Le cose che amo: Londra, la malinconia, la buona letteratura.
Come spesso succede, un racconto ispirato da un viaggio recente.
Mentre mi siedo al tavolino della pizzeria, un tavolino d’angolo davanti ad un finestrone, mi dico che era un bel po’ che non venivo a Londra.
Poi ci penso un attimo, e dico: no, non è un bel po’. Sono esattamente 2.347 giorni.
Forse se guardassi l’orologio potrei anche dire quante ore, ma lascio perdere.
E’ un po’, sì, e non l’avrei fatto se Sandro non avesse insistito affinché venissi su per la comunione del figlio maggiore.
Lui che nasce ateo in una famiglia di atei si è ritrovato un figlio che vuole fare la comunione, e tutto solo perché la scuola cattolica era l’unica dove insegnavano letteratura italiana fin dalle elementari.
– Ti prego non mi lasciare solo nel momento del bisogno. – mi ha detto ridendo al telefono.
Io ho sorriso, e stavo per dire di no, ma poi ho pensato “che cazzo, il mio miglior amico mi invita ad un evento così importante e io non ci vado?”. E allora ho detto sì.
Sono arrivato ieri sera tardi e sono andato subito in albergo, poi stamattina sono andato a salutare Sandro e Laura e i bambini, abbiamo fatto colazione insieme, poi loro avevano delle cose da fare per domani e mi hanno lasciato libero.
Senza una meta precisa mi sono fatto trascinare dai ricordi, e ho preso la metro fino a Liverpool Street.
Ho riconosciuto subito gli odori, l’abbigliamento dei manager della City – tutti uguali nel loro completo scuro, camicia bianca e borsa da postino a tracollo – le frasi spezzettate degli altoparlanti, le urla dei venditori.
Appena fuori dalla metro ho chiuso gli occhi e ho respirato.
Amavo Londra, forse la amo ancora, anche se mi ha tradito.
Qui ho passato i momenti più belli della mia vita e quelli più brutti.
Non ci voglio pensare ora, non proprio ora.
Riapro gli occhi e mi incammino, ho deciso di arrivare fino a Covent Garden passando per Cannon Street e Fleet Street.
Non dovrei andarci, a Covent Garden, ho troppi ricordi di pomeriggi passati seduti ad un tavolino tra tè e risate, a spulciare le bancarelle ogni domenica, a girovagare per l’Apple Store per ore e ore.
Ma non ci sono molti posti in questa città scevri da ricordi. Ci ho passato due anni, due anni con lei, e in due anni abbiamo toccato ogni angolo, ogni pub, ogni museo, ogni singolo London brick.
Abbiamo vissuto questa città come una cosa nostra, e quando una città è tua lo è per sempre.
Mentre mi incammino per Cannon Street non posso fare a meno di ripensare a nove anni fa. A Sandro, sempre lui, che conosce e sposa una ragazza inglese, e mi invita al matrimonio.
Io che ho appena vinto il concorso da ricercatore, lettere antiche per di più, e che mi presento con una vecchia giacca di tweed e una barba incolta che mi fa sembrare più uno studente inglese che un professore italiano.
E poi il matrimonio, la festa, e poi lei.
La migliore amica di Laura, la compagna del college, la scozzese dai capelli rossi e dagli occhi azzurri impossibili, la studentessa di letteratura italiana.
Ricordo il suo italiano incerto di quel giorno, con un accento terribile, un italiano che sarebbe migliorato moltissimo grazie alle passeggiate, le chiacchierate e le notti su un letto di Ikea malridotto, in cui le parole si sovrapponevano si fondevano e se ne creavano di nuove, e alla fine lei parlava un italiano corretto, bello, aggraziato. Come lei.
Non mi accorgo che sono arrivato a Russel Street, e il vecchio mercato di Covent Garden si apre improvvisamente davanti a me.
Mentre mi avvicino la voce di una soprano comincia a coprire i rumori dei passanti, e quando mi affaccio alla balaustra è lì in un angolo che canta arie di opere, canzonette più o meno note, cose così.
Scendo le scale e le lascio mezza sterlina, lei ringrazia con un cenno del capo e resto a guardarla per qualche minuto, poi risalgo e mi dirigo verso lo Strand e da lì arrivo al Southbank.
Prendo fiato, perché il Tamigi mi afferra alla gola, ai polmoni e anche al cuore.
Se penso a tutte le volte che abbiamo fatto questa camminata potrei riconoscere ogni panchina, ogni pesce decorato sui lampioni, ogni anatra che galleggia sull’acqua lurida.
Arrivo al vecchio incrociatore che staziona sul fiume da decenni e una scena mi colpisce: un vecchio, probabilmente un marinaio reduce di qualche guerra, cerca di salire pochi gradini con due bastoni, aiutato da un inserviente.
E’ un lavoro ardimentoso e difficile, che richiedete tempo e pazienza, e io lo guardo senza ironia, incito quel vecchio con il pensiero, e penso che ce la può fare.
