Estate a Roma

Avevo scritto questo racconto breve per un concorso, poi avrei dovuto limarlo per partecipare e invece mi piaceva così.
Ne scriverò un altro.

Avevo giurato che non ci sarei più tornato, e invece eccomi qua.
Guardo la fontana, con gli scalini pieni di ragazzi accaldati dall’afa di una bella giornata di fine giugno e dalla birra, e mi stupisco di dove mi hanno portato le mie gambe.
Ho una busta in una mano e la borsa nell’altra, e ruoto su me stesso aprendo le braccia come una ballerina per guardare questo universo che avevo quasi dimenticato.
Sbircio il Tevere oltre il parapetto, poi mi giro di nuovo e abbasso gli occhi per guardare il selciato e i miei piedi, come per rendermi conto di essere di nuovo qui, davvero.
Chiudo gli occhi, sperando che il buio cancelli l’immagine che si sta formando nella mia mente, ma è inutile, è tutto inutile.
Lei è ancora lì, che ride nel suo vestito verde, seduta sugli scalini di Piazza Trilussa, e io vicino che abbasso la testa e tengo le braccia appoggiate sul marmo, per paura di toccarla, ma sento il suo calore e il suo respiro, e le braccia si irrigidiscono per il desiderio di tenerla stretta, eppure resisto e continuo a parlare, e sono divertente, perché lei ride, mi prende in giro, è contenta di essere qui con me.
Poi le do’ un foglio.
Lei si fa seria, lo apre e comincia a leggere.
Riapro gli occhi, non voglio vedere: anche se questa scena è solo nella mia mente, non voglio vederla. Giro sui tacchi e attraverso la strada di corsa e vado sul ponte.
Mi affaccio e guardo giù.
Quante volte ci ho pensato, quante volte.
Ma sono troppo vigliacco, ho preferito scappare.
Londra, poi Bangkok, poi addirittura l’Australia.
Lontano, il più lontano possibile da Roma, da questa città che amo e che mi ha fatto così male, da questo caldo opprimente e lo smog che mi fa tossire.
Lontano dal dolore lancinante che mi provoca il ricordo, un ricordo che sulle onde dell’oceano è più delicato, una malinconia di sottofondo, mitigato dai corpi di donne alte e muscolose, con capelli biondi e occhi azzurri impossibili.
E così ho resistito per dieci anni e sono riuscito a vivere.
Oggi però no, oggi non vivo, perché sono di nuovo qua, e il dolore è di nuovo una spada arroventata infilata nel costato, e una mano impietosa che la gira in continuazione, non è possibile sopportarlo.
E allora guardo di nuovo giù: ora che anche i miei non ci sono più lasciarsi cadere è un dolce desiderio.
Ma prima voglio vederla di nuovo.
Rialzo la testa, guardo in direzione di Piazza Trilussa e attraverso di nuovo, e come in un film, un brutto film di fantasmi, lei è lì, con il mio foglio in mano, gli occhi che si allargano mentre procede nella lettura, io che abbraccio le mie gambe e metto la testa tra le ginocchia come un adolescente, lei che finalmente finisce e mi guarda stupita, con la bocca aperta, non dice una parola.
Poi con lenta consapevolezza si alza, mi toglie gentilmente le mani dalle ginocchia, chiude la bocca e addolcisce lo sguardo, si siede sulle mie gambe e mi abbraccia senza dire una parola.
E’ la prima volta che la tocco, e non avevo idea. Nessuna idea che quel contatto avrebbe cambiato la mia vita.
Resto fermo così, con le mia mani sulla sua schiena, sento il suo cuore, il suo seno, il suo respiro, e non ho coraggio di dire nulla.
Devo riaprire gli occhi ora, lo devo fare. So che se li terrò chiusi scenderanno delle lacrime e io non voglio piangere.
Ma non riesco, non riesco proprio a riaprirli.
Sento la busta di plastica nella mia mano, e ne percepisco la leggerezza.
Ma so che anche se non pesa nulla mi farà male.
Apro gli occhi e guardo questa busta, e mi odio per questo, mi odio per averle comprato dei fiori.
Lei non amava i fiori e non li voleva, e l’unica cosa che ho saputo fare per lei è comprare dei fiori e venire qua a piangere.
Mi avvio verso il parapetto, guardo in lontananza il Cupolone, e Castel Sant’Angelo.
Penso che è stato bello nascere qua.
Mi hai fatto male, Roma. Ma non te ne voglio, mi hai dato lei, e ti ringrazio per questo, anche se poi me l’hai tolta.
Getto i fiori sul marmo che c’è sotto.
Arrivo, penso, il tempo del dolore finisce qui.

Roma Acqua Alta 2

Photo by rodocarda

Millennium Bridge

Le cose che amo: Londra, la malinconia, la buona letteratura.
Come spesso succede, un racconto ispirato da un viaggio recente.

