Millennium Bridge

Le cose che amo: Londra, la malinconia, la buona letteratura.
Come spesso succede, un racconto ispirato da un viaggio recente.

Mentre mi siedo al tavolino della pizzeria, un tavolino d’angolo davanti ad un finestrone, mi dico che era un bel po’ che non venivo a Londra.
Poi ci penso un attimo, e dico: no, non è un bel po’. Sono esattamente 2.347 giorni.
Forse se guardassi l’orologio potrei anche dire quante ore, ma lascio perdere.
E’ un po’, sì, e non l’avrei fatto se Sandro non avesse insistito affinché venissi su per la comunione del figlio maggiore.
Lui che nasce ateo in una famiglia di atei si è ritrovato un figlio che vuole fare la comunione, e tutto solo perché la scuola cattolica era l’unica dove insegnavano letteratura italiana fin dalle elementari.
– Ti prego non mi lasciare solo nel momento del bisogno. – mi ha detto ridendo al telefono.
Io ho sorriso, e stavo per dire di no, ma poi ho pensato “che cazzo, il mio miglior amico mi invita ad un evento così importante e io non ci vado?”. E allora ho detto sì.
Sono arrivato ieri sera tardi e sono andato subito in albergo, poi stamattina sono andato a salutare Sandro e Laura e i bambini, abbiamo fatto colazione insieme, poi loro avevano delle cose da fare per domani e mi hanno lasciato libero.
Senza una meta precisa mi sono fatto trascinare dai ricordi, e ho preso la metro fino a Liverpool Street.
Ho riconosciuto subito gli odori, l’abbigliamento dei manager della City – tutti uguali nel loro completo scuro, camicia bianca e borsa da postino a tracollo – le frasi spezzettate degli altoparlanti, le urla dei venditori.
Appena fuori dalla metro ho chiuso gli occhi e ho respirato.
Amavo Londra, forse la amo ancora, anche se mi ha tradito.
Qui ho passato i momenti più belli della mia vita e quelli più brutti.
Non ci voglio pensare ora, non proprio ora.
Riapro gli occhi e mi incammino, ho deciso di arrivare fino a Covent Garden passando per Cannon Street e Fleet Street.
Non dovrei andarci, a Covent Garden, ho troppi ricordi di pomeriggi passati seduti ad un tavolino tra tè e risate, a spulciare le bancarelle ogni domenica, a girovagare per l’Apple Store per ore e ore.
Ma non ci sono molti posti in questa città scevri da ricordi. Ci ho passato due anni, due anni con lei, e in due anni abbiamo toccato ogni angolo, ogni pub, ogni museo, ogni singolo London brick.
Abbiamo vissuto questa città come una cosa nostra, e quando una città è tua lo è per sempre.
Mentre mi incammino per Cannon Street non posso fare a meno di ripensare a nove anni fa. A Sandro, sempre lui, che conosce e sposa una ragazza inglese, e mi invita al matrimonio.
Io che ho appena vinto il concorso da ricercatore, lettere antiche per di più, e che mi presento con una vecchia giacca di tweed e una barba incolta che mi fa sembrare più uno studente inglese che un professore italiano.
E poi il matrimonio, la festa, e poi lei.
La migliore amica di Laura, la compagna del college, la scozzese dai capelli rossi e dagli occhi azzurri impossibili, la studentessa di letteratura italiana.
Ricordo il suo italiano incerto di quel giorno, con un accento terribile, un italiano che sarebbe migliorato moltissimo grazie alle passeggiate, le chiacchierate e le notti su un letto di Ikea malridotto, in cui le parole si sovrapponevano si fondevano e se ne creavano di nuove, e alla fine lei parlava un italiano corretto, bello, aggraziato. Come lei.
Non mi accorgo che sono arrivato a Russel Street, e il vecchio mercato di Covent Garden si apre improvvisamente davanti a me.
Mentre mi avvicino la voce di una soprano comincia a coprire i rumori dei passanti, e quando mi affaccio alla balaustra è lì in un angolo che canta arie di opere, canzonette più o meno note, cose così.
Scendo le scale e le lascio mezza sterlina, lei ringrazia con un cenno del capo e resto a guardarla per qualche minuto, poi risalgo e mi dirigo verso lo Strand e da lì arrivo al Southbank.
Prendo fiato, perché il Tamigi mi afferra alla gola, ai polmoni e anche al cuore.
Se penso a tutte le volte che abbiamo fatto questa camminata potrei riconoscere ogni panchina, ogni pesce decorato sui lampioni, ogni anatra che galleggia sull’acqua lurida.
Arrivo al vecchio incrociatore che staziona sul fiume da decenni e una scena mi colpisce: un vecchio, probabilmente un marinaio reduce di qualche guerra, cerca di salire pochi gradini con due bastoni, aiutato da un inserviente.