Arrivato in cima alle scale improvvisamente si gira e mi guarda: non dice nulla, ma chissà perché sento che mi sta inviando un messaggio.
Abbasso gli occhi, non riesco a reggere quello sguardo fiero, e mi avvio.
Lentamente, perché so cosa mi aspetta.
Il Millennium Bridge.
Quando ci sono ormai sotto e devo solo decidere se salire o meno, le pulsazioni mi salgono a ritmi insostenibili.
Alzo gli occhi al cielo, ed è lo stesso cielo.
Lo stesso di quel giorno: lo stesso vento, le stesse nuvole veloci che rendono impossibile sapere se pioverà o meno tra dieci minuti.
Salgo le scale di marmo, dò un’occhiata distratta a St. Paul, poi imbocco il ponte e quando la Tate Modern si staglia davanti a me il cuore non batte più velocemente come prima.
Semplicemente non batte più.
Chiudo gli occhi sul ponte, e il ricordo di pochi minuti fa me li fa chiudere anche al ristorante, e dagli occhi chiusi di adesso e di prima riappare lei, quel giorno, al matrimonio, con quell’assurdo vestito a fiori che solo le donne britanniche possono indossare, e una coroncina di fiori a tenere fermi i capelli rossi.
Le sue lentiggini che camminano e ruotano sul viso seguendo i suoi sorrisi, le risate, le mosse rapide, l’aggrottare della fronte.
Improvvisamente è lei che voglio. Non ho dubbi. Ci sono venuto fin qui per trovarla e ora non la voglio lasciare.
E così farò, attraverso i primi contatti, le prime uscite avventurose, io che mi invento una scusa per venire a Londra, lei che parte da Edimburgo, e poi la scelta finale.
“Vieni a vivere con me”, le dico. Neanche glie lo chiedo, e lei dice sì, con la testa, in maniera esagerata, facendo ondeggiare i suoi capelli rossi davanti a quegli impossibili occhi azzurri, facendo ballonzolare il seno davanti ai miei occhi perché glie l’ho chiesto mentre era nuda, in bagno, l’ho vista passando e ho detto “Non mi basta più”.
Riapro gli occhi e sono sempre seduto al ristorante, una terribile pizzeria italiana, ad un tavolo d’angolo da cui si vede il Globe Theatre e il Millennium Bridge e tutta la Southbank fino a Canary Wharf.
Il nostro tavolo, quello dove ci sedevamo sempre: o quello o niente diceva lei.
La pizza fa schifo ma la vista è impagabile, aggiungeva, e io mi sono venuto a mettere proprio qui.
Mentre ordino distrattamente penso a tutto quello che ho fatto per lasciare l’Italia, la mia posizione all’Università, la mia famiglia, tutto, per venire qui e stare con lei.
Due anni.
Abbiamo vissuto due anni insieme, due anni che non dimenticherò mai, due anni senza una lira, con contratti a termine, affitti a termine, una vita a termine, e anche l’amore a termine, ora lo so.
Due anni passati a camminare per questa immensa città, io e lei, lei e io, due anni finiti 2.347 giorni fa, proprio lì, sul Millennium Bridge.
Rivedo la scena come fosse ora.
Se sforzo un po’ la fantasia riesco a vedere quei due ragazzi sul ponte.
Lui alto, magro, stempiato, gli occhialini alla John Lennon, un cappotto grigio liso e consunto.
Lei con un vestito a fiori, nonostante il freddo primaverile di Londra, i capelli al vento, ribelli, senza freni.
Non pensavo. Non sapevo. Non immaginavo.
Come al solito dopo aver fatto le scale ho buttato un’occhiata distratta a St. Paul, sì anche quel giorno l’ho fatto, e mi sono incamminato sul ponte.
Solo quando ormai la Tate Modern occupava gran parte del mio spazio visivo, mi sono accorto che lei non c’era.
Mi sono girato, ed era rimasta ferma, a metà del ponte, e mi guardava.
I capelli quasi tutti da una parte le coprivano il viso, il vento freddo che tirava dal Tower Bridge li sferzava senza sosta, ma lei non faceva nulla per sistemarli.
Gli occhi azzurri erano diventati due lame, e me li aveva piantati nei miei.
Lentamente, per paura di scoprire quello che avrei dovuto sentire già, mi sono avvicinato.
L’ho guardata con attenzione, le ho scostato leggermente i capelli dal viso, lei non ha reagito, ha continuato a guardarmi.
– Cosa c’è? – la domanda più stupida dell’universo.
– Promettimi una cosa. – chiede lei senza distogliere lo sguardo.
Sorrido. Un sorriso inutile, perché il cuore già sa che sta per farmi male, ma la testa pensa “Le farò qualsiasi promessa mi chieda, purché resti con me.”
– Certo, qualunque cosa. – dò seguito all’inutile sorriso con parole altrettanto inutili.