Mentre mi siedo al tavolino della pizzeria, un tavolino d’angolo davanti ad un finestrone, mi dico che era un bel po’ che non venivo a Londra.
Poi ci penso un attimo, e dico: no, non è un bel po’. Sono esattamente 2.347 giorni.
Forse se guardassi l’orologio potrei anche dire quante ore, ma lascio perdere.
E’ un po’, sì, e non l’avrei fatto se Sandro non avesse insistito affinché venissi su per la comunione del figlio maggiore.
Lui che nasce ateo in una famiglia di atei si è ritrovato un figlio che vuole fare la comunione, e tutto solo perché la scuola cattolica era l’unica dove insegnavano letteratura italiana fin dalle elementari.
– Ti prego non mi lasciare solo nel momento del bisogno. – mi ha detto ridendo al telefono.
Io ho sorriso, e stavo per dire di no, ma poi ho pensato “che cazzo, il mio miglior amico mi invita ad un evento così importante e io non ci vado?”. E allora ho detto sì.
Sono arrivato ieri sera tardi e sono andato subito in albergo, poi stamattina sono andato a salutare Sandro e Laura e i bambini, abbiamo fatto colazione insieme, poi loro avevano delle cose da fare per domani e mi hanno lasciato libero.
Senza una meta precisa mi sono fatto trascinare dai ricordi, e ho preso la metro fino a Liverpool Street.
Ho riconosciuto subito gli odori, l’abbigliamento dei manager della City – tutti uguali nel loro completo scuro, camicia bianca e borsa da postino a tracollo – le frasi spezzettate degli altoparlanti, le urla dei venditori.
Appena fuori dalla metro ho chiuso gli occhi e ho respirato.
Amavo Londra, forse la amo ancora, anche se mi ha tradito.
Qui ho passato i momenti più belli della mia vita e quelli più brutti.
Non ci voglio pensare ora, non proprio ora.
Riapro gli occhi e mi incammino, ho deciso di arrivare fino a Covent Garden passando per Cannon Street e Fleet Street.
Non dovrei andarci, a Covent Garden, ho troppi ricordi di pomeriggi passati seduti ad un tavolino tra tè e risate, a spulciare le bancarelle ogni domenica, a girovagare per l’Apple Store per ore e ore.
Ma non ci sono molti posti in questa città scevri da ricordi. Ci ho passato due anni, due anni con lei, e in due anni abbiamo toccato ogni angolo, ogni pub, ogni museo, ogni singolo London brick.
Abbiamo vissuto questa città come una cosa nostra, e quando una città è tua lo è per sempre.
Mentre mi incammino per Cannon Street non posso fare a meno di ripensare a nove anni fa. A Sandro, sempre lui, che conosce e sposa una ragazza inglese, e mi invita al matrimonio.
Io che ho appena vinto il concorso da ricercatore, lettere antiche per di più, e che mi presento con una vecchia giacca di tweed e una barba incolta che mi fa sembrare più uno studente inglese che un professore italiano.
E poi il matrimonio, la festa, e poi lei.
La migliore amica di Laura, la compagna del college, la scozzese dai capelli rossi e dagli occhi azzurri impossibili, la studentessa di letteratura italiana.
Ricordo il suo italiano incerto di quel giorno, con un accento terribile, un italiano che sarebbe migliorato moltissimo grazie alle passeggiate, le chiacchierate e le notti su un letto di Ikea malridotto, in cui le parole si sovrapponevano si fondevano e se ne creavano di nuove, e alla fine lei parlava un italiano corretto, bello, aggraziato. Come lei.
Non mi accorgo che sono arrivato a Russel Street, e il vecchio mercato di Covent Garden si apre improvvisamente davanti a me.
Mentre mi avvicino la voce di una soprano comincia a coprire i rumori dei passanti, e quando mi affaccio alla balaustra è lì in un angolo che canta arie di opere, canzonette più o meno note, cose così.
Scendo le scale e le lascio mezza sterlina, lei ringrazia con un cenno del capo e resto a guardarla per qualche minuto, poi risalgo e mi dirigo verso lo Strand e da lì arrivo al Southbank.
Prendo fiato, perché il Tamigi mi afferra alla gola, ai polmoni e anche al cuore.
Se penso a tutte le volte che abbiamo fatto questa camminata potrei riconoscere ogni panchina, ogni pesce decorato sui lampioni, ogni anatra che galleggia sull’acqua lurida.
Arrivo al vecchio incrociatore che staziona sul fiume da decenni e una scena mi colpisce: un vecchio, probabilmente un marinaio reduce di qualche guerra, cerca di salire pochi gradini con due bastoni, aiutato da un inserviente.
E’ un lavoro ardimentoso e difficile, che richiedete tempo e pazienza, e io lo guardo senza ironia, incito quel vecchio con il pensiero, e penso che ce la può fare.
Arrivato in cima alle scale improvvisamente si gira e mi guarda: non dice nulla, ma chissà perché sento che mi sta inviando un messaggio.
Abbasso gli occhi, non riesco a reggere quello sguardo fiero, e mi avvio.
Lentamente, perché so cosa mi aspetta.
Il Millennium Bridge.
Quando ci sono ormai sotto e devo solo decidere se salire o meno, le pulsazioni mi salgono a ritmi insostenibili.
Alzo gli occhi al cielo, ed è lo stesso cielo.
Lo stesso di quel giorno: lo stesso vento, le stesse nuvole veloci che rendono impossibile sapere se pioverà o meno tra dieci minuti.
Salgo le scale di marmo, dò un’occhiata distratta a St. Paul, poi imbocco il ponte e quando la Tate Modern si staglia davanti a me il cuore non batte più velocemente come prima.
Semplicemente non batte più.
Chiudo gli occhi sul ponte, e il ricordo di pochi minuti fa me li fa chiudere anche al ristorante, e dagli occhi chiusi di adesso e di prima riappare lei, quel giorno, al matrimonio, con quell’assurdo vestito a fiori che solo le donne britanniche possono indossare, e una coroncina di fiori a tenere fermi i capelli rossi.
Le sue lentiggini che camminano e ruotano sul viso seguendo i suoi sorrisi, le risate, le mosse rapide, l’aggrottare della fronte.
Improvvisamente è lei che voglio. Non ho dubbi. Ci sono venuto fin qui per trovarla e ora non la voglio lasciare.
E così farò, attraverso i primi contatti, le prime uscite avventurose, io che mi invento una scusa per venire a Londra, lei che parte da Edimburgo, e poi la scelta finale.
“Vieni a vivere con me”, le dico. Neanche glie lo chiedo, e lei dice sì, con la testa, in maniera esagerata, facendo ondeggiare i suoi capelli rossi davanti a quegli impossibili occhi azzurri, facendo ballonzolare il seno davanti ai miei occhi perché glie l’ho chiesto mentre era nuda, in bagno, l’ho vista passando e ho detto “Non mi basta più”.
Riapro gli occhi e sono sempre seduto al ristorante, una terribile pizzeria italiana, ad un tavolo d’angolo da cui si vede il Globe Theatre e il Millennium Bridge e tutta la Southbank fino a Canary Wharf.
Il nostro tavolo, quello dove ci sedevamo sempre: o quello o niente diceva lei.
La pizza fa schifo ma la vista è impagabile, aggiungeva, e io mi sono venuto a mettere proprio qui.
Mentre ordino distrattamente penso a tutto quello che ho fatto per lasciare l’Italia, la mia posizione all’Università, la mia famiglia, tutto, per venire qui e stare con lei.
Due anni.
Abbiamo vissuto due anni insieme, due anni che non dimenticherò mai, due anni senza una lira, con contratti a termine, affitti a termine, una vita a termine, e anche l’amore a termine, ora lo so.
Due anni passati a camminare per questa immensa città, io e lei, lei e io, due anni finiti 2.347 giorni fa, proprio lì, sul Millennium Bridge.
Rivedo la scena come fosse ora.
Se sforzo un po’ la fantasia riesco a vedere quei due ragazzi sul ponte.
Lui alto, magro, stempiato, gli occhialini alla John Lennon, un cappotto grigio liso e consunto.
Lei con un vestito a fiori, nonostante il freddo primaverile di Londra, i capelli al vento, ribelli, senza freni.
Non pensavo. Non sapevo. Non immaginavo.
Come al solito dopo aver fatto le scale ho buttato un’occhiata distratta a St. Paul, sì anche quel giorno l’ho fatto, e mi sono incamminato sul ponte.
Solo quando ormai la Tate Modern occupava gran parte del mio spazio visivo, mi sono accorto che lei non c’era.
Mi sono girato, ed era rimasta ferma, a metà del ponte, e mi guardava.
I capelli quasi tutti da una parte le coprivano il viso, il vento freddo che tirava dal Tower Bridge li sferzava senza sosta, ma lei non faceva nulla per sistemarli.
Gli occhi azzurri erano diventati due lame, e me li aveva piantati nei miei.
Lentamente, per paura di scoprire quello che avrei dovuto sentire già, mi sono avvicinato.
L’ho guardata con attenzione, le ho scostato leggermente i capelli dal viso, lei non ha reagito, ha continuato a guardarmi.
– Cosa c’è? – la domanda più stupida dell’universo.
– Promettimi una cosa. – chiede lei senza distogliere lo sguardo.
Sorrido. Un sorriso inutile, perché il cuore già sa che sta per farmi male, ma la testa pensa “Le farò qualsiasi promessa mi chieda, purché resti con me.”
– Certo, qualunque cosa. – dò seguito all’inutile sorriso con parole altrettanto inutili.
– Promettimi che non mi dimenticherai. Che ti ricorderai che io sono esistita. –
Resto a bocca spalancata per un attimo, poi rispondo:
– Murakami. Lo so che l’hai letto. –
Lei distoglie lo sguardo, lo fa vagare verso la nostra pizzeria, dietro le mie spalle.
– Non è colpa mia se lui ha scritto quello che penso. –
Poi, improvvisa, gira di nuovo lo sguardo su di me, stringe le labbra, sembra arrabbiata perché deve farmi male, ma non può evitarlo.
– C’è un’altra persona. – dice.
Un’altra persona, ripeto nella mia mente.
Sapete, ci sono concetti che il nostro cervello fatica ad elaborare.
Non è mancanza di intelligenza, o di razionalità, ci mancherebbe.
E’ una corazza. Per difendersi.
Ci sono momenti in cui il nostro cervello si rifiuta di capire.
Quando muore una persona cara, quando ti licenziano dal posto di lavoro, e quando la tua donna ti dice che ama un altro uomo, che non sei più tu l’idea di futuro che si è costruita, che da questo momento siete due cose diverse.
“Siamo una cosa sola” gridava fino a ieri mentre facevamo l’amore, e ora no, ora c’è un’altra persona.
C’era anche ieri, sicuro, e l’altro ieri, e una settimana fa, e chissà da quanto tempo.
Ma ora, in questo momento, sospesi a decine di metri dal Tamigi, c’è solo lui, e io non ci sono più.
La guardo incredulo, mentre gli occhi le si addolciscono, mentre tenta finalmente di combattere il vento che le scompiglia i capelli e il tornado che le travolge l’anima, e poi smette di combattere, si gira e se ne va.
Apro di nuovo gli occhi e sono seduto in questo ristorante italiano, con una pizza fredda davanti, e penso che non l’ho più vista, non l’ho più sentita, non ho più vissuto.
Da 2.347 giorni, da quel pomeriggio ventoso sul Millennium Bridge.
Decido che mi sono fatto abbastanza male, sono riuscito a resistere per tanto tempo, tanto, tantissimo tempo senza stare male per lei, ma ora che sono qui ho pensato che fosse meglio affrontare l’ordalia, che scappare ancora sarebbe stato inutile, e impossibile, che forse dopo starò meglio.
Non riesco neanche a tagliare un pezzo di quella orribile pizza, perché improvvisa come una folata di vento una macchia rossa compare nel mio campo visivo, e non faccio in tempo ad alzare la testa che i suoi occhi sono lì, di nuovo piantati nei miei.
Qualche ruga, inevitabile, il rosso un po’ scolorito sull’attaccatura dei capelli, le efelidi ingrossate in alcuni punti, le conosco a memoria, ma è sempre lei.
Gli occhi non sono duri come quella volta, come l’ultima volta.
Sono occhi curiosi, e teneri.
– Sandro? – chiedo.
Lei annuisce, divertita pare.
– Sapevo che non mi dovevo fidare di lui. – dico scherzando, e mi stupisco con quale naturalezza io riesca a scherzare con lei.
– Mi ha detto solo che saresti venuto per la comunione, sapevo dove ti avrei trovato. –
Ora è il mio turno annuire, mentre il mio cervello scandaglia frettolosamente ogni singola cellula per controllare se ce ne sia qualcuna che non fa male.
Non ce n’è, è il responso finale. 2.347 giorni e mi fa ancora male tutto davanti a questi occhi.
Lei si fa seria.
– Non voglio sapere della tua vita, e non ti dirò della mia. –
Siamo d’accordo, dico con lo sguardo.
– Sei stato male, e anche io. E forse sarebbe stato meglio non vederci, oggi, qui, ma c’era una cosa che volevo sapere. Che è importante per me, come lo sei stato tu. –
Sei stato. Ha imparato troppo bene l’italiano, questa scozzese dai capelli rossi.
Tanto lo so cosa vuole sapere, e non glie lo negherò.
– Non ti ho dimenticato. Mai. Neanche un momento. Neanche quando altre donne occupavano il mio letto o il mio cuore, neanche quando ho sofferto per persone che se ne andavano per sempre, tu eri sempre lì. Esistevi allora, quando ti tenevo tra le braccia, esisti ora che ti vedo davanti a me, ed esisterai finché avrò la forza di pensare. –
Non mi sono tenuto niente, forse neanche se lo aspettava.
Forse credeva che non le avrei dato quello che voleva, e invece ho rovesciato tutto.
Che senso aveva mentire?
E dire “sono felice”, “non ho più pensato a te”, “davvero sono passati più di sette anni?”.
2.347 giorni. Li ho contati tutti.
Si alza, prende la borsa, va via, non mi sfiora neanche.
La vedo incamminarsi sul Millennium Bridge, la chiusura perfetta di un cerchio imperfetto.
Murakami, sì, ancora una volta.
Neanche tu mi hai mai amato, Sara.