E’ un lavoro ardimentoso e difficile, che richiedete tempo e pazienza, e io lo guardo senza ironia, incito quel vecchio con il pensiero, e penso che ce la può fare.
Arrivato in cima alle scale improvvisamente si gira e mi guarda: non dice nulla, ma chissà perché sento che mi sta inviando un messaggio.
Abbasso gli occhi, non riesco a reggere quello sguardo fiero, e mi avvio.
Lentamente, perché so cosa mi aspetta.
Il Millennium Bridge.
Quando ci sono ormai sotto e devo solo decidere se salire o meno, le pulsazioni mi salgono a ritmi insostenibili.
Alzo gli occhi al cielo, ed è lo stesso cielo.
Lo stesso di quel giorno: lo stesso vento, le stesse nuvole veloci che rendono impossibile sapere se pioverà o meno tra dieci minuti.
Salgo le scale di marmo, dò un’occhiata distratta a St. Paul, poi imbocco il ponte e quando la Tate Modern si staglia davanti a me il cuore non batte più velocemente come prima.
Semplicemente non batte più.
Chiudo gli occhi sul ponte, e il ricordo di pochi minuti fa me li fa chiudere anche al ristorante, e dagli occhi chiusi di adesso e di prima riappare lei, quel giorno, al matrimonio, con quell’assurdo vestito a fiori che solo le donne britanniche possono indossare, e una coroncina di fiori a tenere fermi i capelli rossi.
Le sue lentiggini che camminano e ruotano sul viso seguendo i suoi sorrisi, le risate, le mosse rapide, l’aggrottare della fronte.
Improvvisamente è lei che voglio. Non ho dubbi. Ci sono venuto fin qui per trovarla e ora non la voglio lasciare.
E così farò, attraverso i primi contatti, le prime uscite avventurose, io che mi invento una scusa per venire a Londra, lei che parte da Edimburgo, e poi la scelta finale.
“Vieni a vivere con me”, le dico. Neanche glie lo chiedo, e lei dice sì, con la testa, in maniera esagerata, facendo ondeggiare i suoi capelli rossi davanti a quegli impossibili occhi azzurri, facendo ballonzolare il seno davanti ai miei occhi perché glie l’ho chiesto mentre era nuda, in bagno, l’ho vista passando e ho detto “Non mi basta più”.
Riapro gli occhi e sono sempre seduto al ristorante, una terribile pizzeria italiana, ad un tavolo d’angolo da cui si vede il Globe Theatre e il Millennium Bridge e tutta la Southbank fino a Canary Wharf.
Il nostro tavolo, quello dove ci sedevamo sempre: o quello o niente diceva lei.
La pizza fa schifo ma la vista è impagabile, aggiungeva, e io mi sono venuto a mettere proprio qui.
Mentre ordino distrattamente penso a tutto quello che ho fatto per lasciare l’Italia, la mia posizione all’Università, la mia famiglia, tutto, per venire qui e stare con lei.
Due anni.
Abbiamo vissuto due anni insieme, due anni che non dimenticherò mai, due anni senza una lira, con contratti a termine, affitti a termine, una vita a termine, e anche l’amore a termine, ora lo so.
Due anni passati a camminare per questa immensa città, io e lei, lei e io, due anni finiti 2.347 giorni fa, proprio lì, sul Millennium Bridge.
Rivedo la scena come fosse ora.
Se sforzo un po’ la fantasia riesco a vedere quei due ragazzi sul ponte.
Lui alto, magro, stempiato, gli occhialini alla John Lennon, un cappotto grigio liso e consunto.
Lei con un vestito a fiori, nonostante il freddo primaverile di Londra, i capelli al vento, ribelli, senza freni.
Non pensavo. Non sapevo. Non immaginavo.
Come al solito dopo aver fatto le scale ho buttato un’occhiata distratta a St. Paul, sì anche quel giorno l’ho fatto, e mi sono incamminato sul ponte.
Solo quando ormai la Tate Modern occupava gran parte del mio spazio visivo, mi sono accorto che lei non c’era.
Mi sono girato, ed era rimasta ferma, a metà del ponte, e mi guardava.
I capelli quasi tutti da una parte le coprivano il viso, il vento freddo che tirava dal Tower Bridge li sferzava senza sosta, ma lei non faceva nulla per sistemarli.
Gli occhi azzurri erano diventati due lame, e me li aveva piantati nei miei.
Lentamente, per paura di scoprire quello che avrei dovuto sentire già, mi sono avvicinato.
L’ho guardata con attenzione, le ho scostato leggermente i capelli dal viso, lei non ha reagito, ha continuato a guardarmi.
– Cosa c’è? – la domanda più stupida dell’universo.
– Promettimi una cosa. – chiede lei senza distogliere lo sguardo.
Sorrido. Un sorriso inutile, perché il cuore già sa che sta per farmi male, ma la testa pensa “Le farò qualsiasi promessa mi chieda, purché resti con me.”
