Storia di Giulia

Questo racconto è un po’ un esorcismo.
Spero si capisca.

Il mio primo ricordo risale a quando avevo forse quattro anni.
Sì, deve essere proprio tra il primo e il secondo anno di asilo; non che abbia una memoria così definita, solo dei flash, ma in uno di questi ero in braccio a mia madre che mi diceva “buona, buona, Giulia, stai buona” e piangeva insieme a me.
Io avevo il morbillo, la febbre alta, e quando mi capitava di incrociare il grande specchio che i miei avevano in camera da letto, la sola vista delle bolle che mi costellavano il viso mi faceva sobbalzare di singhiozzi.
E allora mia madre mi allontanava, mi girava per non farmi specchiare e mi ripeteva di stare buona e piangeva insieme a me.
Durante uno di questi giri ad evitare lo specchio faccio risalire il primo ricordo che ho di mio padre.
Appoggiato allo stipite della porta, radi capelli bianchi, un’espressione sofferente e triste, silenzioso, dimesso, guardava me e mia madre senza fiatare.
E ad ogni giro, ad ogni pianto, ad ogni singhiozzo, lui era sempre là, immobile.
Non una parola, solo lo sguardo fisso su di me.

Nella mia testa, per quanto mi sforzi di scavare nei meandri della memoria, mio padre è sempre stato vecchio.
Aveva già 54 anni quando sono nata, e li dimostrava tutti.
Ma non me ne sono resa conto finché non sono andata alle elementari; i bambini avevano genitori in media venti anni più giovani di mio padre e mi prendevano in giro, chiedendomi “dov’è tuo nonno?”, oppure “Giulia ha una mamma e un nonno”.
Io ci stavo male, perché non volevo essere diversa.
Inoltre mio padre era andato in pensione a sessanta anni, mentre la mamma lavorava ancora, e quindi era lui che mi accompagnava e mi prendeva tutti i giorni, tutti i santi giorni finché non sono stata abbastanza grande da poter andare da sola.
Non che mia mamma fosse una ragazzina: ma aveva qualche anno in meno, ed era una persona solare, allegra, gioiosa.
Quando stavo con lei mi sembrava fosse sempre estate, ed è ancora così anche se è vecchia e stanca; mio padre era invece l’inverno, il buio, la freddezza.
Io capivo che mi voleva bene ma non me lo diceva, non me lo trasmetteva con il corpo, con il cuore, con i gesti.
Era una persona perbene, mio padre. Aveva sempre lavorato per la stessa azienda metalmeccanica, aveva fatto una discreta carriera, e a quanto posso capire tutti gli volevano bene.
Solo, lui sembrava non interessarsi agli altri.
Neanche a me e mia madre.
Anche a casa, non aveva interessi.
Faceva la spesa, cucinava, si occupava delle bollette, poi però quando aveva finito di fare quelle poche cose passava tutto il giorno in silenzio davanti alla televisione a guardare insulsi programmi, o film stravecchi.
Non leggeva molto, qualche rivista.
Non usciva, non beveva, non aveva amici, non parlava.
Mio padre era una persona che sembrava essere passata per caso nel mondo, senza uno scopo.
Quando cominciai a lamentarmene con mia madre, lei lo difese.
“Tuo padre è una brava persona. E’ solo un uomo stanco. Ha vissuto molto e sofferto di più. Ma ti vuole bene, credimi Giulia, lui ti vuole tanto bene”
Ma a me le parole di mia madre non bastavano.
Avevo una vita serena, ero una ragazzina bella, alta, intelligente, allegra.
Avevo tanti amici, e mia madre mi adorava.
Ma questo padre così chiuso, così disperatamente perso nel suo animo da non riuscire a trovare la via per comunicare con me non mi andava giù.
E quando fui un po’ più grande cominciai ad arrabbiarmi con lui.
Volevo scuoterlo, gli dicevo che non gli volevo bene, che lo odiavo, che lui non valeva niente.
Non era vero, non lo pensavo, ma avrei dato qualsiasi cosa per vederlo uscire da quella poltrona, magari anche darmi due ceffoni.
E invece niente, mi guardava con quegli occhi buoni che io stavo cominciando ad odiare e non diceva niente. Mai niente.

