dominicis lo guardò con aria interrogativa.
– Eh sì, perché il mio vice ha già informato la stampa della scomparsa della moglie del premier e che io sto seguendo le indagini. Anzi – disse in tono ostentato guardando l’orologio – mi faccia andare, credo che la stampa mi stia aspettando davanti alla caserma. –
De Dominicis schiumava rabbia.
– Graziosi, giuro che glie la faccio pagare. Prima di quanto creda. –
Graziosi si fermò davanti alla porta che il civile gli aveva spalancato per uscire.
– Glie lo avevo detto Generale: a rovistare la merda sono bravissimo. Ma la carta igienica se la deve andare a comprare da solo. –
E uscì non senza uno sciocco sorriso di soddisfazione.
Non fece in tempo a salire in macchina e a togliersi la mascherina che il suo telefono squillò. Per la precisione cominciò ad urlare di dolore, mentre il Comandante Generale lo chiamava, e lo chiamava con tale intensità che il suo nome sembrava illuminato come il neon di un casinò di Las Vegas.
Graziosi spense il cellulare urlante e lo scagliò dentro il cassettino della macchina, poi prese un altro cellulare dalla tasca della giacca e fece un numero.
– Il Comandante si è incazzato? – chiese Di Capua che sapeva bene in quali situazioni Graziosi usava il suo cellulare personale.
– Già – rispose mentre imboccava Piazza dei Cinquecento – che aria tira là? –
– Mah… – rispose Di Capua mentre si affacciava alla finestra – ci sono almeno una ventina di giornalisti e cameramen qua fuori, e la municipale fatica a tenerli distanziati. Vedo che urlano continuamente mentre fanno cordone, sono incazzatissimi. – concluse con un tono quasi allegro.
Anche Graziosi sorrise.
– Immagino la scena, quasi come quel film di Fantozzi in cui gli impiegati premevano ‘vogliamo lavorare!’ e le guardie giurate li tenevano lontani. Vabbè, hai fatto quello che ti ho chiesto? –
– Certo – rispose l’appuntato – ho tutto qui pronto. –
– Bravissimo, allora fai una cosa, prendi il faldone e vieni a casa mia, così evitiamo di dover incontrare la stampa e la municipale, che continuino a scazzarsi tra di loro. –
– Come fa a sapere… – cominciò Di Capua un po’ stupito.
– …che hai un faldone? Ma tu hai sempre un faldone, Di Capua, secondo me ci dormi pure abbracciato a qualche faldone. Dai ti aspetto. – e chiuse la telefonata, mentre Di Capua alzava gli occhi al cielo e si dirigeva alla sua macchina.
Seduto sul divano, una gamba di traverso all’altra, Graziosi si accese una sigaretta.
Fumava poco, e quel poco solo quando era sotto stress. Che per uno che faceva il suo mestiere significava MOLTO stress.
La moglie del primo ministro scomparsa. I servizi segreti subito pronti a mischiare le carte o a farle sparire. Il Comandante Generale incazzato con lui. Un’epidemia disastrosa in corso.
Beh, sì, una sigaretta se l’era meritata, si disse.
Che poi a pensarci bene, quale era stata l’ultima…improvvisamente si bloccò, la mano a mezz’aria con la sigaretta che si consumava lentamente.
Due settimane fa.
Solo due settimane fa aveva fumato l’ultima sigaretta.
Era appena iniziata l’epidemia, e il Governo aveva emanato dei decreti restrittivi.
Aveva telefonato a Monica.
– Ciao. Come stai? – le aveva chiesto con un tono morbido.
– Bene…tu!? – chiese lei, tentativa.
– Beh a me non cambierà gran che, pare che acciuffare i criminali sia ancora considerata un’attività essenziale. Ma magari tu potresti venire qui da me. Il tribunale è chiuso, non potrai muoverti, magari passiamo queste settimane insieme come se fosse una vacanza. Che ne dici? –
Silenzio.
Graziosi non era nato ieri. Un silenzio che durava più di un millisecondo erano guai. Un silenzio di un decimo di secondo erano guai seri.
Monica fece passare dieci secondi prima di rispondere.
– Io…a dire il vero…penso che rimarrò qua…mio marito mi ha chiesto se può tornare…si è trasferito stamattina… –
Graziosi non disse una parola. Non che ci sarebbe riuscito anche se ci avesse provato, ma non ci provò neanche.
Così lei continuò.
– Mi ha chiesto…di vedere se possiamo ricostruire il nostro rapporto…e magari…tu lo sai…dio quanto mi dispiace, ma tu lo sai, io voglio un figlio, e anche lui lo vuole, ma tu no, e questo cambia le cose…e poi adesso chissà che fine faremo. Non posso lasciarlo solo. Non posso. Perdonami. Ti voglio bene. Ma non posso. –
Chiuse la telefonata. Probabilmente piangeva.
Graziosi prese una sigaretta, e un accendino e cominciò a fumare, due settimane dopo come allora.
I suoi ricordi furono interrotti dal campanello.
– E’ aperto! – gridò, e dalla porta entrò Di Capua con un faldone enorme in mano, e si avvicinò al divano.
– Di Capua, ma che cazzo fai? – gli urlo Graziosi?
– Marescia’ e volevo vedere il faldone insieme a lei –
– E non lo puoi vedere, che cazzo! stai a distanza. Non lo dico per me, ma per te, hai moglie e figli. Il faldone lo tengo io, tanto se ti conosco te lo sei imparato a memoria come l’Avemaria. –
Gli occhi di Di Capua iniziarono a muoversi verso il soffitto ma lo sguardo di Graziosi gli comunicò che non era il caso.
Il Maresciallo aprì il faldone e iniziò a leggere, mentre Di Capua snocciolava i dati salienti:
– La Dottoressa Annarita Miceli si è laureata in scienza politiche nel 2010, e poi ha preso una specializzazione in comunicazione nel 2012. Inizia a lavorare come stagista in uno studio associato, sa quelli che hanno dentro un po’ di tutto, notai, avvocati, commercialisti…-
– Sì sì lo so cos’è uno studio associato, vai avanti. – lo esortò Graziosi.
– Nel 2014 entra nella segreteria del Senatore, ma quasi subito ne diventa l’addetta stampa, e lo segue in tutta la sua carriera politica fino ad ora. –
– Ecco fatto. – disse Graziosi – la meravigliosa storia di una raccomandata di Roma Nord. – concluse con una smorfia di disgusto.
– Marescia’, guardi che pure lei abita a Roma Nord, eh!? –
– E no! Di Capua! non te lo permetto! – esclamo’ incazzato Graziosi, con un tono così esagitato che a Di Capua venne spontaneo arretrare mezzo passo.
– Prima di tutto qui non siamo ai Parioli, la differenza tra i Parioli e la Nomentana è la stessa che c’è tra la Corea del Sud e la Corea del Nord, sono attaccate ma non c’entrano un cazzo l’una con l’altra. E poi lo sai benissimo che io qua mi ci sono trasferito per colpa della mia ex moglie. Io sono di Roma Sud: Garbatella, Tormarancia, la Caffarella, ma che cazzo ne sai te che sei di Castellammare di Stabia. –
Concluse la sua arringa con enfasi prima di rendersi conto che Di Capua era immobile, perfettamente eretto, ma con gli occhi praticamente appiccicati al soffitto, una vaga somiglianza con il Verdone di “in che senso, scusi!?”.
– Di Capua… – disse Graziosi con tono falsamente mellifluo – ti faccio trasferire alla foce del Po, in mezzo alle anguille e alle zanzare se non la pianti.
Gli occhi dell’appuntato ripresero la loro direzione usuale, mentre cercava di giustificarsi:
– Vabbè Marescia’, però sinceramente con questa Caffarella ci avete scassato ‘a uallera. –
Per la seconda volta nella giornata Graziosi scelse di scoppiare a ridere invece di strangolare il suo vice.
Quando i due si riebbero dai singulti, chiese:
– Ha un marito questa ragazza? – la domanda non era certo casuale.
– No ma ha un fidanzato. Convivono. –
– E che fa questo fidanzato? –
– Anche lui è entrato a lavorare nella segreteria del Senatore, qualche mese dopo la Miceli, e poi nel 2015 è entrato nell’Ufficio Stampa di una banca regionale, una delle più grandi, il nome è nel faldone. –
– Quindi si sono conosciuti lavorando entrambi per il Senatore. – disse Graziosi.
– A dire il vero no. – lo corresse Di Capua – stanno insieme dai tempi dell’università.
Graziosi alzò lentamente lo sguardo verso Di Capua, che arrossì come se avesse detto qualcosa di sconveniente e fosse stato rimproverato.
Graziosi spense la sigaretta, chiuse il faldone e si appoggiò al divano.
– Quindi fammi capire: lei entra nella segreteria del Senatore, dopo qualche mese anche il suo fidanzato che poi va a lavorare in una banca. E dimmi, per curiosità, chi sono i manager di questa banca? –
Di Capua avrebbe voluto sbirciare il faldone ma era chiuso.