– Certo, qualunque cosa. – dò seguito all’inutile sorriso con parole altrettanto inutili.
– Promettimi che non mi dimenticherai. Che ti ricorderai che io sono esistita. –
Resto a bocca spalancata per un attimo, poi rispondo:
– Murakami. Lo so che l’hai letto. –
Lei distoglie lo sguardo, lo fa vagare verso la nostra pizzeria, dietro le mie spalle.
– Non è colpa mia se lui ha scritto quello che penso. –
Poi, improvvisa, gira di nuovo lo sguardo su di me, stringe le labbra, sembra arrabbiata perché deve farmi male, ma non può evitarlo.
– C’è un’altra persona. – dice.
Un’altra persona, ripeto nella mia mente.
Sapete, ci sono concetti che il nostro cervello fatica ad elaborare.
Non è mancanza di intelligenza, o di razionalità, ci mancherebbe.
E’ una corazza. Per difendersi.
Ci sono momenti in cui il nostro cervello si rifiuta di capire.
Quando muore una persona cara, quando ti licenziano dal posto di lavoro, e quando la tua donna ti dice che ama un altro uomo, che non sei più tu l’idea di futuro che si è costruita, che da questo momento siete due cose diverse.
“Siamo una cosa sola” gridava fino a ieri mentre facevamo l’amore, e ora no, ora c’è un’altra persona.
C’era anche ieri, sicuro, e l’altro ieri, e una settimana fa, e chissà da quanto tempo.
Ma ora, in questo momento, sospesi a decine di metri dal Tamigi, c’è solo lui, e io non ci sono più.
La guardo incredulo, mentre gli occhi le si addolciscono, mentre tenta finalmente di combattere il vento che le scompiglia i capelli e il tornado che le travolge l’anima, e poi smette di combattere, si gira e se ne va.
Apro di nuovo gli occhi e sono seduto in questo ristorante italiano, con una pizza fredda davanti, e penso che non l’ho più vista, non l’ho più sentita, non ho più vissuto.
Da 2.347 giorni, da quel pomeriggio ventoso sul Millennium Bridge.
Decido che mi sono fatto abbastanza male, sono riuscito a resistere per tanto tempo, tanto, tantissimo tempo senza stare male per lei, ma ora che sono qui ho pensato che fosse meglio affrontare l’ordalia, che scappare ancora sarebbe stato inutile, e impossibile, che forse dopo starò meglio.
Non riesco neanche a tagliare un pezzo di quella orribile pizza, perché improvvisa come una folata di vento una macchia rossa compare nel mio campo visivo, e non faccio in tempo ad alzare la testa che i suoi occhi sono lì, di nuovo piantati nei miei.
Qualche ruga, inevitabile, il rosso un po’ scolorito sull’attaccatura dei capelli, le efelidi ingrossate in alcuni punti, le conosco a memoria, ma è sempre lei.
Gli occhi non sono duri come quella volta, come l’ultima volta.
Sono occhi curiosi, e teneri.
– Sandro? – chiedo.
Lei annuisce, divertita pare.
– Sapevo che non mi dovevo fidare di lui. – dico scherzando, e mi stupisco con quale naturalezza io riesca a scherzare con lei.
– Mi ha detto solo che saresti venuto per la comunione, sapevo dove ti avrei trovato. –
Ora è il mio turno annuire, mentre il mio cervello scandaglia frettolosamente ogni singola cellula per controllare se ce ne sia qualcuna che non fa male.
Non ce n’è, è il responso finale. 2.347 giorni e mi fa ancora male tutto davanti a questi occhi.
Lei si fa seria.
– Non voglio sapere della tua vita, e non ti dirò della mia. –
Siamo d’accordo, dico con lo sguardo.
– Sei stato male, e anche io. E forse sarebbe stato meglio non vederci, oggi, qui, ma c’era una cosa che volevo sapere. Che è importante per me, come lo sei stato tu. –
Sei stato. Ha imparato troppo bene l’italiano, questa scozzese dai capelli rossi.
Tanto lo so cosa vuole sapere, e non glie lo negherò.
– Non ti ho dimenticato. Mai. Neanche un momento. Neanche quando altre donne occupavano il mio letto o il mio cuore, neanche quando ho sofferto per persone che se ne andavano per sempre, tu eri sempre lì. Esistevi allora, quando ti tenevo tra le braccia, esisti ora che ti vedo davanti a me, ed esisterai finché avrò la forza di pensare. –
Non mi sono tenuto niente, forse neanche se lo aspettava.
Forse credeva che non le avrei dato quello che voleva, e invece ho rovesciato tutto.
Che senso aveva mentire?
E dire “sono felice”, “non ho più pensato a te”, “davvero sono passati più di sette anni?”.
2.347 giorni. Li ho contati tutti.
Si alza, prende la borsa, va via, non mi sfiora neanche.
La vedo incamminarsi sul Millennium Bridge, la chiusura perfetta di un cerchio imperfetto.
Murakami, sì, ancora una volta.
Neanche tu mi hai mai amato, Sara.