Two lovers

Photo by rodocarda

Se essere felice

L’uomo che entra nella stanza d’albergo è stanco.
Lo si vede dal passo trascinato, dal leggero strato di sudore che gli permea il viso, dalle occhiaie nascoste appena dagli occhiali e dalle spalle curve che portano le borse.
Ha un trolley in una mano, uno zaino sulle spalle, una borsa con il computer e appoggia tutto a terra appena entrato.
Senza neanche togliersi il cappotto si avvia lentamente verso la finestra.
Ha sulle spalle oltre diciotto ore di viaggio, uno scalo tecnico ad Atlanta, il ritardo di un aeromobile, la fila per l’immigrazione, la fila per l’auto a nolo, quasi un’ora di macchina per raggiungere l’albergo e nove ore di fuso orario.
Almeno, pensa guardando fuori dalla finestra, il panorama dal trentesimo piano di questo albergo immenso è interessante.
Anche se la skyline di Los Angeles non è certo quella di Manhattan è sempre impressionante ammirare queste città americane dall’alto.
Rimane un minuto a osservare fuori, poi si volta e i suoi occhi guardano con cupidigia l’enorme letto king-size.
Vorrebbe tuffarsi sulle coperte così come sta, senza neanche spogliarsi, e dormire per due giorni.
Invece lentamente si spoglia e si avvia verso il bagno.
Apre l’acqua della doccia e appena sente che la temperatura è giusta si infila sotto, e poi non si muove più.
Rimane così, immobile, per minuti interi, aspettando chissà cosa, evitando di pensare, lasciando che l’acqua bollente gli martelli la schiena mentre le braccia sono avvolte intorno al corpo.
Finalmente decide di averne abbastanza, o forse teme di addormentarsi nella doccia, in ogni caso chiude l’acqua ed esce, asciugandosi con un grande telo che poi mette intorno alla vita.
Mentre esce dal bagno prende un asciugamano più piccolo e se lo mette sulla testa, e così, come protetto da un’armatura di spugna, si appoggia sul bordo del letto.
Fuori dalla finestra il sole sta tramontando e il riflesso su un grattacielo lo illumina perfettamente dalla testa ai piedi, mentre il resto della stanza comincia a diventare buio.
Chiude gli occhi per godersi la luce, poi abbassa di nuovo la testa, che è nascosta dal telo.
Prende il cellulare e compone un numero.
Dopo qualche secondo dall’altra parte si sente uno squillo e poi una voce risponde.
E’ la voce di un uomo.
– Pronto? –
– Papà…ciao…- dice l’uomo seduto sul letto.
– Ehi tesoro, ciao. Come stai? E’ andato tutto bene il viaggio? – la voce è di un uomo anziano, forse vecchio, ma vitale e pronta.
– Sì…sì…il viaggio è andato bene. Sono in albergo ora. –
La voce è esitante.
Prima che il padre possa rispondere, l’uomo sul letto dice:
– Sto male papà. –
Silenzio. L’uomo dall’altra parte del mondo sta riflettendo.
– I ragazzi stanno bene vero? Il lavoro? –
– Certo, sì, i ragazzi stanno bene, ci ho parlato durante lo stopover, li chiamo tra un po’ prima che vadano a scuola. – fa una piccola pausa poi aggiunge – Il lavoro va bene, non mi lamento dai. –
Attende.
Il padre respira piano, si capisce che sta decidendo cosa dire e come dirlo.
– Non è per Sandra vero? –
L’uomo sul letto si mette una mano dietro la nuca. Non sa perché gli ha detto questa cosa, e ora non può più fare finta di niente.
– No. Non è per Sandra. –
E’ tutto chiaro. Sono due uomini che si conoscono, legati dal sangue e dalla vita, non c’è bisogno di tante parole.
Immagina il padre a casa, seduto sul divano, che annuisce. Ed è proprio così.
Poi l’uomo dall’altra parte dell’oceano continua, senza preavviso, e non sono domande inutili ma dati di fatto.
– Lei è andata via. Per un momento hai pensato che rimanesse nella tua vita. Ora invece sai che non succederà. Pensi che avresti potuto fare qualcosa, che hai sbagliato a dire delle parole, a fare o non fare delle cose, ti stai colpevolizzando, stai male per un sacco di motivi e non riesci a trovare una ragione. –
Le lacrime bollenti che rigano le guance dell’uomo seduto sul letto sono il segno più evidente che suo padre ha capito tutto.
Non potrà aiutarlo, forse, ma almeno ha capito.
– Sì… – sussurra piano. Che altro c’è da dire?
L’uomo dall’altro capo del telefono si schiarisce la voce.
– Ti ho mai raccontato di Lisa? –
– No. Chi è Lisa. – chiede il figlio, domandandosi cosa c’entri con quello di cui stanno parlando.
– Beh, Lisa è…o meglio era la tua…come si chiama? –
– Anna. Si chiama Anna. –
– Era la tua Anna. Quando l’ho conosciuta tu avrai avuto forse dieci anni e tuo fratello otto. Era bellissima. Rossa naturale, occhi verdi brillanti, una ragazza che affrontava la vita con un sorriso meraviglioso. In un attimo non ho capito più niente. Sono stati mesi di passione, di difficoltà, di gioie e di dolori. Poi improvvisamente è andata via. E io sono stato male, malissimo. Come te ora. –
Si mette le mani sugli occhi per pulire le lacrime.
Mal comune mezzo gaudio. E’ questo che stai cercando di dirmi papà?
Però non lo interrompe, capisce che suo padre ha altro da dire.
– L’altro giorno sono andato da Castroni a Via Cola di Rienzo, per comprare delle liquirizie. –
– Ma se a te la liquirizia non piace! – lo interrompe l’uomo nella stanza d’albergo.
– A tua madre sì. – dice il padre sorridendo – A lei piacevano molto e ogni tanto vado a comprarle, ne mangio una per lei e le altre le butto. Ci metto una settimana a riprendermi dal sapore della liquirizia, ma mi sembra di aver fatto una bella cosa. –
Lui sorride al pensiero del padre che compra le liquirizie per sua madre che non c’è più. Però non stanno parlando di liquirizia, ora.
– Che cosa c’entra questo papà? Non capisco. –
Ancora una volta l’uomo anziano al telefono sorride. Sente l’impazienza e la sofferenza del figlio e lo vuole aiutare, se può.
– Mentre ero lì – continua – vedo una donna di spalle con un bimbetto per la mano di due o tre anni. Anche da dietro, anche dopo quaranta anni, non potevo non riconoscerla. Capisci? Era Lisa. Non la vedevo da quasi quaranta anni. L’ho chiamata: “Lisa..”. Lei si è girata. I capelli rossi, anche se non più il suo rosso naturale, gli occhi verdi brillanti come allora. Le rughe? meravigliose. Mi ha fatto un sorriso, e io in un attimo mi sono ricordato tutto, di come era bella, appassionata, di come fosse morbida la sua pelle, e calde le sue lacrime. Di come abbiamo riso, e pianto e ci siamo abbracciati. Di come ad un certo punto la sua assenza mi è sembrata insopportabile. Forse anche lei ha pensato lo stesso. Mi si è avvicinata. “Ciao…” mi ha detto “Come stai…quanto tempo…ti trovo bene…” Le ho sorriso. “E’ tuo nipote?” Le ho chiesto. Il suo sorriso si è allargato. “Sì. Figlio di mia figlia. Per il momento è l’unico, ma ho buone speranze. “ Ho annuito mentre la guardavo. Quella che vedevo era una donna anziana, ma bellissima. E’ più giovane di me, sai. Molto più giovane. Ma se io sono vecchio ormai anche lei è anziana. E’ una nonna. Ma una nonna bellissima. “Io ho tre nipoti.” le ho risposto, “Ho due figli maschi e tre nipoti maschi. Le femmine non ci vengono.” ho detto scherzando “Però i miei sono già grandicelli, vanno tutti e tre alle medie”. Poi abbiamo finito i convenevoli. Ci siamo guardati. Il rimpianto, il ricordo, il tempo, l’amore perduto, le scelte fatte, gli anni vissuti, gli altri amori, tutto ci è venuto addosso. Ci siamo guardati per un minuto, poi lei ha detto solo: “Devo andare”. Io allora le ho detto: “Aspetta.” Lei si è fermata e mi ha guardato incuriosita. Ho aperto il portafoglio, e ho preso un foglietto, che tengo da sempre in tasca. L’ho protetto con della plastica trasparente per non farlo sgualcire, per questo è durato così a lungo. L’ho tolto dalla plastica. “Questo è tuo. Vorrei che lo riprendessi.” Lei lo ha preso, lo ha rigirato tra le mani senza leggerlo. Sapeva benissimo cosa c’era scritto: “Devo andare avanti. Non posso fermarmi qua. Ti auguro ogni bene. Lisa.” Si è portata la mano alla bocca per non piangere, mentre io le dicevo “Il tuo augurio ha funzionato. Ho avuto alla fine una bella vita. E anche tu, vedo.“ Lei ha annuito, ha messo il foglietto nella borsa ed è andata via senza dire altro, senza girarsi. E’ fatta così, Lisa. Così come Anna, immagino. Donne importanti, forti, che prendono decisioni per se stesse e per gli altri. Donne da ammirare. –
L’uomo che siede sul bordo di un letto, in un albergo di Los Angeles, piange a dirotto. Singhiozza senza ritegno, come se non fosse un uomo di quasi cinquanta anni, ma un ragazzino di dieci che ha perso la mamma.
Piange mentre la lama di luce che si assottiglia sempre di più fa brillare le sue lacrime contro la parete buia.
Piange e non si dà pace.
– Mi stai spezzando il cuore papà, perché mi hai raccontato tutto questo? Pensi che la tua sofferenza e il tuo rimpianto possano mitigare il mio? Sapere che hai vissuto una vita senza la donna che pensavi di amare non mi fa stare meglio, mi distrugge. –
Il padre sorride, sospira, poi chiede:
– Ti piacciono ancora i Beatles? –
Lui annuisce, tra i singhiozzi, come se il padre potesse vederlo, poi dice:
– Sì, li sento ancora tutti i giorni. –
– E allora ricorderai l’ultima cosa che ci hanno lasciato: “In the end, the love you take is equal to the love you make”. Non ti devi disperare. L’amore che hai dato tornerà. A te, a lei, ai tuoi figli. A qualcuno. Non è sprecato. Se hai molto amato, qualcuno sarà amato altrettanto. Forse sarai tu stesso, ma non è importante. Anna avrà una vita meravigliosa, come l’ha avuta Lisa, e come l’ho avuta io. E se la incontrerai tra qualche anno, magari tra molti anni, lo capirai. Hai un suo biglietto vero? –
E’ stupito, l’uomo seduto sul letto con un asciugamano a coprire le lacrime. Sta già cominciando a capire. Questo legame che scopre ora con suo padre forse è già l’amore che ritorna.
– Sì…una lettera… –
– Non la buttare mai. Tienila con te. Qualsiasi cosa ci sia scritta. Glie la darai quando sarà pronta. Lei non lo sa, ma il tuo amore la accompagnerà per sempre. Anche quando non penserai più tutto il giorno a lei, anche quando magari ci sarà un’altra donna, oppure nessuna. Quello che hai dato e quello che hai ricevuto è l’unica cosa che conta. E adesso vai a dormire. Chiamami. Quando vuoi, va bene? –
– Certo papà. Ti chiamo domani. E…grazie. –
Attacca il telefono, si alza, va verso la finestra.
Le luci della metropoli hanno rimpiazzato il sole cocente della California.
Pensa ad Anna, a Lisa, a suo padre, a sua madre, a Sandra.
Pensa all’amore che è passato in mezzo a tutti questi cuori, e finalmente sorride.
GRattacielo New York