I miei erano entrambi nati e cresciuti a Roma, ma quando mia madre rimase incinta mio padre ebbe un’opportunità di passare di livello in azienda andando a Milano, e così si trasferirono qui, dove io sarei poi nata pochi mesi dopo.
Mia madre prese un’aspettativa, era insegnante al liceo, e solo quando io andai alle elementari riprese a lavorare.
A Roma non avevamo praticamente più parenti, o amici; questa cosa non mi sembrava strana, allora, ma man mano che crescevo mi chiedevo come mai i miei non frequentassero nessuno, né a Milano, a Roma, nessuno.
Di fatto l’unico parente era la sorella di mia madre a Roma, che aveva due figlie entrambe più grandi di me, nonostante mia zia fosse ben più giovane di mia madre; mia cugina più grande aveva quasi dieci anni più di me, e la piccola sei.
Nei rari incontri – forse una volta l’anno – mi guardavano come fossi un alieno; parlavo una lingua diversa, avevo un’età che non le interessava, e in generale quelle rare puntate a Roma erano per me una tortura. Che io ricordi loro non vennero mai a Milano; forse una volta mia zia per lavoro, ma incontrò mia madre da sola e se tornò poi a Roma.

Infine vennero gli anni del liceo; furono anni difficili: il Paese in tumulto, i giovani che volevano cambiare tutto.
La scuola perennemente occupata, io nel collettivo; ero una dei leader e cominciai a prendere brutti voti, anche perché le lezioni erano rare.
Passai un periodo difficile, avevo un ragazzo che mi trattava male, cominciai a fumare e farmi qualche canna, la ragazzina bella e spensierata di pochi anni prima non c’era più, e la donna matura e assennata che sono ora era ancora di là da venire.
Fu in questo periodo che ebbi la crisi più difficile, e fu in questo periodo che trovai finalmente mio padre.

Avevo poco più di quattordici anni, una bambina se ci penso ora ma mi sentivo padrona del mondo; tornavo tardi la sera, mia madre mi aspettava in piedi preoccupata, e mio padre davanti alla televisione, quasi indifferente.
Io non rispondevo neanche alle loro domande, ero presa da me stessa e basta.
Una sera, anzi una mattina, rientrai alle cinque.
Mia madre e mio padre erano ancora lì, con l’espressione disperata.
Non li sopportavo, non li sopportavo più, dipendevo però da loro e questo mi faceva stare ancora più male.
Mia madre perse la pazienza, litigammo, le dissi una brutta parolaccia e lei per la prima e ultima volta nella mia vita mi diede un ceffone, mandandomi a sbattere contro un tavolino che si ribaltò, facendomi inciampare e cadere per terra.
Mi rialzai come una furia per andarle addosso, ma andai a sbattere addosso a mio padre che mi prese per le braccia.
Non avevo mai fatto caso quanto fosse alto e robusto. E la sua stretta forte.
Mi tenne ferma senza fatica, e io non osai dire nulla più per la sorpresa che per la paura.
Il suo viso era cambiato.
Era sempre lo stesso uomo, ma ora era un uomo deciso, forte, lo sguardo non prometteva nulla di buono.
– Dobbiamo parlare – mi disse, mentre mia madre si sedeva su una sedia, le mani alla bocca, scuotendo il capo e piangendo silenziosamente.
Lui la guardò, lo sguardo si raddolcì per un attimo e socchiuse gli occhi come per dire “stai tranquilla”.
Poi tornò a guardare me e io vidi nei suoi occhi il dolore che non poteva più trattenere.
– Io non permetterò che tu ti faccia male, Giulia. Non permetterò più che tu faccia male a te stessa, a tua madre, e anche a me. Io non permetterò che tu getti via la tua vita, la vita è preziosa, e io voglio, pretendo, che la tua vita venga impiegata al meglio –
– E proprio tu che non hai mai fatto niente nella tua vita, vieni a parlare di queste cose a me! – ebbi il coraggio di urlargli in faccia.
– Sì, proprio io. Hai scambiato il mio silenzio per inettitudine, Giulia, ma non è così. –
Mi lasciò il braccio ma io rimasi lì.
Avevo troppa voglia di stabilire finalmente un contatto con quell’uomo per andarmene proprio ora.