Two lovers

Photo by rodocarda

Sogno

Queste sessione fotografica nasce per illustrare una storia, quasi una poesia.
In origine dovevano essere solo poche foto, ma ho scoperto che ce n’erano molte che mi piacevano, e quindi in fondo troverete lo slideshow di tutte le foto selezionate.
Sperando che vi piacciano 🙂




Daniela VP FINAL LR 7


Sei tu.
All’inizio non riuscivo a capire, ma ora ti vedo bene.
Dio quanto tempo è passato.
E’ un sogno. È un sogno, vero?
Eppure ti vedo così bene.
Sorridi come sempre, ma sei così…giovane.




Daniela VP FINAL LR 3


Non ricordo più da quanto tempo non ti ho vista così.
Eppure sei tu.
Ricordo questo posto, è da tanto che non ci venivamo.
Ti piaceva, dicevi, perché ti faceva sentire libera.
Ora che sei più vicina ti posso vedere meglio.
Sei sempre uguale, ma sì, sempre tu, sempre la stessa.




Daniela VP FINAL LR 9


Sono contento di vederti.
Ma è un sogno, allora?
Eppure sei così vera.
Chiudo gli occhi.
Mi piace il tuo tocco sulle mie mani, mi piace come le tieni.
Anche io stringo le tue, più forte, e tu più forte, e anche io più forte.




Daniela VP FINAL LR 10


Apro gli occhi, per scoprire se sei andata via.
C’è troppa luce, ma ti vedo, sorridi.
Non è un sogno, non può essere.
Sorrido anche io, adesso.
Richiudo gli occhi.
Arrivo.
Aspettami.