Photo by rodocarda

Il Degustatore

Tra gli infiniti personaggi che si possono incontrare in autogrill il più fastidioso, antipatico, irragionevole, inviso alle masse è colui che potremmo chiamare il Degustatore.
Costui non fa parte di quella schiera di forzati dell’automobile che per lavoro o per vacanza percorrono avanti e indietro le autostrade del Bel Paese, e che per riuscire a fare 500 km senza andare a sbattere devono ogni tanto fare un pit stop caffè-pipì-bigliettolotteria.
No.
Lui si ferma in autogrill perché il caffè è BUONO.
E non deve pisciare, fare benzina, comprare il giornale, cambiare il pannolino al pupo, mangiare il muffin al mirtillo.
No.
Lui deve prendere un caffè e gustarlo fino all’ultima goccia.
E sticazzi se dietro c’è una fila di persone con lo scontrino in mano, che gli sta praticamente con le palle attaccate alla coscia, e che deve pisciare, fare benzina, etc etc etc.
Lui il caffè intanto lo chiede in combinazioni che prevedono baristi con la laurea in ingegneria chimica: macchiato freddo, al vetro, cacao sotto e supercazzola brematurata sopra.
Poi non lo beve subito, eccheccazzo.
Prima, lo OSSERVA.
Lo guarda e lo traguarda, gira la tazzina in tutte le direzioni, come se ne dovesse fare una fotocopia in 3D.
Si assicura che il colore, la temperatura, la densità, la tensione superficiale, siano a norma ISO, ovviamente l’ISO che alberga in quella sua testaccia di cazzo.
Mentre voi avete le ginocchia che stringono disperatamente la vescica, oppure il pupo che strilla perché vuole le Haribo, lui finalmente si accinge a berlo.
Occhi pieni di speranza si accendono dietro di lui, speranza vana, perché lui il caffè non lo sorbisce: lo assapora.
Lentamente.
Probabilmente nel tempo che lui beve il caffè voi fareste in tempo ad andare in Brasile a comprare una fornitura di chicchi del Mato grosso, ma ormai avete fatto lo scontrino e poi, checcazzo, lo sta bevendo, quanto ci potrà mettere ancora?
Tanto, mortaccisua.
Perché anche quando il caffè è finito, o almeno così sembra a voi, il Degustatore prende il cucchiaino e con voluttà raspa la tazzina o il bicchiere finché anche l’ultima traccia di emulsione non sia finita sulla sua lingua.
Solo allora, sempre con la flemma che lo contraddistingue, il Degustatore decide di levarsi dai coglioni e si gira, stupito di trovarsi davanti decine di scontrini con dietro facce stravolte dalla rabbia.
Egli, contento e soddisfatto, si avvia ignaro verso la sua automobile, per riprendere il viaggio verso il prossimo autogrill.
Se siete un Degustatore e vi siete riconosciuti in questa descrizione vi do un consiglio: fate sempre controllare freni, olio, gomme prima di ripartire.
Qualcuno potrebbe pensare che un vaffanculo non sia sufficiente per sfogarsi.

caffè

Destino

Chi non ha un grande amore perduto nella sua vita?
Un racconto per farvelo ricordare.

Separatore

In qualche modo me lo sentivo.
Non so dire perché, ma così come avevo evitato la stazione di Padova per cinque anni avrei dovuto farlo ancora a lungo.
In quei cinque anni avevo fatto di tutto per stare lontano da te, preso aerei per destinazioni improbabili, noleggiato auto nel cuore della notte, dormito in hotel distanti centinaia di chilometri.
Poi mi dicono: vai a Venezia al posto del collega, abbiamo già fatto i biglietti, parti domattina.
Si può rimanere insonni solo perché un treno passerà a meno di due chilometri da te?
Sì. Si puó.
E mentre mi avviavo a salire sul mio vagone mi dicevo che per quel che ne sapevo io tu potevi aver cambiato città, o in quel momento trovarti in Australia per lavoro; che le probabilità di incontrarti erano zero e che solo un malato di mente come me poteva stare male per una cosa del genere.
Fino a Bologna il mio viaggio fu tranquillo, solo un leggero malessere generale segnalava la mia inquietudine, ma niente che non potessi tenere a bada con un leggero tranquillante.
A Reggio Emilia cominciai a sudare. Sapevo che era sciocco, che stare male per una persona che non vedevo da anni e che non avrei probabilmente più rivisto non aveva senso, ma non potevo controllarmi.
Decisi di provare a dormire e chiusi gli occhi, ed effettivamente mi appisolai per un po’.
Molto poco però, perché non passò molto tempo prima che l’altoparlante annunciasse l’arrivo alla stazione di Padova.
Da questo punto in poi tutto si svolse al rallentatore, con una lentezza che sembrava studiata appositamente per acuire la mia pena.
Appoggiai la testa al finestrino, guardai lungo la banchina, e come nel peggiore dei miei incubi – o dei miei sogni – tu eri lì.
Avevi tagliato i capelli ed eri forse più elegante, ma sempre sorridente e in bilico su due tacchi impossibili.
Non eri sola. No.
Eri con un uomo, e con un bimbetto di pochi anni.
Se qualcuno da dentro mi avesse stretto il cuore fino a farmi morire probabilmente avrei sofferto di meno.
Silenziosamente pregai: “Signore, fa che non venga qua, fa che non mi veda.”
Certo, per uno come me che non crede in dio pregarlo solo quando serve non può essere efficace, questo lo capisco. Ma, Signore, non c’era bisogno di accanirsi su questo povero peccatore.
Quando entrasti nel vagone distolsi lo sguardo. Ero sicuro che mi avevi visto, ma speravo che anche tu riuscissi a fare finta.
Solo quando vidi che il tuo compagno controllava i biglietti e vi siedevate vicino a me capii che la mia vita ricostruita faticosamente in cinque anni stava per andare in frantumi di nuovo.
Tu davanti a me, con tuo figlio vicino. Lui accanto a me.
Ti ho guardato. Cos’era esattamente quello che ho visto nei tuoi occhi? Pietà? Astio? Rancore? Rimpianto?
Io non dissi nulla, nulla di nulla, e neanche tu.
Continuai a guardarti, e tu di rimando.
Tuo figlio si addormentò presto e lui…lui non capiva.
Ci guardava stupito, sembrava che fosse capitato in un film. Un brutto film, uno di quei film americani apocalittici in cui alla fine non si salva nessuno.
Il tragitto fino a Mestre non durò molto, ma lo passammo così, dicendoci con gli occhi quello che non eravamo riusciti a dirci in cinque anni, con le pulsazioni a mille e il sudore copioso.
Provavo pena per l’uomo che era accanto a me.
Ti aveva accanto ma non ti avrebbe avuto mai così.
E provavo pena anche per me.
Ti avevo dentro ma non vicino, e non avrei avuto mai un figlio con te.
Pietosa la stazione di Mestre arrivò improvvisa e tu ti alzasti di scatto.
Anche lui si alzò, e anche io.
Rimanemmo così tutti quanti senza dire niente per qualche secondo, poi lui prese in braccio il bambino e scese di corsa.
Tu facesti un gesto per seguirlo, poi senza preavviso ti girasti e mi desti quel bacio, quell’unico bacio, che mi porto dentro da una vita, prima di scomparire di nuovo e per sempre.
Io scesi a San Marco.
Mi veniva da vomitare.
Corsi fuori a respirare un po’ d’aria, chiusi gli occhi per un minuto e poi li riaprii.
Una bella giornata di sole, a Venezia, per morire.