– Ora il nome non me lo ricordo ma è scritto… –
– Lo so dove è scritto, perché l’ho appena letto e l’ho anche riconosciuto. Il Presidente di quella simpatica banca regionale è un vecchio politicante ormai in pensione, che è stato uno dei maestri del nostro premier, e che è stato evidentemente ricompensato con una poltrona dorata. Ora dimmi: –
e guardò Di Capua come ogni gatto deve guardare un topo un secondo prima di azzannarlo.
– Pensi ancora che io sia un sessista? –
Di Capua avvampo’, ma dovette ammettere che il suo capo aveva fatto centro.
– E no, Marescia’, mi sa che c’ha ragione lei. Questa se la fa col Primo Ministro, ha fatto assumere il suo fidanzato e l’ha piazzato in un bell’ufficio, così lui è cornuto e contento e lei può continuare a seguire il suo amante senza tanti rompimenti di coglioni. –
L’applauso solitario di Graziosi si levò nella stanza.
– Bravo Di Capua, sintesi perfetta. Le cose stanno proprio così. Ora la domanda è: come mai nessuno ha mai tirato fuori questa liason? né i giornali, né l’opposizione, nessuno? –
Di Capua si alzò, incurante dell’occhiataccia del suo capo, prese il faldone e ne estrasse una pagina di giornale stampata su un foglio A4 e lo porse a Graziosi.
Sul foglio, che era la copia di una pagina di un noto magazine scandalistico, su una colonna a destra c’era una foto sgranata, in cui si riconosceva il premier abbracciato ad una ragazza, di cui si vedeva a malapena la treccia e un orecchio.
Era impossibile distinguerne le fattezze, la foto era stata scattata di notte e con un teleobiettivo potente, la qualità molto scadente, ma abbastanza buona per finire su un giornaletto di quel tipo.
Il titolo diceva: “Chi è la fiamma segreta del Senatore? “
E non c’erano dubbi, pensò Graziosi, era lei, la Miceli.
– E dopo questo non c’è altro? – chiese il Maresciallo?
Di Capua fece un cenno con la testa.
– Io non ho trovato niente altro. –
E se non lo aveva trovato lui, vuol dire che non c’era, pensò Graziosi.
– Evidentemente qualcuno ha fatto pressioni. Forse potrebbe essere interessante andare a parlare con questo giornalista che ha scritto il pezzo. –
Di Capua si dondolò sui piedi poi disse:
– Ma non sarà una perdita di tempo? –
Graziosi lo fissò, poi attaccò:
– Lo sai a cosa paragono un’indagine, Di Capua? a un sentiero fatto di grandi pietre, come i sentieri degli antichi romani. Il percorso più o meno lo sappiamo, ma il tesoro dove sta? solleviamo le pietre più grandi per guardare, e magari non troviamo niente. Ci convinciamo che sarà un po’ più avanti e allora proseguiamo, e solleviamo altre pietre, ma magari sotto una pietra più piccola, sotto un sassolino, c’è un pezzetto del tesoro, e magari l’indicazione di dove trovare il prossimo pezzo. Io non voglio lasciare niente di intentato. –
Di Capua annuì, ma si vedeva che la spiegazione non l’aveva convinto.
Graziosi si alzò, e in quel momento squillò il suo cellulare personale.
Anche se non lo aveva memorizzato, sapeva bene di chi fosse quel numero.
Rispose con un sospiro, e dall’altra parte la voce del Comandante Generale sembrò venire dall’oltretomba.
– Graziosi, prima che io ti faccia buttare fuori dall’Arma, saresti così gentile da spiegarmi perché per parlare con te ho dovuto chiedere ad un Magistrato di ordinare alla compagnia telefonica di darmi il tuo numero, e non ho semplicemente potuto chiamare il numero che lo Stato così generosamente ti paga? –
– E’ una domanda retorica, vero? – disse Graziosi non senza un po’ di divertimento.
Il Comandante rimase in silenzio.
– Qua. Al comando. Subito. –
E chiuse la telefonata.
– E ora? – chiese Di Capua.
– Vediamo di trovare quel giornalista. – disse Graziosi mentre si accendeva un’altra sigaretta.
Mentre Graziosi indossava la giacca, Di Capua era agitato. Per indole e formazione non era assuefatto all’idea di disubbidire agli ordini, e inoltre veniva da una stirpe di Carabinieri abituata a “obbedir tacendo”, e stavolta la presa di posizione del suo capo gli sembrava eccessiva.
– Marescia’, ma dove lo andiamo a prendere questo giornalista, e poi il Comandante è stato chiaro. –
Graziosi si fermò appena in tempo per rispettare il metro di distanza, mentre gli porgeva il faldone.
– Senti Di Capua: il Comandante è sotto pressione perché il Premier lo incalza, ma allo stesso tempo gli mentono. Andare da lui a farsi fare un cazziatone ora non servirebbe a niente, se non a perdere tempo e magari a sentirci dire cosa possiamo e non possiamo fare. Io scelgo di ignorarlo, tanto il cazziatone lo prenderemo comunque, e quanto meno posso fare finta di non sapere che sto armando un casino. –
Fece una pausa per essere certo che il suo vice fosse convinto, e comunque proseguì:
– Per trovare il giornalista in tempi brevi abbiamo bisogno di un aiuto e io so a chi rivolgermi. –
Ancora una volta i due salirono in macchina in modalità tassista, con Di Capua il più distante possibile, e la sua mascherina ben appoggiata su naso e bocca.
Graziosi prese la tangenziale e ne uscì ai campi sportivi, per poi risalire su verso l’auditorium e poi svoltare a sinistra e arrivare a Piazza Euclide. Fece poi un centinaio di metri ancora e fermò la macchina in un parcheggio per carico e scarico merci, con il bollino dell’Arma bene in vista.
I due si fermarono di fronte ad un palazzetto d’epoca, di quelli che ai Parioli se ne trovano ogni cento metri, completamente dipinto di bianco e con una pulsantiera dei citofoni di ottone dorato.
Mentre Graziosi perlustrava le etichette dei nomi, Di Capua chiese:
– Dove stiamo andando, Marescia’? –
– Mmm…andiamo a trovare…una mia amica… – disse mentre cercava di leggere senza occhiali i nomi – non mi ricordo il numero del citofono…eccolo qua! – e suonò al penultimo numero, il 13. L’etichetta diceva “Marini”.
– Gemma Marini è una mia vecchia amica, ha diretto per anni una di quelle riviste per donne, in cui si spiega come fare la dieta, come scoprire se vostro marito vi tradisce, e come trombare selvaggiamente. – disse ridacchiando.
– Eh, ma che ci facciamo? – chiese Di Capua sempre più perplesso.
– Lei conosce tutti, nell’ambiente giornalistico, e soprattutto in quello scandalistico. Vedrai che ci sarà utile. –
In quel momento dal piccolo altoparlante del citofono uscì una voce squillante, ma un po’ preoccupata, perché in quella situazione le visite inaspettate non erano certo frequenti. –
– Chi èèèèè? – chiese la donna alzando la tonalità della voce sull’ultima sillaba.
– Gemma sono io, posso salire un attimo? –
Anche se non la si poteva vedere, il sorriso che comparve sul viso della donna era evidente.
– Graziosi! ma dai! che bella sorpresa! vieni, vieni su, ti apro. –
Il portone antico di legno massello si aprì con uno scatto e i due entrarono.
Gemma abitava all’attico, quattro piani che Graziosi e Di Capua decisero di fare senza ascensore, per evitare che in uno spazio angusto le distanze non potessero essere rispettate.
Ci misero un po’, facendo le scale piano per evitare di arrivare con il fiatone.
Non appena Graziosi ebbe poggiato il piede sull’ultimo scalino, con Di Capua a rispettosa distanza, la porta si aprì e Gemma Marini comparve in tutta la sua splendente bellezza di cinquantenne, resa ancora più evidente dal fatto che indossava solo un negligée trasparente, issato su dei tacchi stratosferici, e generosamente aperto su un seno che madre natura le aveva concesso di conservare ancora senza necessità di chirurgia estetica, e su due cosce di marmo frutto di centinaia di squat quotidiani.
– Non ti dispiacerà se mi sono messa comoda, ho pensato che comunque… – non finì la frase perché improvvisamente scorse Di Capua appena più in basso sulle scale, diventò letteralmente bordeaux, cercando invano di coprirsi con le braccia per poi scappare via caracollando sui tacchi con il rischio di farsi male.
Graziosi si voltò verso il suo vice che cercava disperatamente di non ridere, con scarso successo, poi i due entrarono dentro casa, andandosi a sedere su due poltrone che fronteggiavano un divano di pelle di un colore improbabile, tra il giallo e il verde.
Quando Gemma rientrò era completamente vestita, con un paio di jeans, un maglioncino leggero e delle sneakers. Elegantemente casual, ma niente a che vedere con la donna che aveva aperto la porta pochi secondi prima.
E in più era incazzata nera.
Si sedette sul divano, braccia conserte.
– Potevi avvisarmi che non eri solo. – disse
Graziosi si strinse nelle spalle.
– Di Capua è un uomo di mondo, ha fatto il militare a Cuneo. – rispose Graziosi
– Tre anni, per la precisione. – chiosò Di Capua.
– Non mi fate ridere. Che vuoi? Sbrigati perché ho da fare. –
Graziosi pensò che prima il tempo lo avrebbe trovato, ma non disse nulla.
