A different spring

Appoggiato alla finestra stringo un po’ la felpa sul collo: i riscaldamenti sono spenti, ma il vento fuori è secco e freddo, e io non amo il freddo. non l’ho mai amato, anche se ho dovuto venirci a patti.
Fuori il silenzio mi mette di cattivo umore.
Non è tristezza, la tristezza si è esaurita molto tempo fa.
E’ una lieve malinconia che stempero con il fatalismo di cui ormai mi nutro da un po’ di tempo. Forse da troppo tempo.
Il panorama leggermente nebbioso è irreale,
A quest’ora, un lunedì come tanti sarebbe pieno delle urla dei bambini che tornano da scuola, lo sbuffo degli autobus alla fermata, il rumore continuo del traffico e qualche clacson a scandire il rosso e il verde dei semafori.
Oggi no. Oggi sono gli uccelli la colonna sonora della mia primavera, della primavera di chiunque.
Tranne gli uomini, il resto è identico: le rondini sono tornate, volano senza sosta in cerca degli insetti, qualcuna si tuffa temeraria a pelo d’acqua lungo il torrente che costeggia i palazzi in lontanaza, forse pensano di essere delle pulcinelle di mare, o forse l’assenza degli uomini le sta facendo evolvere.
Forse siamo noi che tarpiamo le ali alle rondini.
I prati non sono tagliati, almeno da qualche giorno; è bastata una pioggia leggera per far esplodere il campo davanti casa di margherite, e papaveri, e qualche fiore lilla che non saprei dire.
Le spighe sono altissime, un bambino ci si potrebbe perdere, ma i bambini non ci sono.
Non ci sono più da un po’.
– Pappu? dormi? –
Mi scuoto dai miei pensieri.
Marilina mi chiama così da cinquanta anni, e ogni volta è una gioia e un dolore.
Lara mi chiamava Pappu, è stata la sua prima parola.
Non mamma, non io, non acqua: Pappu.
Con il ditino di bambina grassottella di 15 mesi puntato sulla mia barba, a cui si attaccava con tutte e due le mani per addormentarsi ridendo.
Pappu.
Dove sei Lara? Che cosa abbiamo fatto noi per soffrire così?
Neanche dopo che Lara è morta, Marilina ha smesso di chiamarmi Pappu.
Ci ha provato, un paio di volte. Thomas, ha detto. Ma io non mi giravo. Tenevo le labbra serrate, gli occhi chiusi, i pugni stretti.
Thomas?
Niente, io non sono più Thomas, non sono più nulla, sono solo un vecchio di nome Pappu, e quello voglio essere finché la mia memoria terrò vivo il viso di Lara tra i miei neuroni.
Pappu era l’unica cosa che volevo essere, ed è quello che sarò.
– Pappu, vuoi mangiare qualcosa? –
Giro la sedia, e spingo leggermente le ruote con le mani, fino ad arrivare a due metri da lei.
Mi guarda con la testa un po’ inclinata e un sorriso sincero, questa donna anziana e magra, uno straccio tra le mani e i capelli grigi raccolti.
– Ti stanno bene i capelli un po’ bianchi sai? –
Lei si imbarazza un po’, forse arrossisce, istintivamente porta le mani ai capelli.
– Beh sì, grazie, tanto non ho scelta. –
– Non li tingere più, a me piaci così –
– Non sembro anziana? – dice lei con un tono tra il civettuolo e il preoccupato.
– Sì, sembri più anziana – lei si imbroncia – ma sei la mia anziana. – dico sorridendo.
Lei mi guarda con la sua aria da rimprovero.
– Non sei mai stato bravo con i complimenti, Pappu. – mi sgrida quasi. – Vieni a mangiare, dai. –
La seguo spingendo la sedia nella penombra del corridoio fino alla cucina.
L’arredamento è rustico, come si addice ad una casa del nord.
A Lara piaceva questa cucina tutta di legno, con le maioliche a circondare il forno, e le credenze con i pomelli color faggio.
La mia casa delle bambole, diceva.
Mi accosto al tavolo.
Due tovagliette, due bicchieri, due cucchiai, acqua e vino.
Marilina prende una pentola e mi versa una specie di zuppa.
Io guardo il piatto senza dire una parola, e alzo gli occhi, con un fare interrogativo.
– Non dire niente. Lo so. Fosse per te mangeresti maiale a pranzo e a cena. Ma sai che non puoi. E’ una minestra di verdure. Se vuoi c’è il pane. Poi se ti va un’insalata. –
Stringo le spalle. Che differenza fa.
Mangiamo in silenzio, la televisione racconta quello che sta succedendo, tutti si raccomandano di stare in casa, soprattutto noi vecchi.
Non usciamo da due mesi, una nipote di Marilina ci porta la spesa un paio di volte a settimana, i giornali ce li infila sotto la porta il figlio del vicino la mattina, noi gli lasciamo qualche moneta sullo zerbino, non ci incontriamo mai.
Finisco la zuppa, non voglio deluderla, non so neanche più come si fa a deludere una persona. O a farla felice, se è per questo.
Su un ripiano, la foto di Lara il giorno della laurea è un coltello piantato nel costato, e io come Gesù Cristo affronto il mio martirio quotidiano.
Non ho mai avuto il coraggio di dire a Marilina di toglierla.
Lei ha messo una foto di Lara in ogni stanza, anche sul suo comodino.
La guarda, ogni tanto prende un album e lo sfoglia, talvolta quando pensa che io non sia là vicino o che dorma, le parla.
La sento che le dice le cose che ha fatto, le parla di me, le dice che mi sono chiuso in me stesso, che la malattia mi ha distrutto definitivamente, che non piango mai, che mi farebbe bene piangere.
Quando la sento dire così annuisco.
Lo so anche io che mi farebbe bene piangere. Lo so benissimo.
– Caffè? – dice Marilina, sempre con il sorriso sulle labbra.
Io la guardo come fosse un’aliena.
Lei ce l’ha fatta.
Lei sì.
Lei ha dato un senso a tutto quanto, ha messo a posto le cose.
Anche la morte di Lara.
Tutto ha un senso per lei, e quindi si può andare avanti.
Caffè.
No. No, faccio segno di no.
Lei capisce, il sorriso diventa più delicato, annuisce.
– Faccio i piatti. Perché non ti riposi? Vuoi che ti aiuti? –
Non dico niente, la guardo.
Lei mi guarda ma non capisce.
– Perché sei così? – le chiedo.
Lei sospira. Si appoggia al ripiano della cucina, si pulisce di nuovo le mani con uno straccio, è un gesto che le dà tempo di riflettere.
Ora è seria. Non avrebbe voluto mai affrontare questo discorso, non così, non diretto.
– Perché non c’è altro da fare che aspettare. Non c’è niente altro da fare. Niente, Pappu. Niente più. Io aspetto. E anche tu. –
Mi si avvicina, mi fa una carezza.
Le prendo la mano, glie la bacio.
La guardo e le sorrido, dopo un sacco di tempo.
– Io non ce la faccio più ad aspettare. –
Lei mi guarda sorpresa, poi con un dito mi asciuga una lacrima.
Allora so piangere anche io, penso.
Anche lei piange, però non dice nulla, si limita ad annuire e singhiozzare.
Mi giro, non voglio che mi veda così.
Lei rimane lì, in cucina, il viso tra le mani.
Non ho bisogno di dirle più niente, tanto so che lei sa.
Me la immagino, che rimarrà là appoggiata al ripiano, mentre io vado in salone e apro la porta finestra.
Il vento secco entra in casa, soffia sui miei capelli radi e bianchi, e di sicuro sarà arrivato in cucina, e avrà fatto rabbrividire Marilina, che avrà capito e si starà stringendo il corpo con le braccia, e le lacrime inarrestabili le staranno rovinando il trucco leggero che ha messo stamattina.
Guardo le rondini, e penso che questa è una brutta primavera.
Una primavera differente.
Poi le mie braccia mi sollevano dalla sedia e mi regalano un volo di rondine.

Foto di Andreea Ch da Pexels

Giorni di quarantena

Un giallo del Maresciallo Graziosi

Graziosi il venerdì uscì molto presto, come faceva sempre almeno un paio di volte a settimana per una corsetta leggera.
Aveva dei pantaloni blu di una vecchia tuta Adidas, una felpa con la scritta “Carabinieri” sulla schiena che gli aveva regalato un amico del Centro Sportivo, e un cappellino di cotone perché con i pochi capelli che si ritrovava la temperatura rigida di marzo gli faceva venire subito il mal di testa.
A coprire bocca e naso una mascherina azzurra che odiava, ma che proprio lui non poteva esimersi dall’indossare.
Da quando erano scattate le misure di quarantena per l’infezione che stava colpendo tutta la popolazione mondiale le mascherine erano andate a ruba e virtualmente scomparse.
Le forze dell’ordine ne avevano qualcuna, lui in realtà usava sempre la stessa: più per scena che per protezione, per evitare di essere additato come il solito ribelle menefreghista, cosa che in effetti era ma che non voleva in questa situazione dare troppo a vedere.
Attraversò la Nomentana ed entrò nel piccolo parco, imboccando il vialetto in mezzo ai pini.
In altri giorni avrebbe preso la macchina e sarebbe andato a Villa Ada. Gli piaceva fare il giro del laghetto, e sapeva esattamente quanti giri doveva fare per il suo allenamento standard. Poi si fermava qualche minuto agli attrezzi e infine andava a prendere un caffè in un bar là vicino, dove incidentalmente facevano dei cornetti strepitosi che vanificavano tutto il suo allenamento.
Pensò per un attimo con nostalgia alla sua vita di poche settimane prima, ma cominciò a trotterellare nel vialetto ad un’andatura adatta ad un uomo di quasi sessanta anni.
Fece poche centinaia di metri, e arrivò ad uno spiazzo da cui si dipanavano altri percorsi sterrati.
Si fermò.
Si guardò intorno.
Nessuno.
In lontananza, un uomo di una certa età con un cagnolino che lo seguiva da vicino.
Nessun altro.
L’irrealtà di quella situazione lo colpì allo stomaco con così tanta forza che dovette piegarsi e appoggiare le mani alle ginocchia, come se avesse appena finito una maratona.
Si rialzò, guardò per un attimo in cielo, poi tornò lentamente verso casa, la mascherina a pendere inutile sul collo.

Parcheggiò la macchina appena fuori della caserma Nomentana ed entrò.
All’ingresso il piantone di turno, con la mascherina ben stretta, se ne stava chiuso nel suo gabbiotto e non uscì neanche per fare il saluto.
Graziosi lo guardò inarcando il sopracciglio, poi si avviò lungo il corridoio che portava alla sua stanza; le porte degli uffici erano per lo più chiuse e sapeva che dentro non c’era nessuno: non si raccoglievano denunce, non si facevano passaporti, niente.
La caserma era tutta in mano a lui e al suo vice.
Entrò in ufficio, si tolse la giacca e si sedette, mani dietro la testa e piedi sulla scrivania, chiaro segno che non aveva alcuna voglia di affrontare subito le incombenze burocratiche che lo attendevano, visto che si era presentato alle 11.
Di Capua lo raggiunse quasi subito.
– Novità? – chiese Graziosi
Di Capua si strinse nelle spalle.
– Niente di niente. Un paio di denunce in sospeso. – 
Graziosi fece un vago cenno di soddisfazione.
– Quindi non è stato ammazzato nessuno oggi dalle nostre parti. – 
Lo disse come un fatto, e non come una domanda.
– E no, Marescia’, gli assassini stanno tutti a casa loro, e i ladri pure. – 
Graziosi annuì.
– Ma voi perché non ve ne state a casa? tanto qua non c’è gran che da fare. – chiese Di Capua.
Il Maresciallo si decise a tirare giù i piedi dalla scrivania e a riesumare il computer muovendo il mouse.
– A casa mi annoio, e tanto vedrai che prima o poi qualche rogna esce fuori. – disse profeticamente.
– Vabbè ma perché non approfittate della macchina di servizio e non andate a trovare…come si chiama quell’avvocato. – 
Graziosi lo fulminò con lo sguardo, e Di Capua arrossì.
– Di Capua, spero che tu non stia diventando una vecchia comare, ma se intendi dire Monica, è un po’ che non ci frequentiamo. –
DI Capua sgranò gli occhi.
– Ah, e come mai? mi sembravate così…-
Graziosi lo interruppe.
– Senti Di Capua ma non c’hai niente di meglio da fare? avrà deciso che uno come me, senza orari, senza una direzione, non andava bene. E poi a dirla tutta voleva un figlio, ma io sono vecchio e poi un figlio già ce l’ho –
– A proposito Marescia’, vostro figlio come sta? E’ ancora a Londra vero? – 
Graziosi annuì.
– Già. Infatti sono preoccupato. Gli ho chiesto di starsene rintanato finché non passa la bufera, ma è grande non posso più imporgli niente. Non potevo neanche prima, figuriamoci ora. – 
I due rimasero in silenzio per qualche secondo, poi:
– Vabbè io vado di là a smaltire qualche denuncia. – disse Di Capua.
– Bravo. – disse Graziosi – e già che ci stai smaltisci anche la mia, di denuncia, a te che non ti fai mai i cazzi tuoi. – 
Lo disse con un sorriso, ma questo non impedì a Di Capua di alzare gli occhi al cielo mentre usciva, con un gesto che ormai era diventato il suo marchio di fabbrica.