Stazione

Il mare

Era il primo di maggio del 1975, il primo giorno che vidi il mare. Me lo ricordo benissimo.
Perché sebbene dal paesino abruzzese dove abitavo il mare non fosse poi così lontano – da nessuno dei due versanti – non c’ero mai stato.
La mia era una vita di paese, limitata al villaggio d’origine e quelli confinanti.
Anche l’Aquila, in teoria solo ad un’ora di pullman, era una destinazione esotica per noi.
Non c’erano soldi, non c’era tempo, non c’era nessuno con una macchina.
Eravamo io, mia mamma e i nonni. Mia madre aveva continuato a vivere dai nonni anche dopo che ero nato io, in quella piccola fattoria che a fatica mandavano avanti in un territorio così aspro.
Lei aveva dovuto crescermi da solo, tra difficoltà di tutti i tipi e l’incredibile ostilità dei paesani che non avevano perdonato a quella ragazza così bella di aver buttato via la sua vita così giovane.
Mio padre, non sapevo neanche chi fosse; mia madre non ne parlava quasi mai, e comunque già allora avevo il sospetto che il suo operato si fosse limitato alla fornitura del seme per poi scomparire nel nulla.
Avevo quasi dodici anni all’epoca, facevo la prima media in un paesino vicino, e tutto sommato la mia vita poteva dirsi felice.
La mamma aiutava i nonni con la fattoria e arrotondava ogni tanto con dei lavoretti a casa delle persone più anziane.
Da mangiare non ci mancava ma non avevamo certo la possibilità di fare delle vacanze, e quindi tutta l’estate ce ne restavamo alla fattoria, magari prendendoci qualche giorno di riposo in più, oppure andando a fare lunghe passeggiate nei campi, e la sera si mangiava spesso insieme ai proprietari delle fattorie vicine e si organizzavano lunghissime partite di pallone, mentre gli anziani si scannavano a briscola e tressette.
L’unica che sembrava non partecipare era lei. Mia madre.
Ma era serena, o almeno così mi sembrava.
Era solita sedersi sui gradini di ingresso della casa a godersi il chiasso che facevano gli ospiti.
Ogni tanto doveva accompagnare al bagno qualche ragazzino che si era sbucciato un ginocchio cadendo e lo faceva sempre con gentilezza e un sorriso.
Ma non potevamo permetterci di andare al mare.
Neanche a casa di un amico che aveva un piccolo appartamento a Tortoreto e che mi invitava tutti gli anni: mia mamma diceva che non potevamo semplicemente andare lì e soggiornare gratuitamente, che avremmo dovuto portare un regalo, dividere le spese e semplicemente non avevamo soldi sufficienti.
Un paio di volte andammo a fare il bagno ad un lago là vicino.
Anche se era abbastanza grande da poter immaginare di essere al mare, con la riva di ciottoli degradanti e le onde sugli scogli, chissà perché non mi dava soddisfazione.
Quell’acqua oleosa che mi scorreva sulla schiena non mi piaceva, e il fatto di vedere le montagne intorno fin dove era possibile guardare non mi faceva per niente sentire di essere al mare.
Ma ero già maturo per la mia età e capivo la situazione, e in fin dei conti avrei avuto tempo per andare al mare, magari dopo laureato, pensavo, fantasticando di comprare una macchina ed essere io a portarci mia madre e non viceversa.
Spesso mi addormentavo con quel pensiero, quel sogno, e chissà perché anche se non lo avevo mai visto il mare esercitava su di me un fascino così grande.
Quella mattina, il primo di maggio del 1975, mia madre mi svegliò che ancora non si vedevano le luci dell’alba.
– Vincè! Svegliati a mamma. Esci dal letto, preparati! –
Aprii gli occhi, vidi che fuori era buio, e dissi:
– Ma mamma, oggi non ci sta scuola! –
Lei mi guardò sorridendo, poi rispose:
– Lo so. Oggi andiamo al mare. –
Il mare! Il mare…
Scattai dal letto e cominciai a prepararmi di corsa.
Correvo per tutta la casa con un sorriso ebete in faccia, e alla fine mi misi davanti alla porta di casa, maglietta, pantaloncini, ciabatte, e una cartella con dentro asciugamano, panini e una bottiglia d’acqua che pesava un accidenti perché era di vetro.
Mia madre mi squadrò, ma ridendo disse solo:
– Andiamo! –
Prendemmo il pullman per L’Aquila, che ci mise una vita perché nel nostro paese il primo di maggio è sacro e non lavora nessuno e dovemmo aspettare quasi un’ora prima che arrivasse un autista assonnato.
Poi da L’Aquila prendemmo un pullman di linea più grande per Pescara.
Il viaggio lo feci attaccato al finestrino a guardare fuori: anche se conoscevo un po’ la mia zona non ero mai stato così lontano da casa, e quei luoghi, seppur famigliari, mi erano sconosciuti.
Quando arrivammo vicino al Gran Sasso rimasi stupito di vederne le cime innevate.
Era stato un inverno rigido, e anche se in basso faceva abbastanza caldo da rimanere solo con la maglietta, la neve non si era sciolta del tutto.
Mi sembrava un miracolo: noi che andavamo al mare e la neve sulla montagna così vicina.
Ogni tanto mi giravo a guardare mia madre, e invariabilmente la trovavo con lo sguardo su di me.
Mi sorrideva, io le davo magari un bacio, e poi mi rimettevo col naso incollato al vetro a guardare la strada che scorreva e a contare le macchine rosse.
Non so perché mi piacevano le macchine rosse, indipendentemente dalla marca.
Il rosso era il mio colore preferito. Dopo il blu, s’intende: il blu del mare.
Quando il pullman arrivò a Pescara non stavo più nella pelle.
Presi mia madre per la mano e la trascinai, anche se non sapevo dove andare.
Probabilmente non lo sapeva bene neanche lei, perché anche se ne sentivamo il profumo non riuscivamo a raggiungerlo, e alla fine, dopo aver svoltato in una stradina, ce lo trovammo davanti.
No. Il lago non era la stessa cosa.
Un’immensa distesa di acqua, con le onde che si alzavano ruggendo.
La sabbia finissima e bianca.
Il vento che ci spingeva verso la riva.
Rimanemmo così, madre e figlio, estasiati per un minuto, poi corremmo insieme verso la spiaggia.
Io mi spogliai al volo e mi buttai in acqua senza pensare alla temperatura.
Abituato com’ero al clima rigido della montagna non avevo certo paura dell’acqua di mare a Maggio.
Feci cenno a mia madre di entrare ma lei disse di no con la testa e si mise seduta su un asciugamano, vicino alla riva.
Non si tolse il vestito, un vestito strano dai disegni improbabili, forse dei fiori stilizzati chissà. Tirava vento ma non si legò i capelli, anche se aveva con sé forcine ed elastici.
Aveva capelli biondi, mia madre, lunghi e sottili, e il vento rapidamente glie li intrecciò, ma lei non ci fece caso.
Continuava a sorridermi con le labbra rosa, sottili ma delicate, su un viso affilato e un mento a punta.
Era snella, nonostante la gravidanza e il lavoro duro, e bella.
Ed era giovane. Non aveva neanche trent’anni quel giorno, mia madre. Una ragazzina.
La giornata passò così, io avanti e indietro dall’acqua, o a correre lungo una spiaggia quasi deserta: poche persone vi si avventurarono, qualche cane che correva dietro a me ogni tanto.
Feci castelli con la sabbia, cacciai i granchi dietro gli scogli, lanciai pietre in acqua, ingerii litri d’acqua salata perché non sapevo nuotare e neanche andare sott’acqua, ma non ci feci caso.
Alla fine mi sdraiai vicino a mia madre a riposarmi e a guardare i granelli di sabbia da vicino, sperando di trovare qualche sassolino prezioso da riportare a casa.
Anche mia madre si sdraiò vicino a me.
Tutti e due con la testa sulle mani e i gomiti a contatto.
– Quando sei venuta al mare l’ultima volta? – le chiesi.
– Mai. – mi rispose con un sorriso che per la prima volta era malinconico.
Io sgranai gli occhi.
– Vuoi dire che anche per te è la prima volta? –
Lei annuì.
– Non sono andata mai molto lontano. Non ho mai visto Roma, Venezia, Napoli. Non sono mai stata al mare. Non ho mai guidato una macchina. Ma se ci credi, sono felice. Perché ho avuto te, e la mia vita è stata perfetta così, non mi è mancato niente. –
Me la strinsi forte, quanto le volevo bene!
Affondai il mio viso nell’incavo delle sue braccia e rimanemmo così, guancia a guancia, per dieci minuti, a goderci il tepore del sole sulla schiena, nelle ultime ore del pomeriggio.
Fu allora che me lo disse.
Con il sorriso sulle labbra, come sempre.
E mentre me lo diceva io piangevo piano, lei si interrompeva e mi asciugava le lacrime con le labbra, e poi ricominciava, e poi si interrompeva di nuovo.
Quando finì, io piangevo ancora e lei sorrideva, ci abbracciammo forte, e così abbracciati raccogliemmo le nostre cose e raggiungemmo il pullman per L’Aquila.

Mia madre morì due mesi dopo, e io rimasi con i nonni: nessun padre si fece avanti per reclamarmi.
Feci il liceo a L’Aquila e l’Università a Roma, e sebbene il mare fosse lì ad un passo mi rifiutai sempre di andarci.
Perché io dopo quel primo di Maggio non ci andai più, al mare.
Trovavo sempre scuse con gli amici e poi con le fidanzate, e c’era sempre un impegno improvviso o un mal di testa lancinante ad impedirmelo.
Il mare non mi vide più per lunghi anni.
Finché infine non fui in grado di trovare un lavoro e di comprarmi una casa proprio lì, davanti a quella spiaggia di Pescara dove mia madre mi aveva portato per la prima e ultima volta nella sua vita tanti anni prima.
Oggi che ho più di cinquanta anni mi piace ancora stare sul balcone a guardare da lontano la spiaggia.
Per rivedere con la mente quella ragazzina di neanche trent’anni seduta sul bagnasciuga, un abito dai disegni improbabili indosso e lunghi capelli biondi intrecciati dal vento, e pensare “Il mare! Il mare…”.

Il Mare_new

Photo by rodocarda

Tu. Ed io.

Un piccolo racconto.