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Il ragazzo

La scomparsa di Gabriel Garcia Marquez ci ha privati per sempre di uno dei più grandi narratori di mondi mai esistiti. Ho letto molti suoi libri, e mi sono immerso nei suoi personaggi più e più volte. Ho scritto questo indegno omaggio per salutarlo e ricordarlo.

Era il tramonto di una fredda ma tersa giornata di primavera, quando il ragazzo entrò in paese.
Probabilmente era di passaggio ma finì per rimanere per sempre.
A quell’ora, saranno state quasi le otto, i bravi abitanti di Puerto Rubio erano nelle loro case, chi a cenare con un piatto di minestra ricavata facendo bollire a lungo dei fagioli secchi; chi a sfogare sulla propria moglie le frustrazioni di una vita dura; qualcuno seduto sulle vecchie assi di legno delle povere case, a masticare carrube per far passare la fame.
Fu propriò così che il nonno di mio nonno vide arrivare il ragazzo.
Lo chiamava così, mi hanno raccontato, perché da lontano, il sole alle spalle, la corporatura snella e agile, il passo cauto ma deciso, sembrava un giovane uomo in cerca di avventure.
Solo quando si avvicinò, e salutò il nonno di mio nonno con un cenno della mano senza fermarsi, egli si avvide che non era così giovane come aveva creduto in un primo momento: questa che stava vivendo era almeno la trentesima primavera della sua vita, e in quella parte del mondo a trent’anni non si è più ragazzi da un pezzo.
Ma il mio avo, e tutta la mia famiglia si sono sempre riferiti a lui come “il ragazzo”
Neanche Puerto Rubio era un paese, se vogliamo.
Quattro case malandate lungo una strada, una chiesa in calce bianca, un emporio e un bar: questa era la Puerto Rubio di allora.
Non aveva neanche un fiume o un’insenatura per giustificarne il nome, frutto probabilmente di qualche malinconia dei primi abitanti per altri luoghi, lontani.
Tutto il paese lavorava per la stessa persona: Don Antonio, il proprietario di migliaia di ettari coltivati a granturco, di migliaia di capi di bestiame, di Puerto Rubio, e per quanto ne sapevano gli abitanti del villaggio anche del mondo intero.
Era il giovedì prima di Pasqua, e da settimane le donne erano in fermento, per preparare i festoni, le decorazioni e i vestiti per sé, per le figlie da marito, e per quei buzzurri dei loro mariti.
Le festività pasquali, e i giorni successivi, erano il periodo in cui tipicamente gli abitanti di Puerto Rubio esageravano con l’alcool, mettevano incinte le loro mogli, e combinavano i matrimoni.
Il ragazzo arrivò all’emporio, e chiese dove fosse possibile dormire per la notte.
Il gestore dell’emporio, che come il bar e qualsiasi esercizio commerciale nel raggio di cento chilometri era di proprietà di Don Antonio, si offrì di affittare al ragazzo un letto costituito da un’asse di legno e un materasso fatto di paglia tenuta insieme da strisce di cotone.
Il ragazzo accettò, e fu così che la mattina dopo, di buon’ora, mentre prendeva un caffè, vide arrivare in paese Don Antonio, accompagnato dalla figlia Esmeralda.