La mattinata passò, Di Capua e Graziosi mangiarono un panino stando a debita distanza l’uno dall’altro, poi si rinchiusero di nuovo nei rispettivi uffici.
Di Capua sospettava che il suo capo dormisse, e non era poi molto lontano dal vero: Graziosi era un uomo di azione, non azione fisica ma intellettuale, era uno che amava andare in giro, fiutare  le rogne e farle proprie.
Costringerlo in un ufficio a smazzare le denunce di furti d’auto per mancanza di attività era come togliere l’acqua ad un fiore e vederlo appassire a poco a poco.
Ma mentre se ne stava nel suo ufficio, gambe sulla scrivania e occhi chiusi a ripensare a Monica, e ad alcuni suoi particolari anatomici di cui sentiva dolorosamente la mancanza, il cellulare squillò, e il nome che comparve lo fece precipitosamente risistemare sulla sedia, come se la persona fosse davanti a lui.
– Comandi – rispose in maniera quasi automatica
– Graziosi, ho bisogno che mi raggiunga subito. – era il Comandante Generale dell’Arma.
– Certo Generale. – rispose Graziosi mentre cominciava già ad alzarsi – Posso chiederle cosa è successo? – 
– E’ scomparsa una persona e lei deve aiutarci a ritrovarla. – 
Aiutarci a chi? si chiese Graziosi, ma si fermò un attimo e tentò di ribattere.
– Veramente io Generale non mi occupo… – 
Fu interrotto senza tanti complimenti.
– So bene chi è lei e cosa fa, ed è esattamente il motivo per cui l’ho chiamata. Mi raggiunga immediatamente. – 
Graziosi non se la sentì di replicare di nuovo, aveva una chiara idea di come funzionasse la gerarchia militare, si chiedeva solo perché questi casi non finissero mai sulla scrivania di quel coglione di Ziliani. Ah certo, perché era un coglione, ecco perché.
– Graziosi è lì? – chiese impaziente il Comandante.
– Certo Generale – si riscosse Graziosi – la raggiungo al Comando Generale? – 
– No. Deve venire a Palazzo Chigi. – 

Graziosi si fermò un attimo a guardare il grandioso palazzo acquistato dal banchiere senese Agostino Chigi nel seicento, che era stato residenza nobiliare, poi ambasciata, poi Ministero degli Esteri e infine sede del Governo.
Non ricordava di averne mai varcato la soglia, le sue frequentazioni istituzionali erano più legate ai vertici al Viminale, alle riunioni al Comando Generale, e spesso gli capitava di dover andare a Piazzale Clodio presso il Tribunale di Roma, e ogni volta con la non remota possibilità di incontrare quel coglione di Ziliani, l’unico Carabiniere raccomandato della storia dell’Arma.
Dopo i controlli iniziali Graziosi e Di Capua attraversarono il cortile interno e raggiunsero il Comandante, che aspettava sotto i portici bardato con mascherina d’ordinanza.
Non potendosi stringere la mano Graziosi fece un saluto militare che non gli venne molto bene, dato che era più o meno dai tempi dell’accademia, una trentina di anni prima e più, che non portava la mano alla fronte.
Il Generale lo guardò senza traccia di simpatia, e chiese:
– Era necessario che veniste in due? non era sottintesa la riservatezza del caso? – 
Di Capua abbassò lo sguardo sui piedi, indeciso su cosa fare.
Graziosi guardò il Generale dritto negli occhi:
– Sì. Era ed è necessario. Qualunque sia il problema, per risolverlo avrò bisogno di tutte le migliori forze in campo, e si dà il caso che l’Appuntato Di Capua sia stato un validissimo e prezioso aiuto per risolvere molti casi spinosi. – 
Il Generale annuì, e stava per muoversi, quando Graziosi rincarò la dose:
– Anzi, se mi posso permettere, è il momento di pensare ad una promozione per l’Appuntato Di Capua, che a mio parere merita di avere un comando tutto suo. Magari quello di Piazzale Clodio, che al momento è vacante. –
Il Generale lo guardò sgranando gli occhi e dopo qualche secondo scoppiò a ridere.
– Graziosi, mi è noto quanto le stia sul cazzo Ziliani, ma non si preoccupi, se valuteremo che Di Capua merita un comando, troveremo dove collocarlo. Mi hanno detto che a Orgosolo si sta liberando un posto. – concluse sibilando mentre si avviava verso lo scalone.
Mentre seguivano il Comandante a debita distanza Di Capua parlò con gli occhi a Graziosi, probabilmente insultandolo pesantemente. 
Graziosi rispose stringendosi nelle spalle e sorridendo, e infine Di Capua decise di terminare la schermaglia alzando gli occhi verso i magnifici affreschi che correvano sopra le loro teste.

Nella sala riunioni ad aspettarli c’erano tre persone, a due sedie di distanza l’una dall’altra e con mascherine molto sofisticate.
Uno era il Presidente del Consiglio, gli altri due, un uomo e una donna, non riusciva a riconoscerli.
L’uomo poteva avere un’età tra i cinquanta e i cinquantacinque anni, ben piazzato, ritto sulla schiena, decisamente un militare.
La donna era una ragazza bellissima, sui 35 anni, vestita in una maniera che gli sembrava un po’ troppo provocante per una riunione del genere: aveva sì un tailleur scuro giacca e pantaloni, ma i tacchi erano stratosferici, e la giacca lasciava intravedere forme importanti ad ogni movimento delle spalle.
I tre Carabinieri si sedettero e attesero.
Prese la parola il premier.
Era un uomo giovanile, sui sessanta, che aveva trascorso tutta la sua vita al servizio del partito, e che aveva percorso tutti i gradini della scala del potere fino ad ottenere la nomina a primo ministro di una eterogenea coalizione solo un anno prima.
Il Governo si reggeva sulla sua personalità e sulla sua capacità di comunicare, e anche su un certo gradimento presso gli elettori.
Da quando era iniziata l’emergenza le sue apparizioni in televisione avevano avuto l’effetto di coagulare le speranze dei cittadini sulla sua persona, e per questo il suo indice di gradimento era uno dei più alti della storia repubblicana.
– Buongiorno e grazie per essere venuti qui così sollecitamente, nonostante il periodo non particolarmente facile. – fece una pausa.
– Permettetemi prima di tutto di presentarvi i miei colleghi. –  disse proprio così, “colleghi”, era un incantatore di folle nato.
Fece un cenno verso l’uomo.
– Il Generale De Dominicis, responsabile della sicurezza della Presidenza del Consiglio e capo degli affari istituzionali del Viminale – 
L’uomo salutò con un cenno del capo, che fu ricambiato da Graziosi e Di Capua.
‘Servizi segreti’, pensò immediatamente Graziosi. ‘Andiamo bene’.
La Dottoressa Miceli invece è la responsabile della comunicazione istituzionale della Presidenza del Consiglio, e prima che vi chiediate perché è qui, voglio che sappiate da subito che qualsiasi cosa farete o direte dovrà prima essere concordato con la Dottoressa Miceli perché in questo momento non possiamo permetterci di fornire alla stampa o ai cittadini ulteriori elementi di preoccupazione o di pettegolezzo.
Graziosi allungò le mani sul tavolo e andrò dritto al cuore del problema.
– Signor Presidente, chi è la persona scomparsa?. – 
Il Comandante lo fulminò con lo sguardo, ma Graziosi lo ignorò e lo stesso Premier non sembrò offeso dalla domanda.
Fece un cenno alla donna che portò a Graziosi una cartellina, lanciandola da circa un metro.
Nonostante la distanza Graziosi ne potè assaporare il profumo, delicato ma persistente, un profumo che era sicuro non lasciasse indifferente gli uomini, così come non lasciava indifferente lui.
Prima che riuscisse ad aprire la cartellina il Presidente parlò.
– Mia moglie. E’ mia moglie che è scomparsa. E come capirà in questo momento il fatto di non sapere dove sia, se sia stata rapita, se stia male, mi angoscia particolarmente, e allo stesso tempo non possiamo permetterci di dare la notizia alla stampa.
– Diremo che la signora è positiva – intervenne la Miceli – e che per evidenti motivi precauzionali è in quarantena. Il premier dirà di aver fatto il tampone e di essere negativo, e che per questo motivo deve stare distante dalla moglie. – 
Graziosi la guardò con interesse, ma la donna sembrò non vederlo.
– Nella cartellina troverà tutto quello che c’è da sapere. Per favore tenga informati me e il Generale De Dominicis, almeno ogni ora. Grazie – 
Tutti si alzarono tranne Graziosi.
– Signor Presidente, le devo fare un paio di domande, preferisce che parliamo in privato? – 
Il Comandante diventò rosso, e anche il premier.
– Graziosi! – urlò quasi il Comandante Generale
Il Premier alzò una mano per tenere a freno il militare, poi guardò Graziosi.
– Immagino le domande che mi vorrebbe fare Graziosi, e me le ha già fatte il Generale De Dominicis, e le posso assicurare che non è stato gentile. Nella cartellina c’è tutto, ma purtroppo niente che le possa essere d’aiuto. Come immaginerà faccio una vita d’inferno, in particolare nelle ultime settimane. Dormo quattro ore per notte e quasi sempre qui, a palazzo Chigi, perché non ho tempo di tornare a casa. Non vedo mia moglie da tre giorni, quindi non saprei proprio cosa dire sugli ultimi spostamenti. – 
Graziosi annuì, tormentandosi la bocca con una mano, mentre il premier attendeva.
Di Capua represse un sorrisetto: conosceva bene il suo capo, e sapeva che quello era il momento in cui dava il meglio di sé.
Lo spettacolo stava per cominciare.
– Capisco Signor Presidente, ma le informazioni di prima mano sono sempre migliori di un rapporto scritto. Senza offesa per il Generale – aggiunse vedendo che le guance del Generale si imporporavano per la rabbia repressa.
Il Presidente del Consiglio si sedette di nuovo con un sospiro.
– Dica pure, e gli altri possono rimanere. Non ho segreti e comunque questa è la mia squadra. – 
Graziosi annuì. Poi attese qualche secondo guardando il massiccio tavolo di legno pregiato su cui appoggiava le mani, prima di alzare gli occhi a guardare il Premier.
– Quando ha saputo che sua moglie era scomparsa? – 
Il Presidente del Consiglio guardò i suoi un po’ imbarazzato e a Graziosi parve di cogliere un lieve cenno del viso da parte del Generale De Dominicis.
– Beh…come le dicevo, in questo periodo sono stato molto impegnato, quindi con tutto il rammarico possibile devo confessare che non sentivo mia moglie da qualche giorno. Lei aveva provato a chiamarmi ma avevo dato esplicito ordine alla segreteria di non passarmi nessuno che non fosse uno dei Ministri o il Presidente della Repubblica. Poi ho provato a richiamarla stamattina, ma non mi ha risposto, anzi il telefono era staccato. Solo un paio di ore fa ho chiesto a un mio addetto di andare a casa per vedere se andasse tutto bene. Appena ho capito che c’era un problema ho radunato la mia squadra e mi hanno subito consigliato di contattare il comando dei Carabinieri. Il resto lo sa. –
Graziosi annuì, poi si alzò.
– Va bene. Ci sentiamo tra un’ora per il report. – disse, e uscì dalla stanza seguito da DI Capua.