– Promettimi che non mi dimenticherai. Che ti ricorderai che io sono esistita. –
Resto a bocca spalancata per un attimo, poi rispondo:
– Murakami. Lo so che l’hai letto. –
Lei distoglie lo sguardo, lo fa vagare verso la nostra pizzeria, dietro le mie spalle.
– Non è colpa mia se lui ha scritto quello che penso. –
Poi, improvvisa, gira di nuovo lo sguardo su di me, stringe le labbra, sembra arrabbiata perché deve farmi male, ma non può evitarlo.
– C’è un’altra persona. – dice.
Un’altra persona, ripeto nella mia mente.
Sapete, ci sono concetti che il nostro cervello fatica ad elaborare.
Non è mancanza di intelligenza, o di razionalità, ci mancherebbe.
E’ una corazza. Per difendersi.
Ci sono momenti in cui il nostro cervello si rifiuta di capire.
Quando muore una persona cara, quando ti licenziano dal posto di lavoro, e quando la tua donna ti dice che ama un altro uomo, che non sei più tu l’idea di futuro che si è costruita, che da questo momento siete due cose diverse.
“Siamo una cosa sola” gridava fino a ieri mentre facevamo l’amore, e ora no, ora c’è un’altra persona.
C’era anche ieri, sicuro, e l’altro ieri, e una settimana fa, e chissà da quanto tempo.
Ma ora, in questo momento, sospesi a decine di metri dal Tamigi, c’è solo lui, e io non ci sono più.
La guardo incredulo, mentre gli occhi le si addolciscono, mentre tenta finalmente di combattere il vento che le scompiglia i capelli e il tornado che le travolge l’anima, e poi smette di combattere, si gira e se ne va.
Apro di nuovo gli occhi e sono seduto in questo ristorante italiano, con una pizza fredda davanti, e penso che non l’ho più vista, non l’ho più sentita, non ho più vissuto.
Da 2.347 giorni, da quel pomeriggio ventoso sul Millennium Bridge.
Decido che mi sono fatto abbastanza male, sono riuscito a resistere per tanto tempo, tanto, tantissimo tempo senza stare male per lei, ma ora che sono qui ho pensato che fosse meglio affrontare l’ordalia, che scappare ancora sarebbe stato inutile, e impossibile, che forse dopo starò meglio.
Non riesco neanche a tagliare un pezzo di quella orribile pizza, perché improvvisa come una folata di vento una macchia rossa compare nel mio campo visivo, e non faccio in tempo ad alzare la testa che i suoi occhi sono lì, di nuovo piantati nei miei.
Qualche ruga, inevitabile, il rosso un po’ scolorito sull’attaccatura dei capelli, le efelidi ingrossate in alcuni punti, le conosco a memoria, ma è sempre lei.
Gli occhi non sono duri come quella volta, come l’ultima volta.
Sono occhi curiosi, e teneri.
– Sandro? – chiedo.
Lei annuisce, divertita pare.
– Sapevo che non mi dovevo fidare di lui. – dico scherzando, e mi stupisco con quale naturalezza io riesca a scherzare con lei.
– Mi ha detto solo che saresti venuto per la comunione, sapevo dove ti avrei trovato. –
Ora è il mio turno annuire, mentre il mio cervello scandaglia frettolosamente ogni singola cellula per controllare se ce ne sia qualcuna che non fa male.
Non ce n’è, è il responso finale. 2.347 giorni e mi fa ancora male tutto davanti a questi occhi.
Lei si fa seria.
– Non voglio sapere della tua vita, e non ti dirò della mia. –
Siamo d’accordo, dico con lo sguardo.
– Sei stato male, e anche io. E forse sarebbe stato meglio non vederci, oggi, qui, ma c’era una cosa che volevo sapere. Che è importante per me, come lo sei stato tu. –
Sei stato. Ha imparato troppo bene l’italiano, questa scozzese dai capelli rossi.
Tanto lo so cosa vuole sapere, e non glie lo negherò.
– Non ti ho dimenticato. Mai. Neanche un momento. Neanche quando altre donne occupavano il mio letto o il mio cuore, neanche quando ho sofferto per persone che se ne andavano per sempre, tu eri sempre lì. Esistevi allora, quando ti tenevo tra le braccia, esisti ora che ti vedo davanti a me, ed esisterai finché avrò la forza di pensare. –
Non mi sono tenuto niente, forse neanche se lo aspettava.
Forse credeva che non le avrei dato quello che voleva, e invece ho rovesciato tutto.
Che senso aveva mentire?
E dire “sono felice”, “non ho più pensato a te”, “davvero sono passati più di sette anni?”.
2.347 giorni. Li ho contati tutti.
Si alza, prende la borsa, va via, non mi sfiora neanche.
La vedo incamminarsi sul Millennium Bridge, la chiusura perfetta di un cerchio imperfetto.
Murakami, sì, ancora una volta.
Neanche tu mi hai mai amato, Sara.
Photo by rodocarda