Bella festa vero? Mi ha fatto venire in mente quel week end.
Non ti ricordi più quale?
No, io me lo ricordo benissimo.
Non so come sia possibile, che ormai non ricordo più niente, ma quei due giorni me li ricordo tutti, minuto per minuto.
Sì, eravamo giovani. Sì, è passato tanto tempo.
Tu eri appena laureata, ed eri a Londra per non so che master, ormai non li conto più, io lavoravo a Roma in quella multinazionale svizzera, e mi spedivano continuamente su, alla sede centrale, per interminabili e inutili riunioni e seminari.
Mi raggiungesti a Ginevra per il week end.
Sì era Ginevra, non mi sbaglio, c’era il lago, la fontana in mezzo quasi ghiacciata, i primi telefonini che da noi ancora non si vedevano. Un posto strano, quasi inadatto per un fine settimana romantico.
Ma era a metà strada, e i voli da Londra erano economici.
Mi ricordo che ci siamo visti dopo pranzo, e ci siamo abbracciati come se non ci vedessimo da anni, invece erano solo poche settimane.
Però quella passione mi faceva stare bene, capivo che quello che c’era tra noi non si era affievolito, anzi. La distanza e la mancanza lo rafforzavano.
Abbiamo passeggiato lungo il lago, poi faceva troppo freddo e siamo entrati in un albergo con una grande terrazza, da cui si vedeva uno scenario bellissimo: il lago, la città, le Alpi.
Tu dicesti che potevi vedere la punta del Monte Bianco, io ti presi in giro.
“Figurati se si vede da qui, siamo a cento chilometri”
Poi ho scoperto dopo tanto tempo che invece avevi ragione tu: nei giorni limpidi invernali, da Ginevra si riesce a vedere il Monte Bianco.
Ma quel giorno mi mettesti un po’ di broncio perché ti avevo preso in giro. Tu, la futura professoressa di fama, io un volgare impiegato di concetto che mi permettevo di dubitare.
Ma durò poco.
Eravamo giovani, ti ripeto.
E ci volevamo bene. No, non dico che ora non ci vogliamo più bene, ma l’amore dei giovani è qualcosa di speciale, non contaminato dalla vita, dal cinismo, dalle difficoltà.
E’ un amore che nasce puro e rimane puro, finché non siamo noi a sporcarlo, con i nostri problemi, i nostri egoismi.
Allora eravamo giovani.
E la notte facevamo l’amore.
E io sono sicuro che Giulia spuntò dentro di te proprio quella notte.
Non ridere.
Non te l’ho mai detto, ma ne sono sicuro.
Come faccio a saperlo?
Perché la mattina a colazione brillavi. Emanavi luce propria, come le stelle.
Avevi indossato gli occhiali per riposare gli occhi, e sorridevi, sorridevi in continuazione, e io vedevo intorno a te una luce.
Sono sicuro che Giulia fosse già lì, quel giorno, a colazione, con noi.
Poi siamo andati di nuovo sul lago, e io continuavo a vedere quella luce.
Tu parlavi, dei tuoi studi, di Londra, dei tuoi amici, ma io non ti ascoltavo.
Poi ti ho preso improvvisamente, e ti ho detto: “Sposami!”
Tu ti sei fermata, e mi hai guardato.
Lo so che questo te lo ricordi, lo so.
Mi hai guardato con uno sguardo ironico, con il sorriso storto di quando mi vuoi prendere in giro, e per un momento io mi sono sentito morire.
Perché ho pensato che io non fossi più importante dei tuoi studi, della tua carriera.
Che potessi essere un impedimento, e che tu non volessi fermarti.
Poi mi hai preso le mani e mi hai detto: “Pensi che potrei mai liberarmi di te?”
Quale altra donna avrebbe detto un sì del genere?
E ora eccoci qua.
Comunque, bel matrimonio vero?
Quasi più bello di quello di Giulia.
I ragazzi erano carini, e innamorati, e io sono stato contento.
Lo so, anche tu, anche se pensi che alla nostra età il romanticismo sia una cosa brutta, ma ti conosco bene.
E ora basta parlare.
E’ tardi, siamo stanchi.
Vieni qui, dormiamo.
E tienimi la mano.


ginevra

L’amico americano

Mio padre mi telefona raramente, e quasi mai quando sono in ufficio: non vuole disturbare, dice, e sa che ho una vita incasinatissima, tra il lavoro, la famiglia, i viaggi continui, e il poco tempo libero.
Per questo, quando vedo comparire il suo numero sul cellulare rispondo subito, anche se sono in riunione; faccio un cenno ai colleghi ed esco dalla stanza.
Quando i genitori arrivano ad una certa età ogni loro telefonata ti mette in agitazione, e mio padre ha superato quella certa età già da un bel pezzo.
– Dimmi, come stai, tutto bene? – esordisco.
– Sì, ciao, tutto bene…- mi dice esitante – Ti ho disturbato? –
– Non ti preoccupare, ero da ore in un’inutile riunione, dimmi pure –
– Senti…- fa una pausa – dovrei chiederti un favore –
Mi metto in allerta, il tono della voce mi dice che è una cosa importante, penso subito a ospedali, analisi. Cose così, allegre.
– Certo, papà, dimmi pure, se posso… –
– Ecco, vorrei chiederti di portare un pacchetto ad un mio amico. Lo farei io, ma non mi sento tanto bene, poi ho questa mezza influenza che mi perseguita…-
– Ma certo, non c’è problema, quando glie lo devo portare? – chiedo.
– Domani – è la risposta secca, perentoria, non negoziabile.
Resto un attimo in silenzio.
– Papà, domani è sabato – tento di protestare – e ho promesso a Laura e alle bambine che saremmo andati in bici, poi la sera abbiamo un impegno, e domenica siamo invitati fuori Roma da quei nostri amici del mare, te li ricordi? –
Silenzio. Non mi lascia scampo.
Sospiro.
– Va bene, senti che facciamo – dico cedendo senza lottare – passo stasera da te dopo l’ufficio, prendo questo pacchetto, e glie lo porto domattina presto. Tanto se è un tuo amico e ha la tua età sarà già sveglio dalle cinque…dove abita di preciso? – chiedo tranquillo.
– In Francia – è la risposta, inattesa.
Non so se incazzarmi o ridere del fatto che mio padre è riuscito a prendermi off-guard, come direbbero gli americani.
Opto per una via di mezzo.
– Cioè, tu mi stai chiedendo di andare domani in Francia, solo per portare un pacchetto ad un tuo amico. Che evidentemente non può aspettare. E non lo puoi spedire? E poi chi glielo dice a Laura? –
Mio padre esita un attimo, prima di rispondere.
– No, non può aspettare – dice – non ha ancora molto da vivere, e se avessi potuto spedire questo pacchetto, non te l’avrei chiesto, no? Poi senti, tua moglie capirà, spero, e non mi sembra di chiederti mai niente –
Era vero.
Stretti in una morsa tra una vita frenetica in ufficio e gli impegni famigliari, spesso ci dimentichiamo dei nostri genitori, e ce ne ricordiamo solo quando hanno qualche problema.
Ed effettivamente mio padre non mi chiedeva mai aiuto, era autosufficiente, aveva i suoi amici, le sue cose, la sua vita.
– Ma chi è questo amico francese, di cui non ho mai sentito parlare? – gli chiedo.
Sono curioso, ora.
– Non è francese, ma americano, e non ne hai mai sentito parlare perché non te ne ho mai parlato. È una lunga storia, hai tempo per sentirla? –
– Certo – rispondo, tanto la riunione non era così interessante – raccontami tutto –
– Beh – attacca – inizia quando io e la mamma andammo negli Stati Uniti, pochi mesi prima che morisse, ti ricordi? Tu eri al liceo, mi pare, e lei voleva tanto vedere New York. Anche se era già un po’ debole, partimmo per un mese, facemmo un bel giro, New York ovviamente, una settimana, poi Boston, le Cascate del Niagara, Washington, Philadelphia e non ricordo che altro.
Lei poi volle andare ad Atlantic City per provare il brivido del gioco d’azzardo, e così girammo anche il New Jersey.
Mentre tornavamo indietro, avremmo preso l’aereo il giorno dopo, decidemmo di passare per un paesino caratteristico di cui aveva letto sulla guida, non ricordo neanche il nome, e ci inoltrammo all’interno.
All’epoca non esistevano i navigatori satellitari, e dovemmo affidarci ad una mappa, ma ovviamente ci perdemmo in una specie di foresta.
Non ci saremmo preoccupati, se non fosse che improvvisamente, senza alcun preavviso, la macchina che avevamo noleggiato si spense.
Era pomeriggio tardi, non passava nessuno, avevamo l’aereo il giorno dopo, e non sapevamo neanche dove fossimo.
Aprii il cofano, più per scena che per altro, sai bene che non ci ho capito mai niente di meccanica. Lo sapeva anche tua madre, ed era preoccupata, e poi era stanca.
Vide sul ciglio della strada una cassetta delle lettere e mi chiese di andare a chiedere aiuto.
‘Ma sei matta?’ provai a dirle ‘chissà chi ci abita in questo posto sperduto nel nulla, magari mi sparano appena mi vedono, oppure ci fanno a pezzi e ci congelano per l’inverno’.
Però sai bene che scherzare con tua madre era inutile, e anche opporsi alla sua volontà. Così mi incamminai per il vialetto alberato, sarà stato forse mezzo chilometro, finché non arrivai ad una specie di casetta quasi completamente immersa tra gli alberi.
Vidi una luce ma quando mi avvicinai alla porta era spenta.
C’era una specie di campanello, e lo suonai. Nessuna risposta.
Suonai di nuovo, ero sicuro che ci fosse qualcuno, avevo visto la luce e sentito del movimento.
Niente.
Normalmente sarei andato via, ma era tardi, avevo una moglie malata in macchina, un aereo da prendere, e poi rispetto ad oggi ero più giovane ed incosciente, e così mi feci prendere dalla rabbia e cominciai a picchiare sulla porta urlando ‘Aprite! Cazzo vi ho visto, aprite questa cazzo di porta!’
Dopo qualche secondo la luce si riaccese, sentii il chiavistello girare e la porta si socchiuse.
‘Che c’è?’ chiese in inglese una voce maschile e profonda. ‘Siamo in panne con la macchina, mia moglie sta male e dobbiamo tornare in Italia’ spiegai.
La figura dietro la porta rimase in silenzio per un po’, poi prese delle cose dietro la porta e uscì.
Era un uomo alto e robusto, più o meno della mia età, da quel poco che potevo giudicare; vestito come un cowboy, jeans e camicia di flanella, e in testa un berretto da baseball che gli copriva il volto quasi completamente, se si eccettuavano degli occhi verdeazzurro che sembravano brillare da sotto la visiera.
Senza una parola mi precedette lungo il vialetto, ed arrivammo alla macchina. Non salutò la mamma, ma diede un’occhiata nel cofano. Poi lo chiuse e mi fece segno di spingere.
Insieme, con la mamma ancora dentro, portammo la macchina verso la villetta, ma dentro una specie di garage.
‘Ai miei tempi ero bravo con i motori’ ci disse.
Poi prese degli attrezzi, lavorò per pochi minuti, e mi chiese di riprovare. La macchina si accese senza il minimo problema.
‘Si era semplicemente staccato il tubicino della benzina’ disse ‘Forse una buca, chissà. Ora l’ho sistemato alla bene e meglio, poi ci penserà la società di noleggio’.
Tua madre era notevolmente sollevata, e anche io. ‘Posso pagarle il disturbo? Non so come ringraziarla, lei ci ha letteralmente salvati’
L’uomo fece un gesto chiaro, poi sembrò ripensarci.
‘Tornate in Italia?’ chiese. Annuii. ‘Anche io parto domani. Forse mi potreste fare un favore.’
‘Certo’ risposi ‘tutto quello che vuole.’
‘Le vorrei affidare dei documenti che non posso portare con me. Vede…io da domani cambio vita. Ho deciso di andarmene da questo paese, anche se lo amo, di cambiare nome, rifarmi una nuova esistenza. Però ho delle cose che vorrei portare con me. Le foto dei miei genitori, il mio vero passaporto, delle lettere, insomma cose a cui sono affezionato, ma che non devono viaggiare con me. Se qualcuno mi perquisisse la mia nuova identità durerebbe poco. Invece se li portate con voi, vi contatterò appena mi sarò stabilito per farmeli spedire. Che ne dite?’
Esitai.
L’uomo mi sembrava istintivamente una persona perbene, ma la cosa che mi proponeva era chiaramente illegale, e non avrei voluto immischiarmi. D’altro canto ci aveva aiutato ad uscire da una brutta situazione…insomma, gli dissi di sì, e portai il pacchetto con me. Ma da allora non l’ho più sentito. Fino ad ora –