Quando furono di nuovo in macchina, Graziosi al volante e Di Capua rigorosamente seduto sul sedile dietro a un metro di distanza, Graziosi cominciò a parlare ma fu interrotto dal suo appuntato che gli disse:
– Giovanotto, mi porti alla caserma Nomentano, presto! –
Graziosi lo guardò dallo specchietto, e indeciso se incazzarsi o prenderla a ridere optò per la seconda opzione.
– Mavaffanculo Di Capua, te lo dico dal profondo del cuore. –
Quando l’ilarità si calmò, mentre Graziosi saliva per una Via Quattro Novembre deserta, Di Capua aprì il discorso.
– Ma che senso aveva quella domanda, Marescia’? –
Graziosi lo guardò dallo specchietto con gli occhi sorridenti di chi ne sa una più del diavolo.
– E che gli dovevo chiedere secondo te? – 
– Ma…non so…se avevano ricevuto minacce, se aveva un amante, cose così. – 
Graziosi si strinse nelle spalle.
– Domande inutili, Di Capua, troveremo tutte queste domande, e le risposte opportunamente confezionate, nella cartellina. Invece io volevo capire se ci stavano nascondendo qualcosa. – 
– E….? – Di Capua sapeva che il suo capo lo avrebbe stupito. Aveva la capacità di capire le persone come nessun altro, e di penetrare l’animo umano rivelandone i segreti più nascosti.
– E ci stanno prendendo per il culo. Hanno mentito. Tutti. L’unica cosa vera è la scomparsa della signora. Per il resto era un teatrino ad uso e consumo nostro. Dobbiamo solo capire perché , e incidentalmente capire cosa è successo alla moglie del premier. – 
Prima che Di Capua potesse obiettare, Graziosi andò avanti.
– Prima di tutto: quella donna va a letto con il Premier. Mi pare chiarissimo. – 
Di Capua lo fermò.
– Aspetti un attimo, non le pare un approccio un po’ troppo sessista? Solo perché è una bella donna e si veste in maniera provocante, non necessariamente deve andare a letto con il suo capo. – 
– Vero. però lei ci va. Sicuro. hai visto come lo guardava? Come lo ha sfiorato anche se doveva stare a distanza? Lei è la sua amante, e questo è un problema per noi, perché non ci diranno la verità. – 
– E il Generale De Dominicis? – chiese Di Capua?
– Bravo. Bella domanda. Mentre parlavano mi sono guardato il suo curriculum sul portale del Ministero della Difesa, dagli un’occhiata anche tu, tanto le password ce le hai.
Di Capua armeggiò un paio di minuti, mentre Graziosi superava Porta Pia e si avviava su via Nomentana verso la caserma.
– Vabbè – disse Di Capua alla fine – mi pare un curriculum impeccabile: accademia militare a Modena, tre missioni di peace keeping in Bosnia, Afghanistan e Libano, ha scalato tutti i gradini del comando nella Nato fino ad assumere il ruolo di vice-comandante delle operazioni in Europa, poi gli è stato preferito un belga nella rotazione e lui ha lasciato la Nato, ed ha assunto l’incarico attuale. Non vedo cosa ci sia di strano. – 
Graziosi guardò di nuovo dallo specchietto.
Gli piaceva giocare al gatto e il topo con Di Capua. Lo aiutava a pensare, a focalizzare le sue idee, e a definire la strategia.
– Cosa c’è di strano? Senti, Di Capua, i servizi segreti non sono un gioco di società. Non è che l’ultimo arrivato diventa il capo dei servizi segreti solo perché ha fatto una bella figura sul fronte. Nei servizi devi esserci da tempo, devi aver respirato l’aria dell’inganno e dell’intelligence, insomma: De Dominicis è una spia, e non da oggi.  – 
Di Capua annuì mentre rifletteva.
– E allora, adesso, da dove iniziamo, visto che non abbiamo informazioni attendibili e tutti ci stanno mentendo? – 
Graziosi fermò la macchina. 
– Da dove iniziamo? Andiamo a parlare con il bugiardo di professione. Se riusciamo a sapere qualcosa da lui, con gli altri sarà uno scherzo. – 

Graziosi era stato già diverse volte a Via In Selci, dove notoriamente anche se non ufficialmente c’era la sede dell’Intelligence italiana. Anche lui vi aveva prestato servizio per qualche mese, e per diverse indagini aveva ottenuto l’aiuto – e qualche volta anche l’opposizione – dei servizi.
Non era passata neanche mezz’ora dall’incontro a Palazzo Chigi, che il Maresciallo, dopo aver lasciato Di Capua alla stazione Nomentana, chiese di vedere De Dominicis.
Anche il palazzo dei servizi era spopolato, non c’era il viavai solito, e la piccola via in discesa che sfociava su Via Cavour era completamente vuota e silenziosa.
L’ufficiale all’ingresso sgranò gli occhi, evidentemente non era così usuale che qualcuno si presentasse senza appuntamento e senza essere stato preventivamente registrato.
– Non so se il Generale è in ufficio, in caso chi devo dire? – 
– Sono sicuro che è qui, e comunque se non è qui lo faccia arrivare per cortesia. Mi chiamo Graziosi e sono sicuro che mi riceverà subito. – concluse in maniera brusca. Non voleva perdere tanto tempo in chiacchiere.
Dopo neanche un minuto spuntò un uomo in borghese, con mascherina e guanti che gli si avvicinò fermandosi alla distanza di sicurezza.
– Se vuole seguirmi, il Generale l’aspetta. – disse voltandosi e facendo strada.
“Guarda che damerino” pensò Graziosi “le spie non sono più quei truculenti barboni di una volta, ora si sentono tutti Bond. James Bond. “
L’ufficio del capo dei servizi segreti era molto grande, con una scrivania di massello sovrastata da un’enorme mappa del mondo di legno.
Un computer portatile era l’unico oggetto di dimensioni rilevanti poggiato sulla scrivania, al di là della quale lo aspettava in piedi, sorridente, De Dominicis.
Graziosi si guardò intorno, ma a parte un divano con due poltroncine e un tavolinetto, e una piccola madia con un televisore accesso sulla CNN non c’era altro. Solo un piccolo armadio in un angolo, ma la stanza era sostanzialmente spoglia.
Il civile che lo aveva accompagnato uscì chiudendo delicatamente la porta, ma Graziosi non sentì il rumore delle scarpe di cuoio: evidentemente era appostato dietro la porta, e qualcosa gli diceva che non girava disarmato.
“La prudenza non è mai troppa” si disse.
– E quindi non ci ha messo molto a capire il mio vero ruolo. – disse De Dominicis sorridendo e sedendosi, invitando Graziosi ad accomodarsi su una poltroncina di fronte alla scrivania.
Graziosi ricambiò il sorriso. Quasi tutte le battaglie iniziano con un sorriso, si disse.
– Beh non che ci volesse molto. Se lei fosse stato operativo probabilmente avrebbe preso in mano le indagini. E se ci fosse stata un’esigenza militare non avrebbero chiamato di certo lei. Diciamo che ho intuito che lei seguirà il nostro lavoro, pronto ad intervenire qualora dovessimo muoverci in ambiti che non ci sono concessi. – 
De Dominicis rifletté per un attimo, le mani giunte quasi come in preghiera.
– Diciamo che un Stato ha delle priorità. La moglie del premier è sicuramente una priorità, ma NON la principale. Stiamo combattendo una guerra. Una guerra contro un nemico piccolo e invisibile, ma feroce. Non possiamo permetterci troppi errori, e qualcuno lo abbiamo già commesso. Sarò sincero: lei dovrà cercare la signora ma senza smuovere troppa merda. Se sentirò la puzza, allora mi farò vivo, ma spero non sia necessario. – 
Come minaccia non era male. Gentile, educata, chiarissima.
Graziosi si sporse leggermente in avanti.
– E allora perché non mi aiuta dicendomi come stanno le cose ed evitandomi di dover frugare nella merda, come dice lei, per trovare il bottino? – 
– Beh, nella cartellina che le è stata data troverà… – 
– Stronzate! – disse Graziosi battendo il palmo della mano sulla scrivania.
– Stronzate. – ripetè con la voce bassissima, mentre gli occhi del Generale si erano dapprima spalancati per lo stupore, poi ridotti a fessure per la rabbia.
– La cartellina non l’ho neanche aperta. Là dentro ci sono solo puttanate che lei e il premier avete messo insieme per il damage control, tutta roba che se anche io mandassi alla stampa integralmente non farebbe danni. Non c’è niente là dentro di utile per le indagini. Niente. Quindi o lei mi aiuta sul serio, oppure sarò costretto a ravanare la merda. E la avverto. Sono bravissimo a frugare nella merda, è il mio mestiere quotidiano, quello per cui sono diventato famoso, ed è il motivo per cui oggi mi avete fatto chiamare. Ma se pensate di usarmi come specchio per le allodole vi siete sbagliati. – 
Il Generale De Dominicis non sorrideva più.
Si alzò lentamente, per sovrastare con il suo fisico imponente Graziosi, ma anche per chiudere l’incontro.
– Sa – disse con tono apparentemente mellifluo – ci metto un attimo a sollevarla dall’incarico e a mettere al suo posto un altro che sarebbe felice di aprire la cartellina, mandare a memoria quello che c’è scritto e magari fare un bell’avanzamento di carriera. Potrei chiamare Ziliani per esempio, che a lei sta così sul cazzo. E a lei mandarla a pulire i cessi in Brianza. Che ne dice di questa alternativa? – 
Graziosi annuì, con un sorriso amaro sulla bocca.
– Sì. Era una buona alternativa. Almeno fino a mezz’ora fa. Ma credo che ora non potrà più metterla in pratica. – 
De Dominicis lo guardò con aria interrogativa.
– Eh sì, perché il mio vice ha già informato la stampa della scomparsa della moglie del premier e che io sto seguendo le indagini. Anzi – disse in tono ostentato guardando l’orologio – mi faccia andare, credo che la stampa mi stia aspettando davanti alla caserma. – 
De Dominicis schiumava rabbia.
– Graziosi, giuro che glie la faccio pagare. Prima di quanto creda. –
Graziosi si fermò davanti alla porta che il civile gli aveva spalancato per uscire.
– Glie lo avevo detto Generale: a rovistare la merda sono bravissimo. Ma la carta igienica se la deve andare a comprare da solo. – 
E uscì non senza uno sciocco sorriso di soddisfazione.

Non fece in tempo a salire in macchina e a togliersi la mascherina che il suo telefono squillò. Per la precisione cominciò ad urlare di dolore, mentre il Comandante Generale lo chiamava, e lo chiamava con tale intensità che il suo nome sembrava illuminato come il neon di un casinò di Las Vegas.
Graziosi spense il cellulare urlante e lo scagliò dentro il cassettino della macchina, poi prese un altro cellulare dalla tasca della giacca e fece un numero.
– Il Comandante si è incazzato? – chiese Di Capua che sapeva bene in quali situazioni Graziosi usava il suo cellulare personale.
– Già – rispose mentre imboccava Piazza dei Cinquecento – che aria tira là? – 
– Mah… – rispose Di Capua mentre si affacciava alla finestra – ci sono almeno una ventina di giornalisti e cameramen qua fuori, e la municipale fatica a tenerli distanziati. Vedo che urlano continuamente mentre fanno cordone, sono incazzatissimi. –  concluse con un tono quasi allegro.
Anche Graziosi sorrise.
– Immagino la scena, quasi come quel film di Fantozzi in cui gli impiegati premevano ‘vogliamo lavorare!’ e le guardie giurate li tenevano lontani. Vabbè, hai fatto quello che ti ho chiesto? – 
– Certo – rispose l’appuntato – ho tutto qui pronto. – 
– Bravissimo, allora fai una cosa, prendi il faldone e vieni a casa mia, così evitiamo di dover incontrare la stampa e la municipale, che continuino a scazzarsi tra di loro. – 
– Come fa a sapere… – cominciò Di Capua un po’ stupito.
– …che hai un faldone? Ma tu hai sempre un faldone, Di Capua, secondo me ci dormi pure abbracciato a qualche faldone. Dai ti aspetto. –  e chiuse la telefonata, mentre Di Capua alzava gli occhi al cielo e si dirigeva alla sua macchina.

Seduto sul divano, una gamba di traverso all’altra, Graziosi si accese una sigaretta.
Fumava poco, e quel poco solo quando era sotto stress. Che per uno che faceva il suo mestiere significava MOLTO stress.
La moglie del primo ministro scomparsa. I servizi segreti subito pronti a mischiare le carte o a farle sparire. Il Comandante Generale incazzato con lui. Un’epidemia disastrosa in corso.
Beh, sì, una sigaretta se l’era meritata, si disse.
Che poi a pensarci bene, quale era stata l’ultima…improvvisamente si bloccò, la mano a mezz’aria con la sigaretta che si consumava lentamente.
Due settimane fa.
Solo due settimane fa aveva fumato l’ultima sigaretta.
Era appena iniziata l’epidemia, e il Governo aveva emanato dei decreti restrittivi.
Aveva telefonato a Monica.
– Ciao. Come stai? – le aveva chiesto con un tono morbido.
– Bene…tu!? – chiese lei, tentativa.
– Beh a me non cambierà gran che, pare che acciuffare i criminali sia ancora considerata un’attività essenziale. Ma magari tu potresti venire qui da me. Il tribunale è chiuso, non potrai muoverti, magari passiamo queste settimane insieme come se fosse una vacanza. Che ne dici? – 
Silenzio. 
Graziosi non era nato ieri. Un silenzio che durava più di un millisecondo erano guai. Un silenzio di un decimo di secondo erano guai seri.
Monica fece passare dieci secondi prima di rispondere.
– Io…a dire il vero…penso che rimarrò qua…mio marito mi ha chiesto se può tornare…si è trasferito stamattina… –
Graziosi non disse una parola. Non che ci sarebbe riuscito anche se ci avesse provato, ma non ci provò neanche.
Così lei continuò.
– Mi ha chiesto…di vedere se possiamo ricostruire il nostro rapporto…e magari…tu lo sai…dio quanto mi dispiace, ma tu lo sai, io voglio un figlio, e anche lui lo vuole, ma tu no, e questo cambia le cose…e poi adesso chissà che fine faremo. Non posso lasciarlo solo. Non posso. Perdonami. Ti voglio bene. Ma non posso. – 
Chiuse la telefonata. Probabilmente piangeva.
Graziosi prese una sigaretta, e un accendino e cominciò a fumare, due settimane dopo come allora.