E fu così che mi raccontò la storia di Giulia.
La prima Giulia, la vera Giulia.
Giulia, la sorella che non avevo conosciuto perché era morta due anni prima che io nascessi.
Giulia, di cui non parlava mai nessuno.
Giulia, che cresceva come me alta, bella, solare, piena di vita, intelligente, passionale, aperta.
Giulia, che era la più brava a scuola, la più veloce a correre, e la più forte a saltare.
Giulia, su cui avevano investito tutta la loro esistenza, e riposto le loro speranze.
Giulia, che se ne era andata in poche settimane, senza dare loro il tempo di prepararsi.
Giulia, che gli aveva fatto promettere che avrebbero avuto un altro bambino, quel fratellino o sorellina che avevano sempre evitato di darle, perché volevano che lei avesse tutto il loro amore e la loro attenzione.

Io ascoltavo a bocca aperta, mentre le parole di mio padre uscivano a fiotti come ondate di un torrente che rompe gli argini insieme alle lacrime che correvano sul suo viso inarrestabili, e mia madre rimaneva seduta, il corpo completamente rannicchiato e la faccia tra le mani.

Poi da qualche cassetto nascosto uscirono le foto e una chiavetta usb con le immagini di Giulia.
Era come me, anzi io ero come lei.
Un po’ più alta di lei, forse, ma non c’erano dubbi sul fatto che fossimo sorelle.
Guardai senza parlare le poche foto che i miei avevano conservato, un piccolo video in cui salutava dopo un saggio di danza, il suo primo giorno di scuola media, un campeggio con gli scout.
Sempre senza dire una parola presi quelle foto e quella chiavetta e li portai con me nella mia stanza.

Passai ventiquattro ore senza uscire, senza mangiare né bere, e quasi senza dormire.
Piangevo in continuazione e rivedevo sul mio pc le foto, e quel video, e soffrivo per lei, per i miei, e anche per me.
Sentivo fuori dalla porta della mia camera i passi leggeri dei miei ma neanche una volta vennero a bussare.
Poi alla fine uscii, andai da mio padre e gli dissi solo: – Voglio andarla a trovare –

Il cimitero di Prima Porta a Roma è una grande area oltre il Raccordo Anulare e ci arrivammo direttamente da Milano dopo un silenzioso viaggio in treno e una mezz’ora in taxi.
Seguii i miei a piedi tra i viali pieni di lapidi, grandi tombe di marmo, alveari di fornetti e povere croci a terra.
Arrivammo infine ad una struttura rettangolare ed entrammo in un corridoio, buio, l’odore dei fiori pungente.
Giulia era là, in seconda fila. La foto, una di quelle che avevo già visto, le date, dei fiori ormai secchi, niente altro.
Mi inginocchiai, toccai il marmo con una mano e rimasi così per tanti, tanti minuti, prima di rialzarmi e di uscire senza girarmi.

Gli ultimi tre anni con mio padre, prima che la malattia lo facesse volare via da Giulia, furono forse i più belli della mia vita e penso che anche lui riuscì a venire a patti con questo strano universo e con il suo dio, se ne aveva uno, per avergli fatto vedere l’inferno in terra e in qualche modo avergli insegnato di nuovo ad amare.
Non credo di essere riuscita mai neanche per un minuto a sostituire Giulia nel suo cuore, ma a dargli una ragione per sorridere sì.
Abbiamo imparato a conoscerci, abbiamo viaggiato, mi ha aiutato a studiare, ci siamo consigliati a vicenda in amore, lui per la mamma io per i miei fidanzati, e l’ho visto finalmente diventare ogni giorno più giovane, finché non se ne è andato in poco tempo, proprio come la sua Giulia.

Oggi mia madre è molto anziana, ma ancora sveglia, magra, e piena di ironia.
Mi aiuta con i ragazzi come può, vive con noi, e parliamo spesso di papà, di quello che ci è successo e di come tutto questo dolore infine ci abbia aiutato a essere più uniti e diventare la bella famiglia che siamo stati e che siamo tutt’ora.

Alla mia bambina più grande, che compirà dieci anni tra pochi mesi, non ho mai nascosto nulla, anzi.
Sa tutto, ha visto le foto, parla spesso con la nonna.
Le servirà, sapere la strana storia della nostra famiglia.
E ogni tanto, la sera, prima che si addormenti, mi chiede di raccontargliela ancora, quella storia.
La storia di Giulia.

Duomo backyard

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