– E poi sono in servizio – disse per giustificarsi – lo sai che i Carabinieri in servizio non possono né bere né trombare.
– E quelli sposati neanche dopo il servizio. – aggiunse Di Capua che evidentemente pensava di essere entrato a far parte di una compagnia di varietà.
Gli altri due lo guardarono senza sorridere e lui si ritrasse nella poltrona.
– Ho bisogno che mi aiuti a trovare un giornalista. Devo parlarci subito, prima di adesso. –
– E non puoi usare i prestigiosi servizi dell’Arma? – chiese lei che evidentemente non aveva ancora mandato giù la figuraccia di prima.
Graziosi annuì.
– Potrei, effettivamente. Ma ci vorrebbe tempo. E poi ora sono in una situazione difficile, non credo che mi aiuterebbero molto. –
– Non te lo meriti. – disse lei che però aveva sciolto il nodo delle braccia, chiaro segno che le stava passando.
– Lo so, ma non ti sto chiedendo di farmi un favore a vuoto. Se le tue informazioni mi aiuteranno, ti prometto che sarai la prima a poter pubblicare tutti i retroscena di questa storia. – disse Graziosi spalancando gli occhi sperando che non si vedesse che mentiva.
– Quale storia? – chiese lei incuriosita.
– Questo ora non posso dirtelo, ma te lo dirò al momento opportuno. –
Lei lo guardò a lungo, scrutandolo in profondità per capire se le stava raccontando una balla.
Alla fine decise di credergli.
– Va bene. Ti aiuterò come posso, ma visto che il tuo amico qua è un uomo di mondo, sarò molto chiara: non solo voglio l’esclusiva, ma alla fine di questa storia voglio che vieni qua e mi scopi con una certa energia. –
– Marescia’, se vuole ci dividiamo i compiti eh!? – disse al volo Di Capua.
Stavolta i due non poterono fare a meno di scoppiare a ridere.
– Tu pensa ai faldoni, Di Capua, del resto me ne occupo io. – concluse Graziosi guardando la Marini che rideva con gli occhi.
Uscirono di corsa dal palazzetto, Graziosi avanti due metri e Di Capua che arrancava con tutta la documentazione che aveva insistito per portarsi dietro, e la divisa che in quelle giornate di aprile gli sembrava pesante come un’armatura.
Non riusciva a stare dietro al suo capo, che come un cane da tartufi aveva fiutato il tesoro.
Gemma Marini non solo gli aveva dato il telefono del giornalista, tale Gianfranco Abbani, ma lo aveva chiamato davanti a lui con la sua voce suadente, e ora il giornalista li aspettava per fare una chiacchierata; recluso com’era da giorni aveva accolto con interesse la richiesta di Gemma di parlare con Graziosi e insomma i due chiusero lo sportello mentre Graziosi accendeva la macchina di servizio e imboccava di nuovo Viale Pildsulski in direzione dell’Auditorium.
Superata la costruzione, tristemente deserta in un periodo dell’anno in cui di solito era già iniziata la stagione dei concerti e delle mostre, imboccò il lungo ponte che lo avrebbe portato fino a Viale Tiziano e poi al Lungotevere Flaminio, dove lo aspettava Abbani.
Improvvisamente, mentre stavano per arrivare al semaforo che costeggia lo Stadio Flaminio, un cellulare dei Carabinieri arrivò di taglio dallo slargo vicino allo stadio e si mise completamente di traverso impedendo a Graziosi qualsiasi possibilità di svicolare.
– Attento!!! – urlò Di Capua dal sedile posteriore mentre si teneva alla cintura.
Graziosi mollò il pedale dell’acceleratore e spinse con tutta la forza che aveva il freno mentre scalava disperatamente le marce.
La macchina cominciò a ruotare su se stessa, prima lentamente, poi più velocemente mentre gli pneumatici urlavano disperatamente sull’asfalto e l’acciaio della macchina strideva per lo stress.
Dopo qualche secondo di panico il paraurti posteriore della macchina di Graziosi andò a poggiarsi leggermente sulla fiancata del camion dipinto di scuro, con la scritta familiare rossa su sfondo nero, e la macchina si arrestò appena in tempo prima di soccombere ad un inevitabile incidente.
In preda ad una rabbia furiosa, amplificata dallo spavento di poco prima, Graziosi aprì lo sportello e si lanciò come una furia verso l’altro automezzo, ma non fece in tempo ad arrivare al lato del guidatore, perché un Carabiniere in divisa gli puntò una mitraglietta contro.
Graziosi si paralizzò, mentre Di Capua usciva lentamente dalla macchina, e un altro Carabiniere si materializzò, anche lui con un’arma puntata sull’appuntato.
Mentre i due, sbigottiti, rimanevano immobili, lo sportello del guidatore del cellulare si aprì, e ne uscì un Carabiniere in divisa da ufficiale, che si sistemò con cura la giacca, poi si assicurò che il cappello fosse a posto.
Si guardò intorno giusto il tempo di osservare un operatore della RAI che si avvicinava rapidamente con una telecamera dotata di microfono, poi andò lentamente verso i due.
Si fermò a poco più di un paio di metri, senza indossare una mascherina che evidentemente avrebbe rovinato l’aspetto fiero e impettito del militare.
Mani dietro la schiena, e un sorriso beffardo sul viso, tese le spalle indietro per allungare ancora di più la figura.
– Stavolta sei nella merda, Graziosi. – disse Ziliani, il Comandante della stazione di Piazzale Clodio.
Aspettò ancora qualche secondo, poi quando fu sicuro che la telecamera fosse a portata disse con voce stentorea.
– Maresciallo Graziosi, la dichiaro in arresto, insieme al suo vice Di Capua, per insubordinazione. – si fermò un secondo, e con un piacere che non riusciva a contenere disse ai due Carabinieri che tenevano a bada Graziosi e Di Capua: – Mettetegli le manette e caricateli sul cellulare. –
La stanza in cui Graziosi sedeva ad un tavolino di formica era completamente spoglia. Il Maresciallo guardava con curiosità le manette ai polsi.
Le aveva viste molte volte, e qualche volta le aveva anche usate, anche se non era uomo di azione, ma non pensava che le avrebbe mai subite.
Non alzava lo sguardo perché sapeva bene che dietro alla parete la telecamera fissata in alto trasmetteva le immagini a delle persone, a quelli che fino a un’ora prima erano suoi colleghi, e non voleva che leggessero nei suoi occhi la rabbia e lo stupore per la sua condizione di fermato.
Aveva tirato la corda molte volte, quasi sempre aveva ignorato le procedure, le regole, gli ordini dei superiori, ma lo aveva fatto perché il suo modo di agire e di cercare la verità spesso collideva con le regole che lo Stato si dava per evitare abusi ed errori.
Ne era sempre uscito indenne: la sua bravura e negli ultimi tempi la sua fama lo avevano protetto.
E proprio stavolta, in cui aveva semplicemente ignorato una convocazione, lo avevano punito.
Non si chiese il perché, gli era fin troppo chiaro: non aveva pestato una merda, bensì qualcuno glie l’aveva infilata a forza sotto una scarpa e lui non era riuscito ad evitarla.
Ma quella merda gli diceva molte cose, era forse un passo falso per altri più che per lui.
Non alzò la testa neanche quando sentì la porta della stanza aprirsi.
Due persone. Una era di sicuro Ziliani, l’altra non la riconosceva ma non faticava a immaginarsi chi fosse.
Ziliani si avvicinò alla scrivania e si sedette di fronte al Maresciallo, mentre l’altra persona rimaneva in piedi vicino alla porta.
– Graziosi, Graziosi… – iniziò Ziliani – Stavolta hai davvero esagerato. Mi dispiace sai – continuò – io ti ho sempre stimato, anche se tu insisti ne trattarmi come un deficiente raccomandato –
“Quale effettivamente sei” pensò Graziosi tra sé.
– Non avrei mai voluto trovarmi in questa situazione – mentì Ziliani – ma le regole sono regole e valgono per tutti. Abbiamo chiamato il magistrato militare che arriverà tra un paio d’ore. Però ho parlato con il Comandante, e lui mi ha detto che l’Arma non ne uscirebbe gran che bene se uno dei suoi elementi più di spicco, ha detto proprio così, subisse un processo pubblico. –
Aprì una cartellina con lentezza calcolata e proseguì.
– Per questo il Comandante ritiene che tu te la possa cavare con un periodo di congedo di qualche mese. Il magistrato non solleverà accuse, tu te ne starai in quarantena a casa, e tra qualche mese tornerai in servizio. Magari – aggiunse con una soddisfazione che trasudava da tutti i pori – potresti venire a lavorare con me a Piazzale Clodio, posto per un Carabiniere in gamba ci sarà sempre – concluse soddisfatto.
Graziosi decise che ne aveva abbastanza.
Alzò la testa e diresse lo sguardo verso De Dominicis che guardava la scena con un sorriso beffardo negli occhi.
Senza dire una parola, e senza guardare Ziliani ma continuando a fissare De Dominicis porse le mani in avanti con i pugni chiusi.
Ziliani battè un paio di volte gli occhi, non capiva.
De Dominicis parlò con un tono di voce molto lento e profondo.