I suoi ricordi furono interrotti dal campanello.
– E’ aperto! – gridò, e dalla porta entrò Di Capua con un faldone enorme in mano, e si avvicinò al divano.
– Di Capua, ma che cazzo fai? – gli urlo Graziosi?
– Marescia’ e volevo vedere il faldone insieme a lei – 
– E non lo puoi vedere, che cazzo! stai a distanza. Non lo dico per me, ma per te, hai moglie e figli. Il faldone lo tengo io, tanto se ti conosco te lo sei imparato a memoria come l’Avemaria. – 
Gli occhi di Di Capua iniziarono a muoversi verso il soffitto ma lo sguardo di Graziosi gli comunicò che non era il caso.
Il Maresciallo aprì il faldone e iniziò a leggere, mentre Di Capua snocciolava i dati salienti:
– La Dottoressa Annarita Miceli si è laureata in scienza politiche nel 2010, e poi ha preso una specializzazione in comunicazione nel 2012. Inizia a lavorare come stagista in uno studio associato, sa quelli che hanno dentro un po’ di tutto, notai, avvocati, commercialisti…-
– Sì sì lo so cos’è uno studio associato, vai avanti. –  lo esortò Graziosi.
– Nel 2014 entra nella segreteria del Senatore, ma quasi subito ne diventa l’addetta stampa, e lo segue in tutta la sua carriera politica fino ad ora. –
– Ecco fatto. – disse Graziosi – la meravigliosa storia di una raccomandata di Roma Nord. – concluse con una smorfia di disgusto.
– Marescia’, guardi che pure lei abita a Roma Nord, eh!? – 
– E no! Di Capua! non te lo permetto! – esclamo’ incazzato Graziosi, con un tono così esagitato che a Di Capua venne spontaneo arretrare mezzo passo.
– Prima di tutto qui non siamo ai Parioli, la differenza tra i Parioli e la Nomentana è la stessa che c’è tra la Corea del Sud e la Corea del Nord, sono attaccate ma non c’entrano un cazzo l’una con l’altra. E poi lo sai benissimo che io qua mi ci sono trasferito per colpa della mia ex moglie. Io sono di Roma Sud: Garbatella, Tormarancia, la Caffarella, ma che cazzo ne sai te che sei di Castellammare di Stabia. – 
Concluse la sua arringa con enfasi prima di rendersi conto che Di Capua era immobile, perfettamente eretto, ma con gli occhi praticamente appiccicati al soffitto, una vaga somiglianza con il Verdone di “in che senso, scusi!?”.
– Di Capua… – disse Graziosi con tono falsamente mellifluo – ti faccio trasferire alla foce del Po, in mezzo alle anguille e alle zanzare se non la pianti.
Gli occhi dell’appuntato ripresero la loro direzione usuale, mentre cercava di giustificarsi:
– Vabbè Marescia’, però sinceramente con questa Caffarella ci avete scassato ‘a uallera. – 
Per la seconda volta nella giornata Graziosi scelse di scoppiare a ridere invece di strangolare il suo vice.
Quando i due si riebbero dai singulti, chiese:
– Ha un marito questa ragazza? – la domanda non era certo casuale.
– No ma ha un fidanzato. Convivono. – 
– E che fa questo fidanzato? – 
– Anche lui è entrato a lavorare nella segreteria del Senatore, qualche mese dopo la Miceli, e poi nel 2015 è entrato nell’Ufficio Stampa di una banca regionale, una delle più grandi, il nome è nel faldone. – 
– Quindi si sono conosciuti lavorando entrambi per il Senatore. – disse Graziosi.
– A dire il vero no. – lo corresse Di Capua – stanno insieme dai tempi dell’università.
Graziosi alzò lentamente lo sguardo verso Di Capua, che arrossì come se avesse detto qualcosa di sconveniente e fosse stato rimproverato.
Graziosi spense la sigaretta, chiuse il faldone e si appoggiò al divano.
– Quindi fammi capire: lei entra nella segreteria del Senatore, dopo qualche mese anche il suo fidanzato che poi va a lavorare in una banca. E dimmi, per curiosità, chi sono i manager di questa banca? – 
Di Capua avrebbe voluto sbirciare il faldone ma era chiuso.
– Ora il nome non me lo ricordo ma è scritto… – 
– Lo so dove è scritto, perché l’ho appena letto e l’ho anche riconosciuto. Il Presidente di quella simpatica banca regionale è un vecchio politicante ormai in pensione, che è stato uno dei maestri del nostro premier, e che è stato evidentemente ricompensato con una poltrona dorata. Ora dimmi: – 
e guardò Di Capua come ogni gatto deve guardare un topo un secondo prima di azzannarlo.
– Pensi ancora che io sia un sessista? – 
Di Capua avvampo’, ma dovette ammettere che il suo capo aveva fatto centro.
– E no, Marescia’, mi sa che c’ha ragione lei. Questa se la fa col Primo Ministro, ha fatto assumere il suo fidanzato e l’ha piazzato in un bell’ufficio, così lui è cornuto e contento e lei può continuare a seguire il suo amante senza tanti rompimenti di coglioni. – 
L’applauso solitario di Graziosi si levò nella stanza.
– Bravo Di Capua, sintesi perfetta. Le cose stanno proprio così. Ora la domanda è: come mai nessuno ha mai tirato fuori questa liason? né i giornali, né l’opposizione, nessuno? – 
Di Capua si alzò, incurante dell’occhiataccia del suo capo, prese il faldone e ne estrasse una pagina di giornale stampata su un foglio A4 e lo porse a Graziosi.
Sul foglio, che era la copia di una pagina di un noto magazine scandalistico, su una colonna a destra c’era una foto sgranata, in cui si riconosceva il premier abbracciato ad una ragazza, di cui si vedeva a malapena la treccia e un orecchio.
Era impossibile distinguerne le fattezze, la foto era stata scattata di notte e con un teleobiettivo potente, la qualità molto scadente, ma abbastanza buona per finire su un giornaletto di quel tipo.
Il titolo diceva: “Chi è la fiamma segreta del Senatore? “
E non c’erano dubbi, pensò Graziosi, era lei, la Miceli.
– E dopo questo non c’è altro? – chiese il Maresciallo?
Di Capua fece un cenno con la testa.
– Io non ho trovato niente altro. – 
E se non lo aveva trovato lui, vuol dire che non c’era, pensò Graziosi.
– Evidentemente qualcuno ha fatto pressioni. Forse potrebbe essere interessante andare a parlare con questo giornalista che ha scritto il pezzo.  – 
Di Capua si dondolò sui piedi poi disse:
– Ma non sarà una perdita di tempo? – 
Graziosi lo fissò, poi attaccò:
– Lo sai a cosa paragono un’indagine, Di Capua? a un sentiero fatto di grandi pietre, come i sentieri degli antichi romani. Il percorso più o meno lo sappiamo, ma il tesoro dove sta? solleviamo le pietre più grandi per guardare, e magari non troviamo niente. Ci convinciamo che sarà un po’ più avanti e allora proseguiamo, e solleviamo altre pietre, ma magari sotto una pietra più piccola, sotto un sassolino, c’è un pezzetto del tesoro, e magari l’indicazione di dove trovare il prossimo pezzo. Io non voglio lasciare niente di intentato. – 
Di Capua annuì, ma si vedeva che la spiegazione non l’aveva convinto.
Graziosi si alzò, e in quel momento squillò il suo cellulare personale.
Anche se non lo aveva memorizzato, sapeva bene di chi fosse quel numero.
Rispose con un sospiro, e dall’altra parte la voce del Comandante Generale sembrò venire dall’oltretomba.
– Graziosi, prima che io ti faccia buttare fuori dall’Arma, saresti così gentile da spiegarmi perché per parlare con te ho dovuto chiedere ad un Magistrato di ordinare alla compagnia telefonica di darmi il tuo numero, e non ho semplicemente potuto chiamare il numero che lo Stato così generosamente ti paga? – 
– E’ una domanda retorica, vero? – disse Graziosi non senza un po’ di divertimento.
Il Comandante rimase in silenzio.
– Qua. Al comando. Subito. – 
E chiuse la telefonata.
– E ora? – chiese Di Capua.
– Vediamo di trovare quel giornalista. – disse Graziosi mentre si accendeva un’altra sigaretta.

Mentre Graziosi indossava la giacca, Di Capua era agitato. Per indole e formazione non era assuefatto all’idea di disubbidire agli ordini, e inoltre veniva da una stirpe di Carabinieri abituata a “obbedir tacendo”, e stavolta la presa di posizione del suo capo gli sembrava eccessiva.
– Marescia’, ma dove lo andiamo a prendere questo giornalista, e poi il Comandante è stato chiaro. – 
Graziosi si fermò appena in tempo per rispettare il metro di distanza, mentre gli porgeva il faldone.
– Senti Di Capua: il Comandante è sotto pressione perché il Premier lo incalza, ma allo stesso tempo gli mentono. Andare da lui a farsi fare un cazziatone ora non servirebbe a niente, se non a perdere tempo e magari a sentirci dire cosa possiamo e non possiamo fare. Io scelgo di ignorarlo, tanto il cazziatone lo prenderemo comunque, e quanto meno posso fare finta di non sapere che sto armando un casino. – 
Fece una pausa per essere certo che il suo vice fosse convinto, e comunque proseguì:
– Per trovare il giornalista in tempi brevi abbiamo bisogno di un aiuto e io so a chi rivolgermi. – 

Ancora una volta i due salirono in macchina in modalità tassista, con Di Capua il più distante possibile, e la sua mascherina ben appoggiata su naso e bocca.
Graziosi prese la tangenziale e ne uscì ai campi sportivi, per poi risalire su verso l’auditorium e poi svoltare a sinistra e arrivare a Piazza Euclide. Fece poi un centinaio di metri ancora e fermò la macchina in un parcheggio per carico e scarico merci, con il bollino dell’Arma bene in vista.
I due si fermarono di fronte ad un palazzetto d’epoca, di quelli che ai Parioli se ne trovano ogni cento metri, completamente dipinto di bianco e con una pulsantiera dei citofoni di ottone dorato.
Mentre Graziosi perlustrava le etichette dei nomi, Di Capua chiese:
– Dove stiamo andando, Marescia’? – 
– Mmm…andiamo a trovare…una mia amica… – disse mentre cercava di leggere senza occhiali i nomi – non mi ricordo il numero del citofono…eccolo qua! – e suonò al penultimo numero, il 13. L’etichetta diceva “Marini”.
– Gemma Marini è una mia vecchia amica, ha diretto per anni una di quelle riviste per donne, in cui si spiega come fare la dieta, come scoprire se vostro marito vi tradisce, e come trombare selvaggiamente. – disse ridacchiando.
– Eh, ma che ci facciamo? – chiese Di Capua sempre più perplesso.
– Lei conosce tutti, nell’ambiente giornalistico, e soprattutto in quello scandalistico. Vedrai che ci sarà utile. – 
In quel momento dal piccolo altoparlante del citofono uscì una voce squillante, ma un po’ preoccupata, perché in quella situazione le visite inaspettate non erano certo frequenti. – 
– Chi èèèèè? – chiese la donna alzando la tonalità della voce sull’ultima sillaba.
– Gemma sono io, posso salire un attimo? – 
Anche se non la si poteva vedere, il sorriso che comparve sul viso della donna era evidente.
– Graziosi! ma dai! che bella sorpresa! vieni, vieni su, ti apro. – 
Il portone antico di legno massello si aprì con uno scatto e i due entrarono.
Gemma abitava all’attico, quattro piani che Graziosi e Di Capua decisero di fare senza ascensore, per evitare che in uno spazio angusto le distanze non potessero essere rispettate.
Ci misero un po’, facendo le scale piano per evitare di arrivare con il fiatone.
Non appena Graziosi ebbe poggiato il piede sull’ultimo scalino, con Di Capua a rispettosa distanza, la porta si aprì e Gemma Marini comparve in tutta la sua splendente bellezza di cinquantenne, resa ancora più evidente dal fatto che indossava solo un negligée trasparente, issato su dei tacchi stratosferici, e generosamente aperto su un seno che madre natura le aveva concesso di conservare ancora senza necessità di chirurgia estetica, e su due cosce di marmo frutto di centinaia di squat quotidiani.
– Non ti dispiacerà se mi sono messa comoda, ho pensato che comunque… – non finì la frase perché improvvisamente scorse Di Capua appena più in basso sulle scale, diventò letteralmente bordeaux, cercando invano di coprirsi con le braccia per poi scappare via caracollando sui tacchi con il rischio di farsi male.
Graziosi si voltò verso il suo vice che cercava disperatamente di non ridere, con scarso successo, poi i due entrarono dentro casa, andandosi a sedere su due poltrone che fronteggiavano un divano di pelle di un colore improbabile, tra il giallo e il verde.
Quando Gemma rientrò era completamente vestita, con un paio di jeans, un maglioncino leggero e delle sneakers. Elegantemente casual, ma niente a che vedere con la donna che aveva aperto la porta pochi secondi prima.
E in più era incazzata nera. 
Si sedette sul divano, braccia conserte.
– Potevi avvisarmi che non eri solo. – disse
Graziosi si strinse nelle spalle.
– Di Capua è un uomo di mondo, ha fatto il militare a Cuneo. – rispose Graziosi
– Tre anni, per la precisione. – chiosò Di Capua.
– Non mi fate ridere. Che vuoi? Sbrigati perché ho da fare. – 
Graziosi pensò che prima il tempo lo avrebbe trovato, ma non disse nulla.
– E poi sono in servizio – disse per giustificarsi – lo sai che i Carabinieri in servizio non possono né bere né trombare.
– E quelli sposati neanche dopo il servizio. – aggiunse Di Capua che evidentemente pensava di essere entrato a far parte di una compagnia di varietà.
Gli altri due lo guardarono senza sorridere e lui si ritrasse nella poltrona.
– Ho bisogno che mi aiuti a trovare un giornalista. Devo parlarci subito, prima di adesso. – 
– E non puoi usare i prestigiosi servizi dell’Arma? – chiese lei che evidentemente non aveva ancora mandato giù la figuraccia di prima.
Graziosi annuì.
– Potrei, effettivamente. Ma ci vorrebbe tempo. E poi ora sono in una situazione difficile, non credo che mi aiuterebbero molto. – 
– Non te lo meriti. – disse lei che però aveva sciolto il nodo delle braccia, chiaro segno che le stava passando.
– Lo so, ma non ti sto chiedendo di farmi un favore a vuoto. Se le tue informazioni mi aiuteranno, ti prometto che sarai la prima a poter pubblicare tutti i retroscena di questa storia. – disse Graziosi spalancando gli occhi sperando che non si vedesse che mentiva.
– Quale storia? – chiese lei incuriosita.
– Questo ora non posso dirtelo, ma te lo dirò al momento opportuno. – 
Lei lo guardò a lungo, scrutandolo in profondità per capire se le stava raccontando una balla. 
Alla fine decise di credergli.
– Va bene. Ti aiuterò come posso, ma visto che il tuo amico qua è un uomo di mondo, sarò molto chiara: non solo voglio l’esclusiva, ma alla fine di questa storia voglio che vieni qua e mi scopi con una certa energia. –
– Marescia’, se vuole ci dividiamo i compiti eh!? – disse al volo Di Capua.
Stavolta i due non poterono fare a meno di scoppiare a ridere.
– Tu pensa ai faldoni, Di Capua, del resto me ne occupo io. – concluse Graziosi guardando la Marini che rideva con gli occhi.