Il signore e padrone di Puerto Rubio era vedovo; aveva sposato una donna di rara bellezza, e di origine tedesca, che gli aveva dato quest’unica figlia, anch’essa di una bellezza fuori dal normale.
Dal padre aveva ereditato la pelle scura, e i capelli neri.
Dalla madre l’altezza, le labbra rosse e carnose, e gli occhi azzurri come il lapislazzuli.
Nessuno degli abitanti di Puerto Rubio, nelle rare occasioni in cui la giovane accompagnava il padre, osava fissarla o anche semplicemente guardarla per più di un secondo.
Un paio di temerari avevano assaggiato la frusta degli sgherri di Don Antonio, il quale aveva per la figlia progetti di altro tipo, e non gradiva che quegli straccioni posassero lascivamente i loro occhi sulla fanciulla.
Ma il ragazzo, un forestiero che forse aveva visto ben più di Puerto Rubio nella sua vita, non sapeva tutto questo.
Guardò Esmeralda. Eccome se la guardò, e – che dio abbia pietà della sua anima – lei guardò lui.
Scese dal cavallo, che l’uomo dell’emporio si affrettò a prendere in custodia, e si diresse all’interno del negozio non senza aver fatto un sorriso al ragazzo, che salutò la giovane con un tocco della tesa del cappello.
La scena non sfuggì a Don Antonio, che si avvicinò al ragazzo.
Il paese sembrava essersi fermato.
Tutti erano immobili, in silenzio, il fiato sospeso.
Anche il nonno di mio nonno era presente, e raccontava che non poteva neanche respirare.
Sapete, lui era uno di quelli che aveva osato guardare Esmeralda, e le dieci frustate che Don Antonio gli aveva fatto comminare lasciarono per sempre il loro segno sulla sua schiena.
Arrivato a dieci centimetri da sul viso, senza che il ragazzo abbassasse lo sguardo, Don Antonio chiese sprezzante:
– E tu chi sei? –
Il ragazzo sorrise. Non era un sorriso di sfida, né ironico. Era il sorriso di chi ha visto già molti uomini violenti, dittatori, sbruffoni.
Era un sorriso che sembrava dire: “guardami, sono in pace con me stesso, perché non lo sei anche tu?”
Sfortunatamente era un sorriso che fece irritare moltissimo Don Antonio, il quale senza preavviso mollò un manrovescio al ragazzo, che cadde a terra sanguinante da una guancia, dove l’anello d’argento di Don Antonio gli aveva lasciato un regalo.
– Tra poco sarà Pasqua, e Nostro Signore ci ha insegnato il perdono – disse Don Antonio guardando il ragazzo sdraiato nella polvere, che si toccava la guancia con una mano, e fissava sbigottito l’uomo.
– Per questo non ti farò frustare. – continuò il signorotto – ma giuro sulla Vergine Maria che se ti azzarderai di nuovo a posare quegli occhi laidi su mia figlia, mi implorerai tu stesso di usare la frusta –
Senza attendere risposta si avviò verso l’emporio.
Gli abitanti di Puerto Rubio, in parte spaventati e in parte dispiaciuti di non aver assistito all’esibizione della frusta degli sgherri di Don Antonio, si affrettarono a dileguarsi, lasciando solo il ragazzo, ancora sdraiato a terra.
Alla fine si rialzò, rimase qualche minuto in piedi, serio, guardando in lontananza verso le montagne che si vedevano da decine di chilometri di distanza, e infine entrò nel bar.