– Gli tolga le manette. –
Era un ordine a cui uno come Ziliani non poteva disubbidire; prese le chiavi farfugliando qualcosa e tolse le manette a Graziosi, il quale continuò a fissare De Dominicis rivolgendosi a lui come se Ziliani non esistesse.
– Faccia usciere questo cretino e poi parliamo. – disse solo.
Ziliani avvampò e fu sul punto di esplodere ma il Generale dei servizi segreti si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla e gli disse:
– Per favore ci lasci soli. E spenga la telecamera. –
Quando poi Ziliani si alzò senza avere il coraggio di replicare e uscì dalla stanza, si sedette e guardò Graziosi negli occhi.
– Sono tutto orecchi. – disse De Dominicis sorridendo a Graziosi come la Iena sorride alla vista di una carcassa ancora intera.
Graziosi guardò il Generale a lungo.
Voleva capire quanto fosse coinvolto e quanto si potesse fidare di lui.
Era un militare, ma anche un agente dei servizi, anzi, il capo dei servizi.
Quando avrebbe pesato la disciplina e il senso dello Stato e quanto gli interessi personali e le direttive della politica?
Non aveva scelta, doveva dargli qualcosa, ma non senza negoziare.
– Faccia venire Di Capua. Questa conversazione non può svolgersi senza testimoni. – chiese Graziosi.
De Dominicis non nascose l’irritazione, contraendo leggermente la mascella e strizzando gli occhi dietro le lenti di un paio di eleganti multifocali che si inserivano sulle orecchie precisamente a filo della barba leggera.
– E cosa le fa credere che non sarei capace di eliminarvi entrambi, se ne fossi costretto? – disse con un tono sarcastico che non riusciva però a nascondere la minaccia.
Graziosi si avvicinò sorridendo al viso del Generale sporgendosi sul tavolo.
– Perché io ho messo insieme già un po’ di cosine e mandate via email ad un paio di amici che sanno cosa farne, in caso. –
De Dominicis lo guardò inarcando un sopracciglio. Era sicuro che il Maresciallo stesse bluffando, ma in fondo non gli importava. Se avesse dovuto farlo avrebbe fatto sparire tutte le persone che era necessario.
Prese il cellulare, diede un ordine, e cinque minuti dopo Di Capua entrò accompagnato da un carabiniere chiaramente imbarazzato nel vedere Graziosi in stato di fermo.
Quando i tre furono di nuovo soli, e Graziosi ebbe salutato con un cenno del capo il suo vice, De Dominicis cominciò a mostrare un po’ di impazienza.
– Allora, sentiamo cosa mi voleva raccontare. – sottolineò la frase appoggiando con forza i polpastrelli di entrambe le mani sul tavolo.
Dopo un ultimo secondo di esitazione, Graziosi si decise.
– Voglio credere che lei sia in buona fede in tutto questo, o meglio, che abbia mentito per un senso del dovere un po’ distorto che quelli come lei ostentano con grande soddisfazione. –
A queste parole una palpebra del Generale tremò leggermente ma non si mosse. Di Capua fissava il suo capo con un sorrisetto che tirava fuori nei momenti speciali.
– La signora è sparita, su questo non ci sono dubbi Ma sul resto avete costruito una marea di cazzate. niente di quello che mi è stato raccontato è vero. Neanche una parola. –
Il Generale fece il gesto di rilassarsi sulla sedia, sempre tenendo le mani sul tavolo e sorridendo amabilmente.
– E per quale motivo il e il Premier avremmo dovuto convocarla per raccontarle tutte queste frottole, mi faccia capire? –
Graziosi sorrise a sua volta. Il generale era un uomo d’azione, non era poi così bravo a giocare a scacchi.
– Prima di tutto lei non sarebbe qua. Lei è venuto per tirarmi fuori, in un modo o nell’altro. Quel coglione di Ziliano per zelo ha interpretato in maniera esagerata l’irritazione del Comandante Generale e ne ha approfittato per prendersi una piccola vendetta su di me e sputtanarmi in televisione. Ma questo a lei non serve, anzi. –
Fece una pausa per guardare le reazioni del suo interlocutore, che non sorrideva più tanto.
Di Capua invece stava godendo moltissimo, e non si premuniva di nasconderlo.
– Lei è venuto a prendermi per lo stesso motivo per cui mi ha raccontato tutte quelle frottole, come le chiama lei: io vi servo, per certificare in maniera autorevole che la moglie del premier è stata cercata disperatamente ma sembra essere scomparsa nel nulla, e magari tra qualche giorno io dichiarerò che le indagini sono chiuse, il premier comparirà in televisione affranto e disperato, ma visto il momento così difficile l’elettorato si stringerà intorno a lui e il suo indice di gradimento schizzerà verso l’alto. –
Di nuovo una pausa ma era ora di affondare i colpi.
– Sa invece io cosa credo? Che la signora sia scomparsa ma probabilmente uccisa, che la scomparsa risalga a diverso tempo fa perché è almeno una settimana che non compare in pubblico, e che il premier e la sua amante le abbiano dato una versione edulcorata dell’accaduto, infarcita di dovere verso lo Stato in un momento così difficile, e che lei li abbia aiutati a imbastire una storiella a mio beneficio. Chissà, magari è venuta proprio a lei l’idea di chiamarmi. –
Concluse gettandosi indietro sullo schienale e incrociando le braccia davanti al petto.
Il Generale era arrossito violentemente, che per una spia sarebbe dovuto essere quasi impossibile.
– E’ stato il suo Comandante a chiamarla. – disse solo.
Guardò Graziosi a lungo, poi si alzò.
– Andiamo. – disse solo e uscì dalla stanza seguito dai due.
Fuori dalla caserma, in una Piazzale Clodio popolato solo di qualche fantasma con la mascherina blu i tre rimasero qualche momento in silenzio.
– La sua storia non mi convince Graziosi – disse il Generale – ma quella del Premier ancora di meno. Lei scopra che fine ha fatto la moglie e magari non sarà costretto a farla arrestare di nuovo. –
I due lo guardarono allontanarsi, poi Graziosi si girò verso Di Capua e disse sorridendo:
– Taxi!? –
Di Capua alzò gli occhi al cielo mentre si incamminavano verso la macchina, ma sorrideva anche lui sotto la mascherina di tessuto che gli nascondeva bocca e naso.
Gianfranco Abbani abitava in un seminterrato a San Saba; aveva scelto come compromesso una zona centralissima e molto prestigiosa di Roma, a due passi da tutto, ma aveva potuto permettersi solo un miniappartamento di due stanze, con delle finestre che erano più che altro spioncini che davano sulle gambe dei passanti.
Poco male, se in cambio aveva la possibilità di fare una passeggiata al tramonto al Giardino degli Aranci, con una vista spettacolare su San Pietro, e se Caracalla e il Circo Massimo distavano solo pochi minuti a piedi.
Non avrebbe scambiato il suo miniappartamento con un attico ai Parioli, se avesse potuto scegliere, e comunque non poteva.
Aprì la porta completamente bardato di mascherina con valvola e guanti azzurri, evidentemente era uno di quelli che aveva preso la quarantena sul serio, ma gli occhi erano cordiali e sorridente mentre diceva: – Prego, entrate! Vi aspettavo qualche ora fa a dire il vero – e li faceva accomodare nel salottino.
– Caffè? – chiese, e senza attendere risposta cominciò ad armeggiare con la moka.
Graziosi e Di Capua si sedettero su due poltrone, e il Maresciallo, insofferente, si calò la mascherina, guadagnandosi un’occhiataccia del giornalista.
– Gemma mi ha detto che mi volevate parlare dell’articolo sul Premier e la sua “assistente” – disse calcando con sarcasmo la parola assistente.
– Esatto – rispose Graziosi.
Poi dovette attendere qualche secondo perché Abbani smadonnava nel tentativo di svitare la moka, operazione che gli riuscì non senza fatica, per poi buttare i residui del caffè e dargli un sciacquata prima di riempirla di nuovo d’acqua.
– La caffettiera va pulita subito dopo averla usata- disse ansiosamente Di Capua, la cui anima napoletana era trafitta dalla sufficienza con cui Abbani trattava un rito così importante come quello del caffè.
Abbani alzò gli occhi a guardare Di Capua, poi fece spallucce e disse:
– Che differenza fa? –
Di Capua strabuzzò gli occhi prima di spararli verso il soffitto.
Abbani lo guardò a bocca aperta, bloccandosi per qualche secondo dall’operazione di caricamento della caldaietta.
– Ha qualche problema? – chiese a Graziosi?
Graziosi scosse la testa.
– Nessun problema – rispose – è solo molto gentile e non se la sente di dire che il caffè così fa cagare. –
Abbani rimase ancora in silenzio per qualche secondo poi scoppiò a ridere, mentre finalmente metteva sul fuoco la caffettiera.
Accese il gas al massimo e chiuse il coperchietto.
Un lamento come di animale ferito sgorgò dalle labbra di Di Capua, e Graziosi temette per un momento che il suo vice potesse essere davvero in preda ad un ictus, poi guardò la caffettiera e si alzò di scatto.
– Si scansi – ordinò ad Abbani.
Poi ruotò la manopola del gas fino a posizionarlo al minimo, e aprì il coperchio della moka.
Infine si rivolse ad Abbani con uno sguardo di rimprovero.