Uscirono di corsa dal palazzetto, Graziosi avanti due metri e Di Capua che arrancava con tutta la documentazione che aveva insistito per portarsi dietro, e la divisa che in quelle giornate di aprile gli sembrava pesante come un’armatura.
Non riusciva a stare dietro al suo capo, che come un cane da tartufi aveva fiutato il tesoro.
Gemma Marini non solo gli aveva dato il telefono del giornalista, tale Gianfranco Abbani, ma lo aveva chiamato davanti a lui con la sua voce suadente, e ora il giornalista li aspettava per fare una chiacchierata; recluso com’era da giorni aveva accolto con interesse la richiesta di Gemma di parlare con Graziosi e insomma i due chiusero lo sportello mentre Graziosi accendeva la macchina di servizio e imboccava di nuovo Viale Pildsulski in direzione dell’Auditorium.
Superata la costruzione, tristemente deserta in un periodo dell’anno in cui di solito era già iniziata la stagione dei concerti e delle mostre, imboccò il lungo ponte che lo avrebbe portato fino a Viale Tiziano e poi al Lungotevere Flaminio, dove lo aspettava Abbani.
Improvvisamente, mentre stavano per arrivare al semaforo che costeggia lo Stadio Flaminio, un cellulare dei Carabinieri arrivò di taglio dallo slargo vicino allo stadio e si mise completamente di traverso impedendo a Graziosi qualsiasi possibilità di svicolare.
– Attento!!! – urlò Di Capua dal sedile posteriore mentre si teneva alla cintura.
Graziosi mollò il pedale dell’acceleratore e spinse con tutta la forza che aveva il freno mentre scalava disperatamente le marce.
La macchina cominciò a ruotare su se stessa, prima lentamente, poi più velocemente mentre gli pneumatici urlavano disperatamente sull’asfalto e l’acciaio della macchina strideva per lo stress.
Dopo qualche secondo di panico il paraurti posteriore della macchina di Graziosi andò a poggiarsi leggermente sulla fiancata del camion dipinto di scuro, con la scritta familiare rossa su sfondo nero, e la macchina si arrestò appena in tempo prima di soccombere ad un inevitabile incidente.
In preda ad una rabbia furiosa, amplificata dallo spavento di poco prima, Graziosi aprì lo sportello e si lanciò come una furia verso l’altro automezzo, ma non fece in tempo ad arrivare al lato del guidatore, perché un Carabiniere in divisa gli puntò una mitraglietta contro.
Graziosi si paralizzò, mentre Di Capua usciva lentamente dalla macchina, e un altro Carabiniere si materializzò, anche lui con un’arma puntata sull’appuntato.
Mentre i due, sbigottiti, rimanevano immobili, lo sportello del guidatore del cellulare si aprì, e ne uscì un Carabiniere in divisa da ufficiale, che si sistemò con cura la giacca, poi  si assicurò che il cappello fosse a posto.
Si guardò intorno giusto il tempo di osservare un operatore della RAI che si avvicinava rapidamente con una telecamera dotata di microfono, poi andò lentamente verso i due.
Si fermò a poco più di un paio di metri, senza indossare una mascherina che evidentemente avrebbe rovinato l’aspetto fiero e impettito del militare.
Mani dietro la schiena, e un sorriso beffardo sul viso, tese le spalle indietro per allungare ancora di più la figura.
– Stavolta sei nella merda, Graziosi. – disse Ziliani, il Comandante della stazione di Piazzale Clodio.
Aspettò ancora qualche secondo, poi quando fu sicuro che la telecamera fosse a portata disse con voce stentorea.
– Maresciallo Graziosi, la dichiaro in arresto, insieme al suo vice Di Capua, per insubordinazione. – si fermò un secondo, e con un piacere che non riusciva a contenere disse ai due Carabinieri che tenevano a bada Graziosi e Di Capua: – Mettetegli le manette e caricateli sul cellulare. – 

La stanza in cui Graziosi sedeva ad un tavolino di formica era completamente spoglia. Il Maresciallo guardava con curiosità le manette ai polsi.
Le aveva viste molte volte, e qualche volta le aveva anche usate, anche se non era uomo di azione, ma non pensava che le avrebbe mai subite.
Non alzava lo sguardo perché sapeva bene che dietro alla parete la telecamera fissata in alto trasmetteva le immagini a delle persone, a quelli che fino a un’ora prima erano suoi colleghi, e non voleva che leggessero nei suoi occhi la rabbia e lo stupore per la sua condizione di fermato.
Aveva tirato la corda molte volte, quasi sempre aveva ignorato le procedure, le regole, gli ordini dei superiori, ma lo aveva fatto perché il suo modo di agire e di cercare la verità spesso collideva con le regole che lo Stato si dava per evitare abusi ed errori.
Ne era sempre uscito indenne: la sua bravura e negli ultimi tempi la sua fama lo avevano protetto.
E proprio stavolta, in cui aveva semplicemente ignorato una convocazione, lo avevano punito.
Non si chiese il perché, gli era fin troppo chiaro: non aveva pestato una merda, bensì qualcuno glie l’aveva infilata a forza sotto una scarpa e lui non era riuscito ad evitarla.
Ma quella merda gli diceva molte cose, era forse un passo falso per altri più che per lui.

Non alzò la testa neanche quando sentì la porta della stanza aprirsi.
Due persone. Una era di sicuro Ziliani, l’altra non la riconosceva ma non faticava a immaginarsi chi fosse.
Ziliani si avvicinò alla scrivania e si sedette di fronte al Maresciallo, mentre l’altra persona rimaneva in piedi vicino alla porta.
– Graziosi, Graziosi… – iniziò Ziliani – Stavolta hai davvero esagerato. Mi dispiace sai – continuò – io ti ho sempre stimato, anche se tu insisti ne trattarmi come un deficiente raccomandato – 
“Quale effettivamente sei” pensò Graziosi tra sé.
– Non avrei mai voluto trovarmi in questa situazione – mentì Ziliani – ma le regole sono regole e valgono per tutti. Abbiamo chiamato il magistrato militare che arriverà tra un paio d’ore. Però ho parlato con il Comandante, e lui mi ha detto che l’Arma non ne uscirebbe gran che bene se uno dei suoi elementi più di spicco, ha detto proprio così, subisse un processo pubblico. – 
Aprì una cartellina con lentezza calcolata e proseguì.
– Per questo il Comandante ritiene che tu te la possa cavare con un periodo di congedo di qualche mese. Il magistrato non solleverà accuse, tu te ne starai in quarantena a casa, e tra qualche mese tornerai in servizio. Magari – aggiunse con una soddisfazione che trasudava da tutti i pori – potresti venire a lavorare con me a Piazzale Clodio, posto per un Carabiniere in gamba ci sarà sempre – concluse soddisfatto.
Graziosi decise che ne aveva abbastanza.
Alzò la testa e diresse lo sguardo verso De Dominicis che guardava la scena con un sorriso beffardo negli occhi.
Senza dire una parola, e senza guardare Ziliani ma continuando a fissare De Dominicis porse le mani in avanti con i pugni chiusi.
Ziliani battè un paio di volte gli occhi, non capiva.
De Dominicis parlò con un tono di voce molto lento e profondo.
– Gli tolga le manette. – 
Era un ordine a cui uno come Ziliani non poteva disubbidire; prese le chiavi farfugliando qualcosa e tolse le manette a Graziosi, il quale continuò a fissare De Dominicis rivolgendosi a lui come se Ziliani non esistesse.
– Faccia usciere questo cretino e poi parliamo. – disse solo.
Ziliani avvampò e fu sul punto di esplodere ma il Generale dei servizi segreti si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla e gli disse:
– Per favore ci lasci soli. E spenga la telecamera. – 
Quando poi Ziliani si alzò senza avere il coraggio di replicare e uscì dalla stanza, si sedette e guardò Graziosi negli occhi.
– Sono tutto orecchi. – disse De Dominicis sorridendo a Graziosi come la Iena sorride alla vista di una carcassa ancora intera.

Graziosi guardò il Generale a lungo. 
Voleva capire quanto fosse coinvolto e quanto si potesse fidare di lui.
Era un militare, ma anche un agente dei servizi, anzi, il capo dei servizi. 
Quando avrebbe pesato la disciplina e il senso dello Stato e quanto gli interessi personali e le direttive della politica?
Non aveva scelta, doveva dargli qualcosa, ma non senza negoziare.
– Faccia venire Di Capua. Questa conversazione non può svolgersi senza testimoni. – chiese Graziosi.
De Dominicis non nascose l’irritazione, contraendo leggermente la mascella e strizzando gli occhi dietro le lenti di un paio di eleganti multifocali che si inserivano sulle orecchie precisamente a filo della barba leggera.
– E cosa le fa credere che non sarei capace di eliminarvi entrambi, se ne fossi costretto? – disse con un tono sarcastico che non riusciva però a nascondere la minaccia.
Graziosi si avvicinò sorridendo al viso del Generale sporgendosi sul tavolo.
– Perché io ho messo insieme già un po’ di cosine e mandate via email ad un paio di amici che sanno cosa farne, in caso. – 
De Dominicis lo guardò inarcando un sopracciglio. Era sicuro che il Maresciallo stesse bluffando, ma in fondo non gli importava. Se avesse dovuto farlo avrebbe fatto sparire tutte le persone che era necessario.
Prese il cellulare, diede un ordine, e cinque minuti dopo Di Capua entrò accompagnato da un carabiniere chiaramente imbarazzato nel vedere Graziosi in stato di fermo.
Quando i tre furono di nuovo soli, e Graziosi ebbe salutato con un cenno del capo il suo vice, De Dominicis cominciò a mostrare un po’ di impazienza.
– Allora, sentiamo cosa mi voleva raccontare. – sottolineò la frase appoggiando con forza i polpastrelli di entrambe le mani sul tavolo.
Dopo un ultimo secondo di esitazione, Graziosi si decise.
– Voglio credere che lei sia in buona fede in tutto questo, o meglio, che abbia mentito per un senso del dovere un po’ distorto che quelli come lei ostentano con grande soddisfazione. – 
A queste parole una palpebra del Generale tremò leggermente ma non si mosse. Di Capua fissava il suo capo con un sorrisetto che tirava fuori nei momenti speciali. 
– La signora è sparita, su questo non ci sono dubbi Ma sul resto avete costruito una marea di cazzate. niente di quello che mi è stato raccontato è vero. Neanche una parola. – 
Il Generale fece il gesto di rilassarsi sulla sedia, sempre tenendo le mani sul tavolo e sorridendo amabilmente. 
– E per quale motivo il e il Premier avremmo dovuto convocarla per raccontarle tutte queste frottole, mi faccia capire? – 
Graziosi sorrise a sua volta. Il generale era un uomo d’azione, non era poi così bravo a giocare a scacchi.
– Prima di tutto lei non sarebbe qua. Lei è venuto per tirarmi fuori, in un modo o nell’altro. Quel coglione di Ziliano per zelo ha interpretato in maniera esagerata l’irritazione del Comandante Generale e ne ha approfittato per prendersi una piccola vendetta su di me e sputtanarmi in televisione. Ma questo a lei non serve, anzi. – 
Fece una pausa per guardare le reazioni del suo interlocutore, che non sorrideva più tanto.
Di Capua invece stava godendo moltissimo, e non si premuniva di nasconderlo.
– Lei è venuto a prendermi per lo stesso motivo per cui mi ha raccontato tutte quelle frottole, come le chiama lei: io vi servo, per certificare in maniera autorevole che la moglie del premier è stata cercata disperatamente ma sembra essere scomparsa nel nulla, e magari tra qualche giorno io dichiarerò che le indagini sono chiuse, il premier comparirà in televisione affranto e disperato, ma visto il momento così difficile l’elettorato si stringerà intorno a lui e il suo indice di gradimento schizzerà verso l’alto. – 
Di nuovo una pausa ma era ora di affondare i colpi.
– Sa invece io cosa credo? Che la signora sia scomparsa ma probabilmente uccisa, che la scomparsa risalga a diverso tempo fa perché è almeno una settimana che non compare in pubblico, e che il premier e la sua amante le abbiano dato una versione edulcorata dell’accaduto, infarcita di dovere verso lo Stato in un momento così difficile, e che lei li abbia aiutati a imbastire una storiella a mio beneficio. Chissà, magari è venuta proprio a lei l’idea di chiamarmi. – 
Concluse gettandosi indietro sullo schienale e incrociando le braccia davanti al petto.
Il Generale era arrossito violentemente, che per una spia sarebbe dovuto essere quasi impossibile.
– E’ stato il suo Comandante a chiamarla. – disse solo.
Guardò Graziosi a lungo, poi si alzò.
– Andiamo. – disse solo e uscì dalla stanza seguito dai due.
Fuori dalla caserma, in una Piazzale Clodio popolato solo di qualche fantasma con la mascherina blu i tre rimasero qualche momento in silenzio.
– La sua storia non mi convince Graziosi – disse il Generale – ma quella del Premier ancora di meno. Lei scopra che fine ha fatto la moglie e magari non sarà costretto a farla arrestare di nuovo. – 
I due lo guardarono allontanarsi, poi Graziosi si girò verso Di Capua e disse sorridendo:
– Taxi!? – 
Di Capua alzò gli occhi al cielo mentre si incamminavano verso la macchina, ma sorrideva anche lui sotto la mascherina di tessuto che gli nascondeva bocca e naso.