Nessuno vide più il ragazzo fino alla sera del giorno di Pasqua.
Molti ritenevano che i consigli di Don Antonio avessero avuto il loro effetto; altri dissero di averci parlato, e che sarebbe dovuto ripartire comunque.
Altri ancora erano sicuri che si fosse nascosto nelle grotte fuori dal paese.
In ogni caso, presi com’erano dai preparativi per la festa, tutti si dimenticarono di lui, compreso Don Antonio.
Non se ne dimenticò Esmeralda però, che passò due giorni a chiedere informazioni su di lui alle sue ancelle e servitrici, ma nessuno le seppe dire nulla.
Alla messa di Pasqua Don Antonio e la figlia, bellissimi nei loro lussuosissimi vestiti, erano come sempre in prima fila per ricevere la benedizione dal Vescovo.
La funzione durò molto, e al termine tutto il paese si avviò verso la residenza di Don Antonio, dove si sarebbe tenuta la tradizionale festa, con cibo, canti e balli offerti dal magnanimo signore e padrone di quelle terre.
Esmeralda avrebbe unicamente ballato con giovani pretendenti di ricche famiglie vicine, e Don Antonio avrebbe valutato se fosse finalmente giunto il momento di combinare il matrimonio di sua figlia.
Il ragazzo comparve ad un angolo della casa, vicino ad un muretto con dei coppi dipinti di colori vivaci e una birra in mano.
Furono in molti a sostenere di averlo visto, ma quando la voce si sparse, lui non era già più lì.
Lo aveva invece notato Esmeralda, che si avvicinò a lui eludendo per un momento il controllo delle sue servitrici.
– Pensavo fossi andato via impaurito – le disse lei sorridendo.
Il ragazzo la guardò serio.
– Non posso più allontanarmi da te, ormai. –
Anche lei si fece seria.
– Cosa sei venuto a fare? – gli chiese.
Stavolta fu lui a sorridere.
– A portarti via con me. Stasera –
Lei gli piantò gli occhi azzurri nelle pupille, lo scrutò a fondo per vedere cosa c’era dietro quell’espressione spavalda.
– Potresti morire, per questo, lo sai. – gli sussurrò.
Lui annuì, abbassando per un momento lo sguardo, come per riflettere.
Poi lo rialzò, deciso.
– Lo so. Se tu vieni con me, ora, può darsi che morirò. Ma se tu non vieni, morirò lo stesso. E sarà una morte lunga, dolorosa, e piena di rimpianti. –
Le porse le mani, e lei le prese senza smettere di guardarlo negli occhi.
Si trovarono dopo poco sul giaciglio di paglia e cotone, a celebrare l’amore tra un uomo e una donna, l’amore che spezza i sigilli e rompe le barriere.
E fu così che Esmeralda conobbe gli uomini, grazie ad un ragazzo che passava per caso in un paesino polveroso.
Per caso?
Il nonno di mio nonno diceva, quando raccontava questa storia, che il destino e il caso sono due cose diverse, e che in quello che legò i due ragazzi non c’era nulla di casuale.
Forse lo diceva con una punta di invidia, chissà, ma io credo che ci credesse veramente.
Fatto sta che la mattina dopo, quando gli abitanti di Puerto Rubio rinvennero dai fumi dell’alcool, sulla grossa croce al centro della piazza issata per le feste pasquali, abbracciato al Cristo morente c’era il ragazzo, inchiodato alle assi di legno come Nostro Signore e frustato a morte.
Nessuno osava dire nulla.
Piano piano tutto il paese si riunì nella piazza, a osservare il ragazzo, senza avere il coraggio di tirarlo giù.
Fu un urlo a squarciare il silenzio.
Esmeralda correva, i piedi nudi nella polvere, verso il centro della piazza, dove il ragazzo aveva pagato caro l’amore per lei.
I paesani si allontanarono di qualche metro, per fare spazio alla giovane.
Lei arrivò davanti al corpo martoriato, e improvvisamente tacque.
Lo guardò per qualche minuto.
Non le scendevano più lacrime.
Si girò e guardò negli occhi gli abitanti di Puerto Rubio.
Il nonno di mio nonno amava raccontare che il blu degli occhi di Esmeralda era insopportabile da guardare, quella mattina.
La ragazza, sempre continuando a fissare tutti, estrasse un coltello da una tasca del vestito, e prima che chiunque potesse fare nulla, se lo conficcò nello stomaco e dopo pochi secondi cadde a terra esanime.

Oggi Puerto Rubio è una cittadina di diverse migliaia di abitanti, e l’alcalde è un uomo simpatico.
Mi ha dato accesso a tutto l’archivio, custodito in perfetto ordine, ma da nessuna parte compare la storia di Esmeralda e del ragazzo, né pare sia mai esistito un Don Antonio così potente.
La mia famiglia vive a Puerto Rubio da generazioni, e io sono il primo che abbia mai studiato e che sia andato a vivere in città, ma torno spesso e ogni volta cerco tracce di questo racconto che fin da bambino mi ha appassionato e avvinto.
Ho sempre pensato che di generazione in generazione la storia avesse cambiato versione, e che ormai non sia più quella raccontata originariamente dal nonno di mio nonno, ma mi sono convinto che in qualche modo ci sia un fondo di verità.
Eppure finora tutte le mie ricerche sono state vane, non ci sono tracce della storia d’amore disperata tra Esmeralda e il ragazzo.
Ma non mi voglio arrendere. Questa storia mi piace molto, e vorrei che da qualche parte trovare traccia della bella Esmeralda, che tanto aveva affascinato il nonno di mio nonno.
E poi, nessuno mi ha saputo spiegare i miei occhi color lapislazzuli.

macondo