– Lei me lo vuole far morire d’infarto? abbia pazienza! –
– Ma…non capisco… – disse confuso il giornalista toccandosi la barba nera in gesto di nervosismo.
– Lei ha un ospite napoletano a casa sua, e quindi o gli prepara il caffè come cristo comanda oppure si compri una nespresso. Quello che ha fatto è imperdonabile! La caffettiera deve rimanere aperta, e il calore deve crescere a poco a poco, lentissimamente, finché il caffè non fluisce come lava. Altrimenti viene una ciofeca! –
Detto questo si rimise a sedere.
– Di Capua puoi smetterla con la sceneggiata, ha capito. –
Magicamente gli occhi del vice ripresero vita, ma si fissarono con astio sul giornalista che arrossì come se avesse commesso un grave reato. E forse, per un napoletano, lo aveva appena fatto.
Indeciso sul da farsi il giornalista si sedette ad una sedia vicino al tavolo della cucina, che poi altro non era che una rientranza del piccolo salotto.
Senza dire una parola Di Capua si alzò e andò a prendere il comando della caffettiera, prima che Abbani commettesse qualche altro disastro.
– Perché sull’argomento non ha più pubblicato nulla? – venne al punto Graziosi.
Abbani riprese lo sguardo ironico di prima.
– E secondo lei!? – chiese retoricamente – perché qualcuno intervenne sull’editore, e l’editore su di me. Io protestai, minacciai di licenziarmi, ma dato che ero a collaborazione era una minaccia di scarsa efficacia. Poi non avevo nulla di mio, la foto era stata scattata da un fotoamatore e il giornale ne aveva comprato l’esclusiva, per cui non potevo neanche rivendere la storia ad un altro magazine. Senza la foto la mia storia non avrebbe avuto un seguito. E poi il premier era già in corsa per un governo di larghe intese e riformista, e insomma nessuno avrebbe avuto voglia di pubblicare qualcosa senza la pezza d’appoggio di una foto compromettente. –
Graziosi annuì.
– Capisco, quindi il premier fece pressioni sull’editore affinché nascondesse tutto sotto la sabbia? – concluse.
Abbani ridacchiò.
– No, ma quale premier. Fu la moglie a fare pressioni, era amica dell’editore e gli chiese di non proseguire quell’inchiesta, e lui lo fece. –
Graziosi rimase a bocca aperta.
– Mi sta dicendo che la moglie del premier, tradita pubblicamente, fece in modo che il marito non fosse travolto dallo scandalo? –
Abbani annuì, mentre la bocca si atteggiava ad una smorfia.
– Può sembrare incredibile, ma è andata proprio così. –
In quel momento toccò a DI Capua interrompere il flusso del ragionamento dei due, allungando il braccio per servire il caffè bollente.
Abbani si girò verso Di Capua con un sorriso che voleva essere conciliatorio, e poi disse:
– Il latte è nel frigo, me lo può prendere per cortesia? Volete macchiarlo anche voi? –
Stavolta furono due le paia di occhi che partirono per il soffitto, a suggellare definitivamente la totale incompetenza di Gianfranco Abbani in materia di caffè.
Tornati nell’ufficio deserto Graziosi e Di Capua si sedettero ai lati opposti della scrivania, ma furono subito interrotti dallo squillo del cellulare di Graziosi.
Non aveva bisogno di guardarlo per sapere chi fosse.
– Comandi. – rispose un po’ ostentatamente.
– Graziosi…mi dispiace. Ziliani ha voluto calcare la mano, e la richiesta “mi porti subito Graziosi” è diventata una sceneggiata a favore di telecamere. Purtroppo l’ho saputo quando lei era stato già rilasciato. – il Comandante cercò di dare alla sua voce un tono autorevole, anche se si capiva che era in difficoltà.
Graziosi fu magnanimo.
– Non si preoccupi Comandante, non avevo dubbi. Il giorno in cui i referenti politici di Ziliani smetteranno di proteggerlo mi toglierò qualche soddisfazione. –
– E io guarderò da un’altra parte, glie lo prometto. – concluse con un sorriso nella voce.
– Ma venendo al caso – riprese il Comandante – ci sono novità? Ho il premier con il fiato sul collo. –
Graziosi sbirciò Di Capua, che provava sempre un sottile piacere ad ascoltare le conversazioni del suo capo con le autorità, gli piaceva quando recitava la parte del bravo carabiniere.
– Nessuna di rilievo, anche perché come sa abbiamo avuto qualche impedimento. – non si risparmiò la stoccata – Ma abbiamo un paio di piste che stiamo seguendo, e spero entro qualche giorno di darle qualche buona notizia. – intanto che parlava si accese una sigaretta, nonostante l’evidente disapprovazione di Di Capua, e mise i piedi sulla scrivania.
– Qualche giorno!? – quasi si strozzò, il Comandante Generale – Graziosi io ho bisogno di risultati subito, anzi ieri! Tra qualche giorno io potrei non essere più Comandante Generale dell’Arma e lei sarà a pulire i cessi delle caserme del Molise! –
Di Capua soffocò una risata, e si beccò un’occhiataccia di Graziosi, che però ridacchiava anche lui, contento di tenere sui tizzoni ardenti il suo Comandante.
– Comandante, le assicuro che faremo il possibile, ma come sa muoversi è difficile, le forze dell’ordine sono tutte impegnate nel controllo del territorio, dobbiamo anche evitare la stampa che ci assedia, insomma speriamo di avere qualche notizia a breve. Ora la saluto. – e chiuse la telefonata prima che il Comandante potesse ricordargli che la stampa l’aveva scatenata lui stesso.
– Marescià, mi piacerebbe sapere come facciamo a trovare la moglie del premier. – disse Di Capua, un po’ preoccupato, mentre stingeva il faldone al petto, seduto in punta alla sedia.
Graziosi non rispose subito, tirò un paio di boccate dalla sigaretta, poi si decise a spegnerla in un vecchio e logoro portacenere di vetro rubato a chissà quale bar, e tolse i piedi dalla scrivania.
Appoggiò i gomiti sul ripiano di vetro e il mento sulle mani, sporgendosi verso l’appuntato.
– Sappiamo alcune cose: che la moglie se ne fregava dei tradimenti del premier, anzi, ne proteggeva la carriera politica e probabilmente non era solo amore. Sappiamo che la scomparsa è di qualche giorno fa, ma che hanno aspettato un bel po’ prima di chiamarci, segno che qualche idea di dove fosse finita ce l’avevano, ma non sono venuti a capo di nulla. Hanno imbastito una storiella che doveva sostanzialmente essere certificata da noi per poter poi trovare il modo di annunciare la scomparsa al pubblico in maniera più morbida, ma noi abbiamo rovinato il giochino. E infine sappiamo che Ziliani, per quanto stupido, non avrebbe mai fatto un gesto del genere senza il suggerimento di qualcuno. –
Fece una pausa più per riordinare le idee che per tenere in sospeso il suo vice.
Si appoggiò di nuovo allo schienale, con le mani dietro la testa e gli occhi persi chissà dove.
– Io dico…- iniziò lentamente senza rivolgersi al suo interlocutore – …io dico che noi non solo eravamo il piano B, ma eravamo un piano disperato che poteva funzionare solo se tutto fosse andato bene. Ora siamo diventati fastidiosi, per questo hanno cercato di toglierci di mezzo. Il Comandante non ne sapeva niente; De Dominicis ci ha tirato fuori dai guai. Direi che non sono molti quelli che potevano avere interesse a toglierci di mezzo, almeno temporaneamente. –
Di Capua stava seguendo con passione il ragionamento del suo capo, che come sempre aveva preso un abbrivio incontenibile e lo stava portando nella direzione giusta.
– E come facciamo a sapere chi è stato? –
– Ah beh, niente di più facile – disse Graziosi sorridendo mentre si alzava e girava intorno alla scrivania – Andiamo a Piazzale Clodio a prendere a calci in culo Ziliani –
Parcheggiarono la macchina davanti a un McDonald’s desolatamente vuoto, e passarono davanti al bar che era diventato in passato la principale fonte di informazione per gli inquirenti che volevano sapere qualcosa delle marachelle commesse nel tribunale: non bisognava andare poi tanto lontano, si mettevano un paio di cimici al bar e si pescava bene.
Graziosi avrebbe potuto parcheggiare all’interno della struttura, praticamente vuota, ma avrebbe comunque dovuto farsi annunciare per far aprire la sbarra, e non aveva alcuna intenzione di avvisare Ziliani del suo arrivo.
Arrivò al gabbiotto, mostrò la tessera, lasciò il portafoglio nel metal detector mentre di Capua poggiò la sua pistola. Graziosi non ricordava neanche dove avesse messo la sua pistola d’ordinanza, ma meglio così, se avesse mai dovuto sparare un colpo avrebbe di sicuro rischiato di suicidarsi, tanta era la sua dimestichezza con le armi.
Passato il controllo si diressero speditamente verso l’ingresso della palazzina laterale, dove si trovava la sede del comando di Piazzale Clodio.
Non era una caserma grande, ma era prestigiosa perché serviva il Tribunale di Roma, e comunque molto ambita perché i Carabinieri che vi facevano servizio non erano operativi, non rischiavano molto, erano sempre a contatto con magistrati di alto livello, e al massimo accompagnavano qualche criminale dal furgone della Polizia Penitenziaria fino in aula e ritorno.