Gianfranco Abbani abitava in un seminterrato a San Saba; aveva scelto come compromesso una zona centralissima e molto prestigiosa di Roma, a due passi da tutto, ma aveva potuto permettersi solo un miniappartamento di due stanze, con delle finestre che erano più che altro spioncini che davano sulle gambe dei passanti.
Poco male, se in cambio aveva la possibilità di fare una passeggiata al tramonto al Giardino degli Aranci, con una vista spettacolare su San Pietro, e se Caracalla e il Circo Massimo distavano solo pochi minuti a piedi.
Non avrebbe scambiato il suo miniappartamento con un attico ai Parioli, se avesse potuto scegliere, e comunque non poteva.
Aprì la porta completamente bardato di mascherina con valvola e guanti azzurri, evidentemente era uno di quelli che aveva preso la quarantena sul serio, ma gli occhi erano cordiali e sorridente mentre diceva: – Prego, entrate! Vi aspettavo qualche ora fa a dire il vero –  e li faceva accomodare nel salottino.
– Caffè? – chiese, e senza attendere risposta cominciò ad armeggiare con la moka.
Graziosi e Di Capua si sedettero su due poltrone, e il Maresciallo, insofferente, si calò la mascherina, guadagnandosi un’occhiataccia del giornalista.
– Gemma mi ha detto che mi volevate parlare dell’articolo sul Premier e la sua “assistente” – disse calcando con sarcasmo la parola assistente.
– Esatto – rispose Graziosi.
Poi dovette attendere qualche secondo perché Abbani smadonnava nel tentativo di svitare la moka, operazione che gli riuscì non senza fatica, per poi buttare i residui del caffè e dargli un sciacquata prima di riempirla di nuovo d’acqua.
– La caffettiera va pulita subito dopo averla usata- disse ansiosamente Di Capua, la cui anima napoletana era trafitta dalla sufficienza con cui Abbani trattava un rito così importante come quello del caffè.
Abbani alzò gli occhi a guardare Di Capua, poi fece spallucce e disse:
– Che differenza fa? – 
Di Capua strabuzzò gli occhi prima di spararli verso il soffitto.
Abbani lo guardò a bocca aperta, bloccandosi per qualche secondo dall’operazione di caricamento della caldaietta.
– Ha qualche problema? – chiese a Graziosi?
Graziosi scosse la testa.
– Nessun problema – rispose – è solo molto gentile e non se la sente di dire che il caffè così fa cagare. –
Abbani rimase ancora in silenzio per qualche secondo poi scoppiò a ridere, mentre finalmente metteva sul fuoco la caffettiera.
Accese il gas al massimo e chiuse il coperchietto.
Un lamento come di animale ferito sgorgò dalle labbra di Di Capua, e Graziosi temette per un momento che il suo vice potesse essere davvero in preda ad un ictus, poi guardò la caffettiera e si alzò di scatto.
– Si scansi – ordinò ad Abbani.
Poi ruotò la manopola del gas fino a posizionarlo al minimo, e aprì il coperchio della moka.
Infine si rivolse ad Abbani con uno sguardo di rimprovero.
– Lei me lo vuole far morire d’infarto? abbia pazienza! – 
– Ma…non capisco… – disse confuso il giornalista toccandosi la barba nera in gesto di nervosismo.
– Lei ha un ospite napoletano a casa sua, e quindi o gli prepara il caffè come cristo comanda oppure si compri una nespresso. Quello che ha fatto è imperdonabile! La caffettiera deve rimanere aperta, e il calore deve crescere a poco a poco, lentissimamente, finché il caffè non fluisce come lava. Altrimenti viene una ciofeca! – 
Detto questo si rimise a sedere.
– Di Capua puoi smetterla con la sceneggiata, ha capito. – 
Magicamente gli occhi del vice ripresero vita, ma si fissarono con astio sul giornalista che arrossì come se avesse commesso un grave reato. E forse, per un napoletano, lo aveva appena fatto.
Indeciso sul da farsi il giornalista si sedette ad una sedia vicino al tavolo della cucina, che poi altro non era che una rientranza del piccolo salotto.
Senza dire una parola Di Capua si alzò e andò a prendere il comando della caffettiera, prima che Abbani commettesse qualche altro disastro.
– Perché sull’argomento non ha più pubblicato nulla? – venne al punto Graziosi.
Abbani riprese lo sguardo ironico di prima.
– E secondo lei!? – chiese retoricamente – perché qualcuno intervenne sull’editore, e l’editore su di me. Io protestai, minacciai di licenziarmi, ma dato che ero a collaborazione era una minaccia di scarsa efficacia. Poi non avevo nulla di mio, la foto era stata scattata da un fotoamatore e il giornale ne aveva comprato l’esclusiva, per cui non potevo neanche rivendere la storia ad un altro magazine. Senza la foto la mia storia non avrebbe avuto un seguito. E poi il premier era già in corsa per un governo di larghe intese e riformista, e insomma nessuno avrebbe avuto voglia di pubblicare qualcosa senza la pezza d’appoggio di una foto compromettente. – 
Graziosi annuì.
– Capisco, quindi il premier fece pressioni sull’editore affinché nascondesse tutto sotto la sabbia? – concluse.
Abbani ridacchiò.
– No, ma quale premier. Fu la moglie a fare pressioni, era amica dell’editore e gli chiese di non proseguire quell’inchiesta, e lui lo fece. – 
Graziosi rimase a bocca aperta.
– Mi sta dicendo che la moglie del premier, tradita pubblicamente, fece in modo che il marito non fosse travolto dallo scandalo? – 
Abbani annuì, mentre la bocca si atteggiava ad una smorfia.
– Può sembrare incredibile, ma è andata proprio così. – 
In quel momento toccò a DI Capua interrompere il flusso del ragionamento dei due, allungando il braccio per servire il caffè bollente.
Abbani si girò verso Di Capua con un sorriso che voleva essere conciliatorio, e poi disse:
– Il latte è nel frigo, me lo può prendere per cortesia? Volete macchiarlo anche voi? – 
Stavolta furono due le paia di occhi che partirono per il soffitto, a suggellare definitivamente la totale incompetenza di Gianfranco Abbani in materia di caffè.

Tornati nell’ufficio deserto Graziosi e Di Capua si sedettero ai lati opposti della scrivania, ma furono subito interrotti dallo squillo del cellulare di Graziosi.
Non aveva bisogno di guardarlo per sapere chi fosse.
– Comandi. – rispose un po’ ostentatamente.
– Graziosi…mi dispiace. Ziliani ha voluto calcare la mano, e la richiesta “mi porti subito Graziosi” è diventata una sceneggiata a favore di telecamere. Purtroppo l’ho saputo quando lei era stato già rilasciato.  – il Comandante cercò di dare alla sua voce un tono autorevole, anche se si capiva che era in difficoltà.
Graziosi fu magnanimo.
– Non si preoccupi Comandante, non avevo dubbi. Il giorno in cui i referenti politici di Ziliani smetteranno di proteggerlo mi toglierò qualche soddisfazione. – 
– E io guarderò da un’altra parte, glie lo prometto. – concluse con un sorriso nella voce.
– Ma venendo al caso – riprese il Comandante – ci sono novità? Ho il premier con il fiato sul collo. – 
Graziosi sbirciò Di Capua, che provava sempre un sottile piacere ad ascoltare le conversazioni del suo capo con le autorità, gli piaceva quando recitava la parte del bravo carabiniere.
– Nessuna di rilievo, anche perché come sa abbiamo avuto qualche impedimento. – non si risparmiò la stoccata – Ma abbiamo un paio di piste che stiamo seguendo, e spero entro qualche giorno di darle qualche buona notizia. – intanto che parlava si accese una sigaretta, nonostante l’evidente disapprovazione di Di Capua, e mise i piedi sulla scrivania.
– Qualche giorno!? – quasi si strozzò, il Comandante Generale – Graziosi io ho bisogno di risultati subito, anzi ieri! Tra qualche giorno io potrei non essere più Comandante Generale dell’Arma e lei sarà a pulire i cessi delle caserme del Molise! – 
Di Capua soffocò una risata, e si beccò un’occhiataccia di Graziosi, che però ridacchiava anche lui, contento di tenere sui tizzoni ardenti il suo Comandante.
– Comandante, le assicuro che faremo il possibile, ma come sa muoversi è difficile, le forze dell’ordine sono tutte impegnate nel controllo del territorio, dobbiamo anche evitare la stampa che ci assedia, insomma speriamo di avere qualche notizia a breve. Ora la saluto. – e chiuse la telefonata prima che il Comandante potesse ricordargli che la stampa l’aveva scatenata lui stesso.
– Marescià, mi piacerebbe sapere come facciamo a trovare la moglie del premier. – disse Di Capua, un po’ preoccupato, mentre stingeva il faldone al petto, seduto in punta alla sedia.
Graziosi non rispose subito, tirò un paio di boccate dalla sigaretta, poi si decise a spegnerla in un vecchio e logoro portacenere di vetro rubato a chissà quale bar, e tolse i piedi dalla scrivania.
Appoggiò i gomiti sul ripiano di vetro e il mento sulle mani, sporgendosi verso l’appuntato.
– Sappiamo alcune cose: che la moglie se ne fregava dei tradimenti del premier, anzi, ne proteggeva la carriera politica e probabilmente non era solo amore. Sappiamo che la scomparsa è di qualche giorno fa, ma che hanno aspettato un bel po’ prima di chiamarci, segno che qualche idea di dove fosse finita ce l’avevano, ma non sono venuti a capo di nulla. Hanno imbastito una storiella che doveva sostanzialmente essere certificata da noi per poter poi trovare il modo di annunciare la scomparsa al pubblico in maniera più morbida, ma noi abbiamo rovinato il giochino. E infine sappiamo che Ziliani, per quanto stupido, non avrebbe mai fatto un gesto del genere senza il suggerimento di qualcuno. –
Fece una pausa più per riordinare le idee che per tenere in sospeso il suo vice.
Si appoggiò di nuovo allo schienale, con le mani dietro la testa e gli occhi persi chissà dove.
– Io dico…- iniziò lentamente senza rivolgersi al suo interlocutore –  …io dico che noi non solo eravamo il piano B, ma eravamo un piano disperato che poteva funzionare solo se tutto fosse andato bene. Ora siamo diventati fastidiosi, per questo hanno cercato di toglierci di mezzo. Il Comandante non ne sapeva niente; De Dominicis ci ha tirato fuori dai guai. Direi che non sono molti quelli che potevano avere interesse a toglierci di mezzo, almeno temporaneamente. – 
Di Capua stava seguendo con passione il ragionamento del suo capo, che come sempre aveva preso un abbrivio incontenibile e lo stava portando nella direzione giusta.
– E come facciamo a sapere chi è stato? – 
– Ah beh, niente di più facile – disse Graziosi sorridendo mentre si alzava e girava intorno alla scrivania – Andiamo a Piazzale Clodio a prendere a calci in culo Ziliani – 