Seduto su una poltrona, in una saletta del mio ufficio, ascolto stupito questa storia che mi sta raccontando mio padre.
L’americano che affida a mio padre le uniche testimonianze della sua vita passata e che poi scompare per oltre trenta anni, è una storia troppo bella per non essere seguita fino in fondo.
– Ma come mai non si è fatto più sentire? E come ha fatto a ritrovarti proprio ora? – chiedo, improvvisamente interessato.
– A quanto pare non ha più ritrovato il foglietto con il mio nome e indirizzo, e non sapeva come cercarmi. Si ricordava solo il nome di battesimo. E solo ora ha provato a rintracciarmi su facebook –
– Vuoi dire – chiedo incredulo – che solo dal nome di battesimo è riuscito a trovarti su facebook? E poi come ha fatto a riconoscerti, se ti ha visto solo una volta? –
Sento un leggero sospiro.
– Beh, qualche informazione ce l’aveva: l’età approssimata, per esempio. Non sono molti gli ottantenni che girano su facebook. E poi ha riconosciuto tua madre. Ho messo una sua foto di quando ci siamo sposati, e l’ha riconosciuta. Evidentemente lo aveva colpito. Era bella, lo sai. –
Annuisco, anche se lui non può vedermi, come se fossimo nella stessa stanza.
– Insomma mi ha contattato – continua mio padre – e mi ha detto che non mi aveva cercato prima perché pensava che in questo modo qualcuno avrebbe potuto scoprirlo. Ma ora è malato, non gli resta tanto da vivere, e ha scoperto che non gli resta nulla della sua vita passata, se non le cose che io conservo ancora dopo trenta anni, e mi ha chiesto di fargliele riavere. Non vuole che glie le spedisca, vuole essere sicuro che arrivino nelle sue mani. Ma io non posso andare, non me la sento, anche io non sono più un ragazzino. Per questo ti sto chiedendo, per favore, di farlo tu –

Mentre bevevo una coca, seduto su un sedile di business class – l’unico che avessi trovato disponibile acquistando il biglietto solo la sera prima – ripensai alla storia che mi aveva raccontato mio padre, e che mi aveva così colpito.
A mia moglie, invece, aveva colpito il fatto che per l’ennesima volta le avessi dato buca per imprecisati impegni, e forse stavolta avevo versato la classica goccia nel vaso, ma avrei affrontato il problema al mio ritorno.
Al momento mi sentivo attratto e incuriosito dalle vicende di questi due uomini, che si incontrano per pochi minuti e dopo oltre trenta anni, come se avessero viaggiato in una macchina del tempo, si ritrovano per riprendere un discorso.
Si riparlano come vecchi amici, si scambiano favori, si raccontano le loro storie.
Nella vita talvolta si creano legami più profondi e duraturi del tempo che vi dedichiamo: possiamo passare ore, giorni, anni con una persona, e non provare mai per lei nessun sentimento; oppure ci si può stringere la mano una sola volta, e capire che si può essere amici per sempre.
Alla fine, ero contento e orgoglioso di essere lo strumento che avrebbe definitivamente cementato questa amicizia, e mia moglie l’avrebbe capito. O forse no, ma al momento non mi importava.

Atterrai a Nizza, e presi l’auto a nolo. Mi aspettavano ancora un paio d’ore fino a Moustiers Sante-Marie, una cittadina del Verdon dove avrei pernottato.
Inizialmente pensai di fare tutto in giornata, ma come tentai di accennare la cosa a mia moglie si scatenarono le ire funeste del pelide Achille, e decisi che a quel punto tanto valeva concedermi una giornata di vacanza.
Mio padre prese accordi con il suo amico, che mi aspettava la mattina di domenica, in un paesino sperduto in montagna, che neanche il navigatore conosceva.
Non avevo un numero di telefono, solo un indirizzo, e comprai una cartina della regione per essere sicuro di non perdermi.
A Moustiers Sante-Marie cenai in uno splendido ristorante sotto un costone di pietra e vicino ad una cascata.
Passeggiai, feci delle foto, presi un pastis in un bar del centro, insomma passai una delle serate più belle degli ultimi tempi, e segretamente ringraziai mio padre per avermi costretto a venire fin qui.
La mattina dopo mi svegliai prestissimo; la vista dall’albergo era spettacolare: le gole del Verdon in lontananza, il fiume che scendeva fino alla cascata, le casette arroccate, il silenzio.
Feci colazione con un cornetto al burro, marmellate, torte, caffè. Non era quello il momento di pensare alla dieta.
Ripartii dopo aver chiesto indicazioni al gestore dell’albergo, che non sapeva gran che di quel paesino, ma comunque, tra le istruzioni che avevo e la cartina, mi indicò la strada per lui più semplice.

Impiegai più di un’ora, la strada diventò prima una stradina, poi un sentiero asfaltato male.
Si inerpicò su per una montagna, attraverso tornanti, discese impervie, tunnel strettissimi, e mi chiesi più di una volta come facessero a portare i rifornimenti a questi disgraziati, soprattutto in pieno inverno.
In un paio di occasioni la macchina slittò, e quando finalmente arrivai le mani mi facevano male per lo sforzo di tenere stretto il volante.
Il paesino era poco più di un borgo, forse qualche decina di case, immaginai che non potessero viverci più di due o trecento persone.
Come in tutti i borghetti francesi o italiani, c’era una sola strada di accesso, rigorosamente in salita, e con una porta in pietra, a testimonianza di qualche signorotto d’epoca che aveva comandato sui poveri contadini della zona.
Non sembrava ci fosse nessuno in vista, per cui, come da istruzioni, imboccai decisamente la stradina sotto la porta, ma dopo pochi metri trovai la strada sbarrata dai cavalli di frisia, e un gendarme che mi faceva cenno di fermarmi.
Accostai, e abbassai il finestrino.
Il gendarme mi salutò militarmente, e mi chiese libretto e patente.
Nel mio traballante francese chiesi:
– Non si può passare? –
– Al momento no, stiamo facendo dei lavori. Dove è diretto? Forse le posso indicare una strada alternativa –
Gli diedi il foglietto con le istruzioni, e gli spiegai dove dovevo andare.
Lui mi guardò fisso per qualche secondo, poi mi ridiede il foglietto e mi fece cenno di attendere.
Si allontanò di qualche metro e fece una telefonata con il cellulare. Vidi che annuiva, poi chiuse e tornò da me.
– Può proseguire per la strada, seguendo le sue istruzioni. Le auguro un buon soggiorno – mi disse, poi spostò i cavalli di frisia e mi fece cenno di passare.
Rimasi un po’ interdetto, ma proseguii.
Le istruzioni dicevano di attraversare il paesino, poi di continuare per due chilometri e infine ad una rotatoria – una delle tante rotatorie che piacciono tanto ai francesi – svoltare a destra, infine prendere un viottolo di campagna in mezzo a un filare di cipressi.
Mentre seguivo la strada leggendo il foglietto, diedi un’occhiata al paese.
Sembrava di essere ancora nel medioevo: nessuna insegna moderna, nessun supermercato, o negozi di elettronica. L’unica concessione alla modernità, un bar tabacchi.
Tutto in pietra, tutte le case nello stesso stile, poteva essere tranquillamente un borgo del presepe di San Gregorio Armeno, ma riprodotto in scala 1:1.