Il comandante di una struttura del genere non poteva che essere Ziliani, un incompetente naturale, un uomo che nell’arma aveva fatto carriera grazie a venti anni di governi insensibili e a politici più interessati al proprio tornaconto che al bene comune.
Una carriera che gli aveva fruttato il grado di Capitano e di comandante di una caserma di grande visibilità.
Graziosi si diresse spedito verso l’ufficio di Ziliani seguito a fatica da DI Capua: nella struttura non c’era anima viva, tranne il piantone di guardia che fece un mezzo saluto e poi tornò a occuparsi del suo cellulare.
La stanza di Ziliani era come la sua testa: grande e vuota.
Graziosi ricordava di esserci stato in un paio di occasioni, e di averla trovata terribilmente simile all’ufficio del megadirettore galattico di fantozziana memoria: una scrivania di mogano immensa, una sedia di pelle – probabilmente umana – due piante di ficus elastica alte fino al soffitto, una sequenza di penne stilografiche istoriate, e per gli ospiti due sedie scomodissime. Dalla parte opposta della stanza un divanetto per gli incontri informali, sovrastato da una collezione pressoché infinita di calendari dell’Arma.
Graziosi bussò leggermente alla porta chiusa e attese.
Da dentro, la voce di Ziliani risuonò altera e presuntuosa:
– Chi è? Non sto aspettando nessuno! Avanti! – Ziliani amava parlare con i punti esclamativi, lo faceva sentire più maschio.
Graziosi spalancò la porta con una violenza tale che questa andò a sbattere alla parete opposta rimbombando per tutta la stanza.
Quando fu entrato anche DI Capua la richiuse con la stessa violenza.
Ziliani era scattato in piedi, paonazzo in viso per la rabbia e la sorpresa.
Iniziò a dire:
– Graziosi, che… –
ma non fece in tempo a mettere il punto esclamativo alla sua frase perché Graziosi con due passi veloci gli era arrivato a tiro e gli aveva mollato un ceffone violentissimo che aveva fatto andare a sbattere Ziliani contro la parete, dove un fiotto di sangue la imbrattò con il tipico pattern a goccioline.
Di Capua rimase impietrito, non si aspettava quel gesto, ma non ebbe neanche il tempo di protestare che Graziosi prese Ziliani per la collottola e gli mollò un’altra sberla terrificante, sempre con la mano destra, perché la sinistra non la usava neanche per mettersi le dita nel naso, per quanto gli era inutile.
Ancora una volta Ziliani andò a sbattere contro la parete, sporcandola di sangue, ma stavolta lasciò una striscia continua perché le gambe gli cedettero, probabilmente più per la paura che per il dolore, e si lasciò andare sul pavimento.
Graziosi lo afferrò di nuovo, e Di Capua fece un balzo in avanti, temendo che lo volesse ammazzare di botte.
Graziosi lo fermò con una mano mentre continuava a fissare Ziliani che era ormai al di là della semplice paura: aveva capito che se un Carabiniere come Graziosi valicava quel limite avrebbe potuto commettere qualsiasi pazzia.
Graziosi lo prese di peso e lo sbattè sulla sedia.
– Ora ti chiederò solo una cosa e tu ne dirai una a me. Non voglio sentire stronzate perché se devo andare in galera ci voglio andare per averti massacrato di botte, e non perché tu ti sei voluto divertire a fare John Wayne. Se provi a mettere la mano sulla pistola, o a toccare il cellulare, ti faccio sparare da Di Capua. E se provi a raccontare a qualcuno quello che sta succedendo, ti giuro che ti faccio pentire di essere nato. –
Fece una pausa assicurandosi che Ziliani avesse compreso il senso delle sue parole.
– Voglio il nome di chi ti ha detto di venirci ad arrestare. –
Ziliani lo guardò per qualche secondo, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
Poi fece un nome.
Trentasei ore dopo era il tardo pomeriggio di un giorno primaverile, a Roma, quasi estivo.
Tutti i tg e le trasmissioni di approfondimento davano al meteo, e alla disciplina italica, il merito della minore letalità del virus, tanto che si parlava di ricominciare a uscire senza paura.
Graziosi non aveva, per indole e per esperienza, molta fiducia nella capacità degli italiani di rispettare la legge: in fondo se lui aveva un lavoro ed era sempre impegnato il motivo era appunto quello, per cui ringraziò iddio o chi per lui per la calda giornata e per il tramonto rosso fuoco, mentre si godeva la sigaretta nel suo ufficio, piedi sulla scrivania e aria sognante.
Di Capua, seduto con atteggiamento da appuntato e divisa stiratissima su una sedia, lo guardava sorridendo.
– Aspettiamo ancora? – chiese.
Graziosi annuì.
– Vedrai che chiameranno. E’ passato troppo tempo. –
– Non ci converrebbe… –
– No – lo interruppe Graziosi. – devono pensare che stiamo vagando nel buio.
Di Capua rinunciò a sparare gli occhi verso il soffitto, perché in fondo era d’accordo con il suo capo, e si limitò ad un cenno di assenso.
Passarono ancora un paio di sigarette, e il sole era ormai al di sotto dell’orizzonte della Nomentana, quando il cellulare di Graziosi squillò.
– Graziosi – rispose con tono piatto e tranquillo.
– Graziosi, io sono nei guai. E anche lei. La pressione sta diventando insostenibile. Mi dica che ha qualcosa da darmi. –
Il Comandante Generale era sull’orlo di un attacco di panico.
– Qualcosa, ma niente di definitivo. – mentì con nonchalance.
– Piuttosto che niente, meglio piuttosto. Il Premier mi ha chiesto di andare da lui subito per riferire. Viene di sua spontanea volontà o devo mandarla a prendere da Ziliani? –
Graziosi non potè fare a meno di sorridere, ma si contenne.
– Veniamo subito, senza bisogno di mandarci a prendere, anche perché mi dicono che Ziliani sia in ferie. –
Ferie che gli sarebbero servite per guarire dai lividi che gli aveva procurato il Maresciallo, ma si guardò bene dall’aggiungere questo particolare. –
– Sì, va bene – borbottò il Comandante distratto – ci vediamo a Palazzo Chigi tra mezz’ora. –
– Sarà fatto. – chiuse la telefonata Graziosi.
Poi guardò il suo vice: i due uomini si fissarono a lungo negli occhi, finché Graziosi non si alzò, indossò la giacca e si avviò verso la porta seguito da Di Capua.
– Andiamo a infastidire la fossa dei serpenti. – chiosò.
Al tavolo riunioni c’erano le stesse persone dell’altra volta.
Il Premier era molto tranquillo, a Graziosi non sembrava proprio che stesse mettendo sotto pressione il Comandante, che invece aveva la fronte imperlata di sudore.
Anche l’assistente-fidanzata era tranquilla, le gambe lunghe e senza calze accavallate maliziosamente e lo sguardo che indicava chiaramente da che parte stava.
De Dominicis era il più imperturbabile: difficile dire cosa pensasse, ma di sicuro non perdeva mai il suo aplomb. In fondo è quello che insegnano alle spie, mai far capire agli altri cosa ti passa per la testa.
Il Premier prese la parola, sfogliando nel frattempo dei documenti, come se la sorte della moglie non fosse poi così importante.
– Mi dice il Comandante che avete qualche novità. – chiese con tono leggero. Graziosi annuì, guardò Di Capua che si metteva comodo, e poi lanciò la bomba.
– Direi di sì. Abbiamo trovato il cadavere della signora, al momento è all’Istituto di Medicina Legale, dove lo abbiamo portato io e Di Capua ma non abbiamo ancora avvisato Desiati, il patologo. –
Era in questi momenti che Graziosi giustificava a se stesso tutti gli anni di gavetta, le notti insonni, un divorzio e tante donne perdute per la sua incapacità di dedicare tempo ad altro che non fosse il lavoro.
Era in questi momenti che riscopriva il perché aveva scelto la carriera militare e perché faceva l’investigatore: perché scoprire le magagne e osservare i castelli dei malvagi che crollavano miseramente era la soddisfazione più grande che potesse provare.
Il suo sguardo si fissò sui tre che gli stavano davanti, non aveva bisogno di vedere il suo Comandante per sapere che probabilmente gli stava per prendere un infarto, ma a lui avrebbe pensato Di Capua; lui si concentrò sulla reazione degli altri.
Il Generale De Dominicis fece un piccolo sorriso e un lieve cenno della testa che voleva significare “complimenti”.
Il Premier sbiancò, aprì la bocca ma non riuscì ad emettere nessun suono.
La Miceli sembrò quasi impassibile, si limitò a cambiare l’accavallamento delle gambe e a posare il fascicolo che aveva in mano, ma cominciò a giocare con un anello che portava all’anulare, regalo probabilmente del suo fidanzato ufficiale.
Il Premier si riprese ma continuò a non parlare, fu De Dominicis a fare la domanda che tutti avevano sulla punta della lingua.