Parcheggiarono la macchina davanti a un McDonald’s desolatamente vuoto, e passarono davanti al bar che era diventato in passato la principale fonte di informazione per gli inquirenti che volevano sapere qualcosa delle marachelle commesse nel tribunale: non bisognava andare poi tanto lontano, si mettevano un paio di cimici al bar e si pescava bene.
Graziosi avrebbe potuto parcheggiare all’interno della struttura, praticamente vuota, ma avrebbe comunque dovuto farsi annunciare per far aprire la sbarra, e non aveva alcuna intenzione di avvisare Ziliani del suo arrivo.
Arrivò al gabbiotto, mostrò la tessera, lasciò il portafoglio nel metal detector mentre di Capua poggiò la sua pistola. Graziosi non ricordava neanche dove avesse messo la sua pistola d’ordinanza, ma meglio così, se avesse mai dovuto sparare un colpo avrebbe di sicuro rischiato di suicidarsi, tanta era la sua dimestichezza con le armi.
Passato il controllo si diressero speditamente verso l’ingresso della palazzina laterale, dove si trovava la sede del comando di Piazzale Clodio.
Non era una caserma grande, ma era prestigiosa perché serviva il Tribunale di Roma, e comunque molto ambita perché i Carabinieri che vi facevano servizio non erano operativi, non rischiavano molto, erano sempre a contatto con magistrati di alto livello, e al massimo accompagnavano qualche criminale dal furgone della Polizia Penitenziaria fino in aula e ritorno.
Il comandante di una struttura del genere non poteva che essere Ziliani, un incompetente naturale, un uomo che nell’arma aveva fatto carriera grazie a venti anni di governi insensibili e a politici più interessati al proprio tornaconto che al bene comune.
Una carriera che gli aveva fruttato il grado di Capitano e di comandante di una caserma di grande visibilità.
Graziosi si diresse spedito verso l’ufficio di Ziliani seguito a fatica da DI Capua: nella struttura non c’era anima viva, tranne il piantone di guardia che fece un mezzo saluto e poi tornò a occuparsi del suo cellulare.
La stanza di Ziliani era come la sua testa: grande e vuota.
Graziosi ricordava di esserci stato in un paio di occasioni, e di averla trovata terribilmente simile all’ufficio del megadirettore galattico di fantozziana memoria: una scrivania di mogano immensa, una sedia di pelle – probabilmente umana – due piante di ficus elastica alte fino al soffitto, una sequenza di penne stilografiche istoriate, e per gli ospiti due sedie scomodissime. Dalla parte opposta della stanza un divanetto per gli incontri informali, sovrastato da una collezione pressoché infinita di calendari dell’Arma.
Graziosi bussò leggermente alla porta chiusa e attese.
Da dentro, la voce di Ziliani risuonò altera e presuntuosa:
– Chi è? Non sto aspettando nessuno! Avanti! – Ziliani amava parlare con i punti esclamativi, lo faceva sentire più maschio.
Graziosi spalancò la porta con una violenza tale che questa andò a sbattere alla parete opposta rimbombando per tutta la stanza.
Quando fu entrato anche DI Capua la richiuse con la stessa violenza.
Ziliani era scattato in piedi, paonazzo in viso per la rabbia e la sorpresa.
Iniziò a dire:
– Graziosi, che… – 
ma non fece in tempo a mettere il punto esclamativo alla sua frase perché Graziosi con due passi veloci gli era arrivato a tiro e gli aveva mollato un ceffone violentissimo che aveva fatto andare a sbattere Ziliani contro la parete, dove un fiotto di sangue la imbrattò con il tipico pattern a goccioline.
Di Capua rimase impietrito, non si aspettava quel gesto, ma non ebbe neanche il tempo di protestare che Graziosi prese Ziliani per la collottola e gli mollò un’altra sberla terrificante, sempre con la mano destra, perché la sinistra non la usava neanche per mettersi le dita nel naso, per quanto gli era inutile.
Ancora una volta Ziliani andò a sbattere contro la parete, sporcandola di sangue, ma stavolta lasciò una striscia continua perché le gambe gli cedettero, probabilmente più per la paura che per il dolore, e si lasciò andare sul pavimento.
Graziosi lo afferrò di nuovo, e Di Capua fece un balzo in avanti, temendo che lo volesse ammazzare di botte.
Graziosi lo fermò con una mano mentre continuava a fissare Ziliani che era ormai al di là della semplice paura: aveva capito che se un Carabiniere come Graziosi valicava quel limite avrebbe potuto commettere qualsiasi pazzia.
Graziosi lo prese di peso e lo sbattè sulla sedia.
– Ora ti chiederò solo una cosa e tu ne dirai una a me. Non voglio sentire stronzate perché se devo andare in galera ci voglio andare per averti massacrato di botte, e non perché tu ti sei voluto divertire a fare John Wayne. Se provi a mettere la mano sulla pistola, o a toccare il cellulare, ti faccio sparare da Di Capua. E se provi a raccontare a qualcuno quello che sta succedendo, ti giuro che ti faccio pentire di essere nato. – 
Fece una pausa assicurandosi che Ziliani avesse compreso il senso delle sue parole.
– Voglio il nome di chi ti ha detto di venirci ad arrestare. – 
Ziliani lo guardò per qualche secondo, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
Poi fece un nome.

Trentasei ore dopo era il tardo pomeriggio di un giorno primaverile, a Roma, quasi estivo.
Tutti i tg e le trasmissioni di approfondimento davano al meteo, e alla disciplina italica, il merito della minore letalità del virus, tanto che si parlava di ricominciare a uscire senza paura.
Graziosi non aveva, per indole e per esperienza, molta fiducia nella capacità degli italiani di rispettare la legge: in fondo se lui aveva un lavoro ed era sempre impegnato il motivo era appunto quello, per cui ringraziò iddio o chi per lui per la calda giornata e per il tramonto rosso fuoco, mentre si godeva la sigaretta nel suo ufficio, piedi sulla scrivania e aria sognante.
Di Capua, seduto con atteggiamento da appuntato e divisa stiratissima su una sedia, lo guardava sorridendo.
– Aspettiamo ancora? – chiese.
Graziosi annuì.
– Vedrai che chiameranno. E’ passato troppo tempo. – 
– Non ci converrebbe… – 
– No – lo interruppe Graziosi. – devono pensare che stiamo vagando nel buio.
Di Capua rinunciò a sparare gli occhi verso il soffitto, perché in fondo era d’accordo con il suo capo, e si limitò ad un cenno di assenso.
Passarono ancora un paio di sigarette, e il sole era ormai al di sotto dell’orizzonte della Nomentana, quando il cellulare di Graziosi squillò.
– Graziosi – rispose con tono piatto e tranquillo.
– Graziosi, io sono nei guai. E anche lei. La pressione sta diventando insostenibile. Mi dica che ha qualcosa da darmi. – 
Il Comandante Generale era sull’orlo di un attacco di panico.
– Qualcosa, ma niente di definitivo. – mentì con nonchalance.
– Piuttosto che niente, meglio piuttosto. Il Premier mi ha chiesto di andare da lui subito per riferire. Viene di sua spontanea volontà o devo mandarla a prendere da Ziliani? – 
Graziosi non potè fare a meno di sorridere, ma si contenne.
– Veniamo subito, senza bisogno di mandarci a prendere, anche perché mi dicono che Ziliani sia in ferie. – 
Ferie che gli sarebbero servite per guarire dai lividi che gli aveva procurato il Maresciallo, ma si guardò bene dall’aggiungere questo particolare. – 
– Sì, va bene – borbottò il Comandante distratto – ci vediamo a Palazzo Chigi tra mezz’ora. – 
– Sarà fatto. –  chiuse la telefonata Graziosi.
Poi guardò il suo vice: i due uomini si fissarono a lungo negli occhi, finché Graziosi non si alzò, indossò la giacca e si avviò verso la porta seguito da Di Capua.
– Andiamo a infastidire la fossa dei serpenti. – chiosò.