Superai il paesino, seguii la strada, e infine arrivai ad una villetta immersa nel verde, circondata da un bosco di faggi, con un bellissimo giardino all’italiana di fronte all’ingresso.
Il cancello era chiuso, e non c’era un citofono. Scesi dall’auto, guardai in mezzo alle sbarre, quando improvvisamente il cancello cominciò ad aprirsi.
Risalii in macchina, ed entrai, lasciandola accanto ad un’altra automobile, sotto una tettoia di vimini e plastica verde.
Mi avvicinai all’ingresso, e prima che potessi bussare una signora sui sessanta anni, molto bella, magra ed elegante, uscì a ricevermi.
– Buongiorno – mi disse in francese – io sono la moglie. Grazie di essere venuto, noi…aspettavamo da tanto tempo questo momento. Lui ci tiene molto, e sono felice che suo padre abbia trovato il modo di farla venire qui –
– Di niente – risposi – alla fine anche per me è stato un piacere, ho fatto un bel viaggio e sto conoscendo posti nuovi e molto belli –
Dopo i convenevoli, entrammo in casa.
La luce del mattino non filtrava molto, e le luci erano spente, e questo dava alla casa un aspetto un po’ spettrale; attraversammo un lungo corridoio, finché non arrivammo in un salone molto grande, con preziosi mobili in legno e delle grandi finestre, ma con le tende tirate.
Lui era già lì, seduto su una sedia a rotelle, nella penombra. Una coperta gli scaldava le gambe, e un cappello da baseball calato sulla fronte gli copriva il volto, proprio come mi aveva raccontato mio padre, e proprio come la descrizione che ne aveva fatto, i suoi occhi verdeazzurro, anche se resi liquidi dall’età, brillavano anche da sotto il cappello.
I capelli erano ancora folti, ma completamente bianchi, ma per il resto non era più l’uomo che mio padre aveva conosciuto: era magro, magrissimo, e si vedeva che faticava anche solo a stare seduto. La malattia, probabilmente.
Gli strinsi delicatamente una mano, e non sentii altro che ossa fragili e pelle raggrinzita.
Gli diedi il pacchetto.
Lui lo tenne tra le mani, appoggiandolo sulle gambe per un po’, prima di aprirlo.
Dentro c’erano delle foto, raccolte in dei piccoli album di pelle, qualche libro in edizione economica, dei taccuini, dei documenti, un passaporto con l’emblema degli Stati Uniti.
Poche cose, ma evidentemente preziose per quest’uomo alla fine della sua vita.
Nessuno diceva nulla, mi rendevo conto di vivere un momento magico nella vita di queste persone, e mi sentivo anche abbastanza a disagio: ero alla fine solo un estraneo che aveva avuto accesso per una serie di eventi casuali alla parte più intima di una famiglia.
Stavo per salutare e andarmene, quando una ragazza entrò con un vassoio. C’erano dei bicchieri d’acqua, dei caffè, dei biscotti.
L’uomo mi fece cenno di sedermi, e sentii la sua voce per la prima volta, mi parlò in inglese.
– Questa è una delle mie figlie, si chiama Josephine. Ha venti anni, studia a Parigi, ma in questo periodo ha deciso di stare un po’ con noi – disse guardandola con affetto – L’altra, la più grande, Therese, è in California per un master. Ma sta tornando, dovrebbe arrivare domani. Così avrò tutta la mia famiglia con me, e grazie a tuo padre, anche alcuni ricordi che temevo di avere perso –
Presi il caffè, e un paio di biscotti. Ero curioso, così chiesi:
– Come mai si perse il numero di mio padre? Eppure doveva essere importante per lei, se dopo tutti questi anni lo ha cercato solo per avere queste cose. –
L’uomo guardò la moglie, che gli fece un impercettibile cenno affermativo.
– Fu colpa di Edward – disse
Il mio sguardo interrogativo lo fece sorridere, perché ovviamente non avevo idea di chi fosse questo “Edward”.
– Edward era il mio migliore amico, forse l’unico vero amico che avessi. Lo conoscevo dai tempi dell’asilo ed eravamo rimasti in contatto sempre, anche quando le nostre vite erano andate in direzioni diverse. Quando decisi che non ce la facevo più, e che volevo cambiare vita, nome, continente, tutto, fu lui ad aiutarmi. Organizzò tutto lui, e se sono qui, se ho conosciuto mia moglie, e se ho potuto vivere più di trenta anni tranquillo, in un posto magnifico, dove tutti mi conoscono e proteggono la mia privacy –
Sgranai gli occhi.
Il gendarme! Ecco perché avevano sbarrato la strada, e poi l’avevano riaperta. Volevano essere sicuri che io fossi atteso.
– Vedo dai tuoi occhi che hai avuto modo di testare personalmente quanto i miei concittadini tengano a me e alla mia famiglia – sorrise.
– Comunque sia, Edward pensò a tutto – continuò – ma per essere certi che potessi scomparire senza destare sospetti, mi fece passare diversi mesi al sicuro nella casa in cui mi ha incontrato tuo padre. Nel frattempo lui venne qui, sua madre era originaria di questo paese, trasferì dei fondi, acquistò questa casa, prese contatti con le autorità locali, cercò qualcuno che potesse procurarmi documenti falsi, insomma fece tutto quello che io non potevo fare. Mi disse poi che avrei dovuto lasciarmi tutto indietro, che per sicurezza non dovevo avere con me tracce del mio passato, e che una volta stabilito qui non avrei dovuto contattare più neanche lui. Ma io ci tenevo a queste cose, e stavo cercando un modo di portarle con me, quando il destino si è presentato sotto le vesti di un signore italiano in difficoltà, tuo padre. Diedi a lui il pacchetto, e mi segnai i suoi riferimenti. Però la mattina dopo, quando arrivò anche per me il momento di partire, commisi l’errore di mettere le mani in tasca e il foglietto mi cadde a terra. Edward lo raccolse, e andò su tutte le furie. Mi chiamò irresponsabile, mi disse che stavo mettendo a rischio tutto per quattro foto e due quaderni, insomma, litigammo ferocemente –
L’uomo fece una pausa, tossì, prese un sorso d’acqua, poi riprese.
– Mi disse che avrebbe contattato lui tuo padre, e che avrebbe trovato il modo di farmi avere quel pacchetto quando avesse ritenuto che i tempi fossero maturi. Prese il foglietto con l’indirizzo, e ci salutammo. Io partii, ed Edward morì pochi giorni dopo in un incidente d’auto: la sua macchina prese fuoco, e così il foglietto con il nome e l’indirizzo di tuo padre si perse. Io mi stabilii qui, conobbi mia moglie per caso, era la figlia di una signora che veniva ad aiutarmi per le pulizie. Ci sposammo con una grande festa a cui partecipò tutto il paese, ma di cui non si seppe nulla, ebbi due figlie; e ora che sono vecchio e stanco mi è venuta voglia di rivedere la mia famiglia, i miei genitori intendo, non la moglie e i figli che avevo negli Stati Uniti, quelli no: se sono scappato via, è anche per colpa loro. Ma avevo conservato vecchie foto di mio padre e mia madre, di me bambino, i miei quaderni di scuola, cose così. Cose a cui un vecchio si affeziona stupidamente. E che ora, grazie a te e a tuo padre posso toccare di nuovo –
Di nuovo il silenzio calò nella stanza, ma ora tutti sorridevano; la moglie aveva un luccichio negli occhi, preludio di qualche lacrima, ma si vedeva che erano tutti felici.
Anche io mi sentivo leggero, felice di aver fatto una cosa bella, di aver preso parte a questa avventura nel tempo e nello spazio, e sorridevo insieme a loro.
Mi alzai per andarmene e iniziai a salutare, quando l’uomo sulla sedia a rotelle alzò una mano.
Mi fermai.
Prese il vecchio passaporto, e me lo porse.
– Questo non mi serve. Quando lo misi insieme alle altre cose pensavo che avrei avuto nostalgia della mia vita passata, ma non sapevo che avrei incontrato una donna che mi avrebbe fatto felice, e che mi avrebbe dato due figlie meravigliose. Non sono più quell’uomo lì, da molto tempo, e ora lo so per certo. Per cui a me non serve più. Ma voglio regalarlo a te e a tuo padre. Come ricordo della nostra amicizia, profonda anche se fugace, e come ringraziamento. E penso anche se che se un domani sarete mai in difficoltà, potrà anche tornarvi comodo per mettere insieme qualche soldo –
Concluse strizzandomi uno dei suoi begli occhi verdeazzurro, e me ne andai con questo vecchio passaporto in mano, un po’ confuso, a dire il vero.
Solo quando uscii con la macchina e il cancello si chiuse dietro di me, la curiosità prese il sopravvento e decisi di aprire quel vecchio documento.
La foto era di quell’uomo, sì, ma molto più giovane. Con gli stessi occhi verdeazzurro, gli stessi folti capelli, ma neri.
E sì. Forse avremmo potuto anche farci qualche soldo, ma sono sicuro che mio padre avrebbe preferito tenere per sé la storia del suo amico americano, quello il cui nome era stampato a grandi lettere sotto la foto.
Elvis Aaron Presley.

Villa nel verde

Sirena

Si conobbero via internet.
In un gruppo di cui facevano parte entrambi, molto grande, tante persone.
Lei scrisse un commento salace, lui rispose prendendola in giro, lei fece solo un sorriso.
Il suo nome era “Sirena”, solo quello, lui invece si firmava Enrico G.
Lui le mandò un messaggio privato, chiedendole l’amicizia, lei non rispose.
Lui ne mandò un altro, più insistente, lei rispose seccamente “Scusa, non ti conosco. Grazie per l’interesse”, ma non accettò la sua richiesta.
Lui guardò la sua bacheca, ma non trovò quasi nulla: le foto di un gatto, sempre lo stesso, in varie pose e situazioni, dei fiori, paesaggi marini, citazioni di libri, e poesie. “La linea d’ombra” di Conrad, la Merini, la Symborska.
Niente che potesse identificarla, o immagini di lei.
Lui rimase un po’ deluso, non gli succedeva spesso che gli negassero l’amicizia, soprattutto se erano donne. Continua a leggere