– Immagino, Maresciallo, che lei non si sia limitato a ritrovare un cadavere, ma che sia risalito alla moglie del premier seguendo delle tracce e magari anche scoprendo il colpevole. Le dispiacerebbe raccontarci a che punto sono le indagini? –
Graziosi sorrise amabilmente. Sia perché era quello il suo momento, ma anche perché era chiaro che il Generale dei servizi non aveva ruolo in questa storia, ed era sinceramente ammirato del lavoro fatto dal Maresciallo, e la sua era una curiosità squisitamente professionale.
Il Premier intervenne, mandando giù un singhiozzo.
– Lei…sta dicendo…che mia moglie è morta? –
Graziosi annuì, e non gli sfuggì l’occhiata che il premier diede alla Miceli.
– Ma come è possibile…voglio dire… –
– Qualcuno le aveva assicurato che stava bene? purtroppo non era vero, signor Presidente. –
Il Premier si mise la faccia tra le mani per un momento, poi si ricompose, si aggiustò la giacca e riprese un’espressione degna del ruolo, la stessa che gli italiani si erano abituati a vedere quando quasi quotidianamente annunciava le misure di restrizione imposte dall’epidemia, e dai successi che stava ottenendo il Paese grazie alle sue decisioni.
– Va bene, mi dica tutto, e non mi risparmi i particolari difficili. – disse infine drizzando la schiena sulla grande sedia di pelle.
– Beh, prima di tutto mi preme dire che se lei non ci avesse mentito, e ci avesse raccontato subito come stavano le cose, forse avremmo risolto il caso prima, e chissà, forse avremmo potuto anche salvare sua moglie, anche se francamente non ne sono così sicuro. – la stoccata arrivò a segno, il Premier diventò rosso e De Dominicis abbassò gli occhi, non per la vergogna, ma perché si rendeva conto dell’errore commesso e a cui era stato indirizzato.
– Ha ragione – disse il Premier mestamente – ha perfettamente ragione, ma noi…voglio dire io..pensavo di poter risolvere tutto senza clamore…sa la situazione… –
– Nobile intenzione, signor Presidente, forse da parte sua, ma le assicuro che per altri le ragioni erano più sottili. –
Prese una pausa, bevve un sorso d’acqua da un bicchiere che aveva di fronte, e poi proseguì.
– Abbiamo capito abbastanza presto che il quadro che ci avevate fatto era falso come un biglietto da 15 euro. La signora sapeva benissimo della sua storia con la Dott.ssa Miceli. – fece una brevissima pausa per osservare le reazioni dei due ma mentre il Premier arrossì di nuovo la Miceli non fece una piega e anzi, lo guardò con tono di sfida.
– Non solo ne era al corrente, ma la protesse dalle dicerie della stampa. – continuò Graziosi – Per amore? Sì, forse anche, ma nessuna donna, anche se innamorata, può tollerare una situazione del genere. A meno che non ci fossero altri interessi in gioco. –
– Forse la moglie del Presidente aveva piacere che il marito facesse carriera. – sibilò la Miceli, attribuendo in maniera palese alla donna scomparsa la patente di arrivista.
Graziosi fece un cenno di approvazione con la testa.
– Possibile, sì. In fin dei conti la storia da Messalina e Cleopatra in poi ci racconta che qualche volta le donne accettano o addirittura spingono per i rapporti extramatrimoniali dei loro compagni pur di aiutarli nell’ascesa al potere. Possibile ma improbabile, anzi, direi non corrispondente alla verità. –
– E allora perché? – chiese il Comandante Generale, che era passato da uno stato di ansia a uno di curiosità senza soluzione di continuità.
– Perché c’erano degli interessi economici in gioco. – disse improvvisamente De Dominicis, che da bravo militare aveva capito dove si andava a parare.
– Esatto! – esclamò Graziosi con un piglio che avrebbe reso orgoglioso anche Sherlock Holmes.
– La moglie del Presidente non voleva che la sua carriera andasse a gambe all’aria per una articolo di giornale, e il motivo, ora lo sappiamo, è che la posizione del marito la aiutava nei suoi affari. Affari non sempre e non tutti puliti. –
Il Premier cercò di protestare ma Graziosi lo fermò con una mano.
Di Capua si schiarì la voce, e aprendo un faldone lesse con il suo accento napoletano cantilenante:
– Sponsorizzazione di un Festival sulla cultura Indoeuropea nel 2010, altri eventi finanziati da aziende di varie Regioni, una società di consulenza politica che ha ricevuto finanziamenti pubblici e che poi è fallita due anni dopo con un contenzioso che ancora si trascina con l’agenzia delle entrate, la partecipazione come azionista di un autosalone di lusso ai Parioli andato poi fallito, e due anni fa la costituzione di una joint venture in Lussemburgo con un’azienda cinese attiva sui sistemi di intelligenza artificiale, sicurezza e biotecnologia. –
– Non capisco come tutto questo possa essere catalogato come “affari non puliti” e come possa avere a che fare con la morte di mia moglie. – intervenne irritato il Premier.
– Vede signor Presidente, nel portare avanti queste indagini mi sono convinto che lei sia una persona perbene. – affermò Graziosi.
– Grazie, eh! – disse sarcastico il Presidente del Consiglio.
Graziosi annuì.
– Non si ecciti, ho detto perbene, anche se su alcuni suoi comportamenti ci sarebbe da discutere. – disse guardando ostentatamente la Dottoressa Miceli che ricambiò il suo sguardo senza nessun segno di essere intimidita.
– Però non è particolarmente furbo. Forse come politico, non lo so e non posso giudicare, forse dicevo è abile e magari sta anche gestendo bene questa emergenza, ma è stato così preso dalla sua carriera che non è reso conto che tutti, tutti la stavano ingannando e sfruttando. –
– Ma tutti chi!? – urlo il Premier alzandosi in piedi e battendo la mano sul tavolo – Tutti chi!? ma come si permette! lei sta non solo infangando il nome di mia moglie ma anche insultandomi senza ritegno, io credo che ci siano gli estremi per farla arrestare. –
Graziosi lo guardò senza scomporsi, attese che la buriana passasse poi replicò, secco:
– Si calmi signor Presidente. Queste sceneggiate non l’aiuteranno. Lei non farà arrestare nessuno, perché sarò io a fare arrestare un po’ di gente, e lei scoprirà, se avrà la pazienza di ascoltare, che non solo non l’ho insultata, ma penso anche che lei sia forse l’unica persona che si salva in questa storiaccia. –
Fece un’altra pausa, mentre tutti tacevano. La tensione era palpabile, e Graziosi bevve un altro sorso d’acqua per farla crescere ancora un po’.
– Sa, signor Presidente, quando c’è un periodo di crisi ci sono molti che perdono ma qualcuno vince, e vince anche tanto. Lei sa qual è in questo momento il bene più prezioso nel nostro paese, quello più introvabile, quello che è cresciuto di valore del 1000 per cento in due settimane? –
– Le mascherine – disse il Premier senza esitazione.
– Esatto – annuì felice Graziosi, perché il Premier ora seguiva il suo ragionamento. – Le mascherine. E si dà il caso che il partner cinese di sua moglie avesse la possibilità di attingere ad un gran numero di mascherine di provenienza cinese, acquistate a pochi centesimi l’una. E con questo lotto di oltre cento milioni di mascherine potevano partecipare alle gare pubbliche, senza troppa burocrazia, senza tanti controlli, e piazzarle a un valore cento volte superiore a quello di costo. Un’operazione spregiudicata, soprattuto se fatta da una società in cui uno degli azionisti era la moglie del premier, spregiudicata ma lecita, se… –
– Se? – chiese il Premier
– Se le mascherine esistessero realmente. La società ne ha certificato la disponibilità presentando un campione, si è aggiudicata la gara grazie a prezzi stracciati, e lei stava per firmare l’autorizzazione all’acquisto che comporta un lauto anticipo del 30%. Dopodiché la società sarebbe scomparsa. Ha idea delle conseguenze? –
Il Premier aveva gli occhi sbarrati.
– Sì…la truffa sarebbe venuta allo scoperto, mia moglie in galera e io rovinato. –
– Eh sì, direi che è proprio quello che sarebbe successo, se…
– Basta con questi ‘se’ – protestò il Premier – vada avanti e basta! –
Graziosi annuì. ‘peccato, questo premier non ama la teatralità’ pensò, mentre si girava a fare un cenno a Di Capua che da qualche minuto era con gli occhi verso il soffitto.
– Se sua moglie ancora una volta non fosse intervenuta. E non si faccia illusioni, non era certo per salvare la sua carriera, ma perché non aveva nessuna intenzione di andare in galera. Non sappiamo come sia andata, ma in qualche modo si è messa in mezzo, ha forse minacciato di dire tutto a lei, oppure alla stampa, insomma in un modo o nell’altro ha cercato di impedire l’affare, e i suoi partner l’hanno eliminata perché mancava solo un giorno alla sua firma, e poi sarebbero scomparsi nel nulla con l’anticipo, lasciando il Paese senza mascherine. –
– C’è qualcosa che non mi quadra. Come facevano a sapere quanto mancava per la delega all’acquisto? la documentazione è riservata e io non parlavo mai a mia moglie di queste questioni, a dire il vero non ci parlavamo quasi per niente. –
– Ah beh, certo. A sua moglie no. –
Lentamente, con gli occhi che si illuminavano di consapevolezza, il Premier si girò verso la Miceli, che ora era impallidita, ma prima che potesse dire qualcosa Graziosi riprese.
– Sa, signor Presidente, non basta mettere in piedi un’azienda con un paio di soci per partecipare a queste gare. Lei dovrebbe sapere bene che ci vogliono certificazioni, bilanci a posto, documentazione societaria di primo livello. Lo Stato Italiano anche in una situazione di emergenza non chiude accordi per decine di milioni di euro con chiunque. Sua moglie era una persona che ha sfruttato il nome del marito per fare un po’ di soldi, e che pur non avendo particolare fiuto per gli affari si è gettata in iniziative discutibili e spesso senza costrutto. Ma forse si illudeva di essere una capitalista di successo, senza avvedersi che chi si avvicinava a lei lo faceva per lo stesso motivo per cui lei rimaneva al suo fianco: per sfruttare il suo potere. Ma neanche sua moglie poteva rendere i bilanci della società abbastanza puliti da poter partecipare ad una gara pubblica. Serviva qualcuno che avesse competenza nel mondo bancario e della finanza, qualcuno che sapesse come trasformare una joint venture improvvisata in una rispettabile società di biotecnica italo cinese. Ora, signor Presidente, non vorrei farlo ma le devo dare la delusione più grande. –
Il Premier, il Comandante, Il Generale, erano tutti senza parole e senza fiato. Di Capua sogghignava, e si godeva lo spettacolo, se avesse potuto avrebbe portato dei popcorn.
La Miceli invece trasudava livore e odio nei confronti di Graziosi.
– Vede Signor Presidente, non crederà mica che la Dottoressa Miceli venisse a letto solo con lei –
Il Premier si girò di nuovo verso la Miceli con rabbia trattenuta, ma lei non diede segno di accorgersi della sua presenza, le sue attenzioni, non propriamente benevole, erano tutte per il Maresciallo.
– La Dottoressa Miceli ha un fidanzato ufficiale, se così si può dire. Un bravo ragazzo con un QI non abbastanza alto per capire cosa succede intorno a lui, ma belloccio e utile per i ricevimenti; ma il ragazzo è anche un bravo giornalista economista. Non è certo un caso che sia andato a lavorare nella banca il cui Presidente è il suo vecchio maestro, e di certo non è stato grazie a lei, anche se qualcuno glie l’ha fatto credere. –
– Vede signor Presidente – continuò Graziosi – la Dott.ssa Miceli prima di lei, e forse anche DURANTE lei, ha avuto una relazione con il suo vecchio maestro, che in fondo non è tanto vecchio, ha solo dieci anni più di lei, ma che però pur essendo stato un politico di vecchia data, non è riuscito a raggiungere la poltrona che lei occupa. La Miceli però non lo ha sbolognato, anzi. Ha mantenuto, se così vogliamo dire, amichevoli rapporti. Rapporti che hanno permesso al suo fidanzato di essere assunto in banca, e che quando è servito di ripulire la società di sua moglie lei sapesse a chi rivolgersi. –
Il Premier continuava a non capire.
– Ah già, mi scusi, non le ho detto un particolare importante: sua moglie e la Miceli erano socie. non lo sapeva? – concluse la frase con tono falsamente mellifluo Graziosi.
– Già. Ai tempi dell’articolo sul giornale, sua moglie e la Miceli ebbero quello che un film western si chiamerebbe “showdown”, ma invece di finire a duello decisero che lei era un ingenuo e che forse sarebbe stato più utile sfruttare insieme il suo potere piuttosto che venire alle mani, e così è stato. –
Un altro sorso d’acqua aiutò Graziosi a stemperare l’emozione, mentre nessuno osava più fiatare, anche la Miceli si era raggomitolata su se stessa, aspettando l’inevitabile.
– Solo che mentre sua moglie era per così dire una truffatrice gentile, la Miceli, i suoi soci cinesi, e il suo ex mentore sono dei veri e propri banditi, e non hanno avuto nessuno scrupolo a mettere in piedi un meccanismo per truffare soldi allo stato e allo stesso tempo mettere nei guai i malati italiani. Sua moglie ha minacciato di spifferare tutto, e loro l’hanno fatta fuori. Fine della storia. –
– Io una curiosità ce l’avrei. – disse con tono pacato il Generale De Dominicis. – Lei come ha fatto a sapere tutte queste cose in così poco tempo? –
Graziosi fece una risata.
In ogni piano c’è una falla, e di solito la falla, o meglio l’anello più debole, è la persona più stupida. In questo caso Ziliani.
– Ziliani!?- urlò il Comandante Generale – non mi dica che Ziliani, un Carabiniere, un ufficiale, è coinvolto in questa storia oscena! Io lo faccio fucilare davanti alla caserma Salvo d’Acquisto, quanto è vero iddio! –
– Si calmi, Comandante, Ziliani non c’entra niente. – Graziosi mise una mano sul braccio del suo capo – o meglio non c’entra quanto non c’entra lei e tutti coloro che in questi anni hanno tollerato che un Carabiniere senza cervello e senza carattere facesse una carriera che non meritava. –
Il Comandante abbassò gli occhi, senza replicare.
– Ma Ziliani è solo un cretino che ha eseguito degli ordini con uno zelo eccessivo. Quando era chiaro che io non avrei accettato la versione ufficiale, e che rischiavo di scoprire come stavano le cose, gli è stato dato l’ordine di fermami con una motivazione risibile, e lui ha eseguito. –
– Graziosi!- urlò il comandante generale – le ho già detto che io non diedi l’ordine di arrestarla! –
– No, certo, non è stato lei, Comandante. E’ stato il Presidente della Banca. E’ lui il referente politico che ha aiutato Ziliani in tutti questi anni a macinare promozioni su promozioni, il secondo, o forse vorrei dire il primo, amante della Dottoressa Miceli, l’uomo che ha ripulito la joint venture, dato un lavoro al fidanzato della qui presente Dottoressa, e poi chiesto a Ziliani una piccola cortesia. –
Il Generale De Dominicis sorrideva mentre chiese a Graziosi:
– E lei come ha fatto a saperlo da Ziliani? Sono curioso. –
Graziosi gli sorrise a sua volta, i due uomini in fondo si piacevano:
– Quando voglio so essere molto convincente signor Generale. –
– Per cui vede signor Presidente – tornò a rivolgersi al Premier – una volta capito chi era il mandante politico e criminale di Ziliani il resto è stato abbastanza semplice. –
Il premier sembrava disorientato, si era appoggiato con le mani alla scrivania, gli occhi nel vuoto, mentre la Miceli era appoggiata sulla sedia con il viso nascosto in una mano.
– E ora cosa succede? – chiese il Presidente del Consiglio con un tono quasi infantile tanto era spaventato.
– Beh, in questo momento il suo ex amico Presidente di Banca e il fidanzato della Dottoressa sono in una camionetta dei Carabinieri, destinazione Regina Coeli. Qua fuori ci sono un paio di miei colleghi che saranno lieti di prendere in custodia la Dottoressa Miceli e portarla al carcere femminile di Rebibbia. Gli assassini di sua moglie, i cinesi suoi partner, sono scomparsi nel nulla, probabilmente non li troveremo mai. –
– E io? –
Graziosi fece spallucce.
– Lei in questo momento è intoccabile. Il Paese ha bisogno di un leader, e finora lei mi pare sia andato abbastanza bene. In fondo la sua colpa è stata solo di fidarsi di una donna facendosi abbindolare dalle sue gambe. Ah a proposito, belle davvero, complimenti – disse Graziosi sarcastico rivolto alla Miceli, mentre Di Capua, incredulo, alzava gli occhi agli affreschi della Presidenza del Consiglio –
– Se vuole un consiglio, dica la verità. Che era innamorato di una donna che ha tradito lei e il Paese, che sua moglie aveva ingenuamente pensato di poter sfruttare la sua posizione per fare soldi ma che si era riscattata mandando a monte l’affare e pagando con la vita. Sia sincero e vedrà che alla fine il popolo la perdonerà. O forse no, ma questo non è un mio problema. –
In quel momento Di Capua si alzò, e due carabinieri in divisa, guanti e mascherina, si avvicinarono alla Dottoressa Miceli e la ammanettarono, trascinandola via.
Graziosi e Di Capua salutarono tutti e uscirono dalla stanza avviandosi verso la macchina.
– Graziosi, aspetti! – era De Dominicis.
Graziosi si girò e si fermò.
– Che ne dice se ci stringiamo la mano, in barba ai divieti? – propose il Generale.
Graziosi lo guardò sornione, poi tese la mano che l’altro gli strinse con forza.
– Lei è un po’ troppo teatrale, Graziosi, ma mi è piaciuto. –
– Sa, Generale, senza un po’ di verve il nostro lavoro può diventare noioso, sempre alle prese con dei cretini che si credono dei geni. –
De Dominicis annuì in segno di comprensione.
Mentra andavano via Graziosi chiese:
– Dammi l’amuchina, Di Capua, che chissà quello quali nidi di vespe ha toccato nella sua vita, altro che virus! –
Occhi al cielo di Roma, stellato e fresco, Di Capua porse al suo capo un bottiglietta e poi scoppiò a ridere senza riuscire più a fermarsi.