Al tavolo riunioni c’erano le stesse persone dell’altra volta.
Il Premier era molto tranquillo, a Graziosi non sembrava proprio che stesse mettendo sotto pressione il Comandante, che invece aveva la fronte imperlata di sudore.
Anche l’assistente-fidanzata era tranquilla, le gambe lunghe e senza calze accavallate maliziosamente e lo sguardo che indicava chiaramente da che parte stava.
De Dominicis era il più imperturbabile: difficile dire cosa pensasse, ma di sicuro non perdeva mai il suo aplomb. In fondo è quello che insegnano alle spie, mai far capire agli altri cosa ti passa per la testa.
Il Premier prese la parola, sfogliando nel frattempo dei documenti, come se la sorte della moglie non fosse poi così importante.
– Mi dice il Comandante che avete qualche novità. – chiese con tono leggero. Graziosi annuì, guardò Di Capua che si metteva comodo, e poi lanciò la bomba.
– Direi di sì. Abbiamo trovato il cadavere della signora, al momento è all’Istituto di Medicina Legale, dove lo abbiamo portato io e Di Capua ma non abbiamo ancora avvisato Desiati, il patologo. –
Era in questi momenti che Graziosi giustificava a se stesso tutti gli anni di gavetta, le notti insonni, un divorzio e tante donne perdute per la sua incapacità di dedicare tempo ad altro che non fosse il lavoro.
Era in questi momenti che riscopriva il perché aveva scelto la carriera militare e perché faceva l’investigatore: perché scoprire le magagne e osservare i castelli dei malvagi che crollavano miseramente era la soddisfazione più grande che potesse provare.
Il suo sguardo si fissò sui tre che gli stavano davanti, non aveva bisogno di vedere il suo Comandante per sapere che probabilmente gli stava per prendere un infarto, ma a lui avrebbe pensato Di Capua; lui si concentrò sulla reazione degli altri.
Il Generale De Dominicis fece un piccolo sorriso e un lieve cenno della testa che voleva significare “complimenti”.
Il Premier sbiancò, aprì la bocca ma non riuscì ad emettere nessun suono.
La Miceli sembrò quasi impassibile, si limitò a cambiare l’accavallamento delle gambe e a posare il fascicolo che aveva in mano, ma cominciò a giocare con un anello che portava all’anulare, regalo probabilmente del suo fidanzato ufficiale.
Il Premier si riprese ma continuò a non parlare, fu De Dominicis a fare la domanda che tutti avevano sulla punta della lingua.
– Immagino, Maresciallo, che lei non si sia limitato a ritrovare un cadavere, ma che sia risalito alla moglie del premier seguendo delle tracce e magari anche scoprendo il colpevole. Le dispiacerebbe raccontarci a che punto sono le indagini? – 
Graziosi sorrise amabilmente. Sia perché era quello il suo momento, ma anche perché era chiaro che il Generale dei servizi non aveva ruolo in questa storia, ed era sinceramente ammirato del lavoro fatto dal Maresciallo, e la sua era una curiosità squisitamente professionale.
Il Premier intervenne, mandando giù un singhiozzo.
– Lei…sta dicendo…che mia moglie è morta? – 
Graziosi annuì, e non gli sfuggì l’occhiata che il premier diede alla Miceli.
– Ma come è possibile…voglio dire… – 
– Qualcuno le aveva assicurato che stava bene? purtroppo non era vero, signor Presidente. – 
Il Premier si mise la faccia tra le mani per un momento, poi si ricompose, si aggiustò la giacca e riprese un’espressione degna del ruolo, la stessa che gli italiani si erano abituati a vedere quando quasi quotidianamente annunciava le misure di restrizione imposte dall’epidemia, e dai successi che stava ottenendo il Paese grazie alle sue decisioni.
– Va bene, mi dica tutto, e non mi risparmi i particolari difficili. – disse infine drizzando la schiena sulla grande sedia di pelle.
– Beh, prima di tutto mi preme dire che se lei non ci avesse mentito, e ci avesse raccontato subito come stavano le cose, forse avremmo risolto il caso prima, e chissà, forse avremmo potuto anche salvare sua moglie, anche se francamente non ne sono così sicuro. – la stoccata arrivò a segno, il Premier diventò rosso e De Dominicis abbassò gli occhi, non per la vergogna, ma perché si rendeva conto dell’errore commesso e a cui era stato indirizzato.
– Ha ragione – disse il Premier mestamente – ha perfettamente ragione, ma noi…voglio dire io..pensavo di poter risolvere tutto senza clamore…sa la situazione… – 
– Nobile intenzione, signor Presidente, forse da parte sua, ma le assicuro che per altri le ragioni erano più sottili. – 
Prese una pausa, bevve un sorso d’acqua da un bicchiere che aveva di fronte, e poi proseguì.
– Abbiamo capito abbastanza presto che il quadro che ci avevate fatto era falso come un biglietto da 15 euro. La signora sapeva benissimo della sua storia con la Dott.ssa Miceli. – fece una brevissima pausa per osservare le reazioni dei due ma mentre il Premier arrossì di nuovo la Miceli non fece una piega e anzi, lo guardò con tono di sfida. 
– Non solo ne era al corrente, ma la protesse dalle dicerie della stampa. – continuò Graziosi – Per amore? Sì, forse anche, ma nessuna donna, anche se innamorata, può tollerare una situazione del genere. A meno che non ci fossero altri interessi in gioco. –
– Forse la moglie del Presidente aveva piacere che il marito facesse carriera. – sibilò la Miceli, attribuendo in maniera palese alla donna scomparsa la patente di arrivista.
Graziosi fece un cenno di approvazione con la testa.
– Possibile, sì. In fin dei conti la storia da Messalina e Cleopatra in poi ci racconta che qualche volta le donne accettano o addirittura spingono per i rapporti extramatrimoniali dei loro compagni pur di aiutarli nell’ascesa al potere. Possibile ma improbabile, anzi, direi non corrispondente alla verità. – 
– E allora perché? – chiese il Comandante Generale, che era passato da uno stato di ansia a uno di curiosità senza soluzione di continuità.
– Perché c’erano degli interessi economici in gioco. – disse improvvisamente De Dominicis, che da bravo militare aveva capito dove si andava a parare.
– Esatto! – esclamò Graziosi con un piglio che avrebbe reso orgoglioso anche Sherlock Holmes.
– La moglie del Presidente non voleva che la sua carriera andasse a gambe all’aria per una articolo di giornale, e il motivo, ora lo sappiamo, è che la posizione del marito la aiutava nei suoi affari. Affari non sempre e non tutti puliti. – 
Il Premier cercò di protestare ma Graziosi lo fermò con una mano.
Di Capua si schiarì la voce, e aprendo un faldone lesse con il suo accento napoletano cantilenante:
– Sponsorizzazione di un Festival sulla cultura Indoeuropea nel 2010, altri eventi finanziati da aziende di varie Regioni, una società di consulenza politica che ha ricevuto finanziamenti pubblici e che poi è fallita due anni dopo con un contenzioso che ancora si trascina con l’agenzia delle entrate, la partecipazione come azionista di un autosalone di lusso ai Parioli andato poi fallito, e due anni fa la costituzione di una joint venture in Lussemburgo con un’azienda cinese attiva sui sistemi di intelligenza artificiale, sicurezza e biotecnologia. – 
– Non capisco come tutto questo possa essere catalogato come “affari non puliti” e come possa avere a che fare con la morte di mia moglie. – intervenne irritato il Premier.
– Vede signor Presidente, nel portare avanti queste indagini mi sono convinto che lei sia una persona perbene. – affermò Graziosi.
– Grazie, eh! – disse sarcastico il Presidente del Consiglio.
Graziosi annuì.
– Non si ecciti, ho detto perbene, anche se su alcuni suoi comportamenti ci sarebbe da discutere. – disse guardando ostentatamente la Dottoressa Miceli che ricambiò il suo sguardo senza nessun segno di essere intimidita.
– Però non è particolarmente furbo. Forse come politico, non lo so e non posso giudicare, forse dicevo è abile e magari sta anche gestendo bene questa emergenza, ma è stato così preso dalla sua carriera che non è reso conto che tutti, tutti la stavano ingannando e sfruttando.  –
– Ma tutti chi!? – urlo il Premier alzandosi in piedi e battendo la mano sul tavolo – Tutti chi!? ma come si permette! lei sta non solo infangando il nome di mia moglie ma anche insultandomi senza ritegno, io credo che ci siano gli estremi per farla arrestare. – 
Graziosi lo guardò senza scomporsi, attese che la buriana passasse poi replicò, secco:
– Si calmi signor Presidente. Queste sceneggiate non l’aiuteranno. Lei non farà arrestare nessuno, perché sarò io a fare arrestare un po’ di gente, e lei scoprirà, se avrà la pazienza di ascoltare, che non solo non l’ho insultata, ma penso anche che lei sia forse l’unica persona che si salva in questa storiaccia. – 
Fece un’altra pausa, mentre tutti tacevano. La tensione era palpabile, e Graziosi bevve un altro sorso d’acqua per farla crescere ancora un po’.
– Sa, signor Presidente, quando c’è un periodo di crisi ci sono molti che perdono ma qualcuno vince, e vince anche tanto. Lei sa qual è in questo momento il bene più prezioso nel nostro paese, quello più introvabile, quello che è cresciuto di valore del 1000 per cento in due settimane? – 
– Le mascherine – disse il Premier senza esitazione.
– Esatto – annuì felice Graziosi, perché il Premier ora seguiva il suo ragionamento. – Le mascherine. E si dà il caso che il partner cinese di sua moglie avesse la possibilità di attingere ad un gran numero di mascherine di provenienza cinese, acquistate a pochi centesimi l’una. E con questo lotto di oltre cento milioni di mascherine potevano partecipare alle gare pubbliche, senza troppa burocrazia, senza tanti controlli, e piazzarle a un valore cento volte superiore a quello di costo. Un’operazione spregiudicata, soprattuto se fatta da una società in cui uno degli azionisti era la moglie del premier, spregiudicata ma lecita, se… – 
– Se? – chiese il Premier
– Se le mascherine esistessero realmente. La società ne ha certificato la disponibilità presentando un campione, si è aggiudicata la gara grazie a prezzi stracciati, e lei stava per firmare l’autorizzazione all’acquisto che comporta un lauto anticipo del 30%. Dopodiché la società sarebbe scomparsa. Ha idea delle conseguenze? –
Il Premier aveva gli occhi sbarrati.
– Sì…la truffa sarebbe venuta allo scoperto, mia moglie in galera e io rovinato. – 
– Eh sì, direi che è proprio quello che sarebbe successo, se…
– Basta con questi ‘se’ – protestò il Premier – vada avanti e basta! – 
Graziosi annuì. ‘peccato, questo premier non ama la teatralità’ pensò, mentre si girava a fare un cenno a Di Capua che da qualche minuto era con gli occhi verso il soffitto.
– Se sua moglie ancora una volta non fosse intervenuta. E non si faccia illusioni, non era certo per salvare la sua carriera, ma perché non aveva nessuna intenzione di andare in galera. Non sappiamo come sia andata, ma in qualche modo si è messa in mezzo, ha forse minacciato di dire tutto a lei, oppure alla stampa, insomma in un modo o nell’altro ha cercato di impedire l’affare, e i suoi partner l’hanno eliminata perché mancava solo un giorno alla sua firma, e poi sarebbero scomparsi nel nulla con l’anticipo, lasciando il Paese senza mascherine. – 
– C’è qualcosa che non mi quadra. Come facevano a sapere quanto mancava per la delega all’acquisto? la documentazione è riservata e io non parlavo mai a mia moglie di queste questioni, a dire il vero non ci parlavamo quasi per niente. –
– Ah beh, certo. A sua moglie no. –
Lentamente, con gli occhi che si illuminavano di consapevolezza, il Premier si girò verso la Miceli, che ora era impallidita, ma prima che potesse dire qualcosa Graziosi riprese.
– Sa, signor Presidente, non basta mettere in piedi un’azienda con un paio di soci per partecipare a queste gare. Lei dovrebbe sapere bene che ci vogliono certificazioni, bilanci a posto, documentazione societaria di primo livello. Lo Stato Italiano anche in una situazione di emergenza non chiude accordi per decine di milioni di euro con chiunque. Sua moglie era una persona che ha sfruttato il nome del marito per fare un po’ di soldi, e che pur non avendo particolare fiuto per gli affari si è gettata in iniziative discutibili e spesso senza costrutto. Ma forse si illudeva di essere una capitalista di successo, senza avvedersi che chi si avvicinava a lei lo faceva per lo stesso motivo per cui lei rimaneva al suo fianco: per sfruttare il suo potere. Ma neanche sua moglie poteva rendere i bilanci della società abbastanza puliti da poter partecipare ad una gara pubblica. Serviva qualcuno che avesse competenza nel mondo bancario e della finanza, qualcuno che sapesse come trasformare una joint venture improvvisata in una rispettabile società di biotecnica italo cinese. Ora, signor Presidente, non vorrei farlo ma le devo dare la delusione più grande. – 
Il Premier, il Comandante, Il Generale, erano tutti senza parole e senza fiato. Di Capua sogghignava, e si godeva lo spettacolo, se avesse potuto avrebbe portato dei popcorn.
La Miceli invece trasudava livore e odio nei confronti di Graziosi.
– Vede Signor Presidente, non crederà mica che la Dottoressa Miceli venisse a letto solo con lei –
Il Premier si girò di nuovo verso la Miceli con rabbia trattenuta, ma lei non diede segno di accorgersi della sua presenza, le sue attenzioni, non propriamente benevole, erano tutte per il Maresciallo.
– La Dottoressa Miceli ha un fidanzato ufficiale, se così si può dire. Un bravo ragazzo con un QI non abbastanza alto per capire cosa succede intorno a lui, ma belloccio e utile per i ricevimenti; ma il ragazzo è anche un bravo giornalista economista. Non è certo un caso che sia andato a lavorare nella banca il cui Presidente è il suo vecchio maestro, e di certo non è stato grazie a lei, anche se qualcuno glie l’ha fatto credere. – 
– Vede signor Presidente – continuò Graziosi – la Dott.ssa Miceli prima di lei, e forse anche DURANTE lei, ha avuto una relazione con il suo vecchio maestro, che in fondo non è tanto vecchio, ha solo dieci anni più di lei, ma che però pur essendo stato un politico di vecchia data, non è riuscito a raggiungere la poltrona che lei occupa. La Miceli però non lo ha sbolognato, anzi. Ha mantenuto, se così vogliamo dire, amichevoli rapporti. Rapporti che hanno permesso al suo fidanzato di essere assunto in banca, e che quando è servito di ripulire la società di sua moglie lei sapesse a chi rivolgersi. – 
Il Premier continuava a non capire.
– Ah già, mi scusi, non le ho detto un particolare importante: sua moglie e la Miceli erano socie. non lo sapeva? – concluse la frase con tono falsamente mellifluo Graziosi.
– Già. Ai tempi dell’articolo sul giornale, sua moglie e la Miceli ebbero quello che un film western si chiamerebbe “showdown”, ma invece di finire a duello decisero che lei era un ingenuo e che forse sarebbe stato più utile sfruttare insieme il suo potere piuttosto che venire alle mani, e così è stato. – 
Un altro sorso d’acqua aiutò Graziosi a stemperare l’emozione, mentre nessuno osava più fiatare, anche la Miceli si era raggomitolata su se stessa, aspettando l’inevitabile.
– Solo che mentre sua moglie era per così dire una truffatrice gentile, la Miceli, i suoi soci cinesi, e il suo ex mentore sono dei veri e propri banditi, e non hanno avuto nessuno scrupolo a mettere in piedi un meccanismo per truffare soldi allo stato e allo stesso tempo mettere nei guai i malati italiani. Sua moglie ha minacciato di spifferare tutto, e loro l’hanno fatta fuori. Fine della storia. – 
– Io una curiosità ce l’avrei. – disse con tono pacato il Generale De Dominicis. – Lei come ha fatto a sapere tutte queste cose in così poco tempo? – 
Graziosi fece una risata.
In ogni piano c’è una falla, e di solito la falla, o meglio l’anello più debole, è la persona più stupida. In questo caso Ziliani.
– Ziliani!?- urlò il Comandante Generale – non mi dica che Ziliani, un Carabiniere, un ufficiale, è coinvolto in questa storia oscena! Io lo faccio fucilare davanti alla caserma Salvo d’Acquisto, quanto è vero iddio! – 
– Si calmi, Comandante, Ziliani non c’entra niente. – Graziosi mise una mano sul braccio del suo capo – o meglio non c’entra quanto non c’entra lei e tutti coloro che in questi anni hanno tollerato che un Carabiniere senza cervello e senza carattere facesse una carriera che non meritava.  – 
Il Comandante abbassò gli occhi, senza replicare.
 – Ma Ziliani è solo un cretino che ha eseguito degli ordini con uno zelo eccessivo. Quando era chiaro che io non avrei accettato la versione ufficiale, e che rischiavo di scoprire come stavano le cose, gli è stato dato l’ordine di fermami con una motivazione risibile, e lui ha eseguito. – 
– Graziosi!- urlò il comandante generale – le ho già detto che io non diedi l’ordine di arrestarla! – 
– No, certo, non è stato lei, Comandante. E’ stato il Presidente della Banca. E’ lui il referente politico che ha aiutato Ziliani in tutti questi anni a macinare promozioni su promozioni, il secondo, o forse vorrei dire il primo, amante della Dottoressa Miceli, l’uomo che ha ripulito la joint venture, dato un lavoro al fidanzato della qui presente Dottoressa, e poi chiesto a Ziliani una piccola cortesia. – 
Il Generale De Dominicis sorrideva mentre chiese a Graziosi:
– E lei come ha fatto a saperlo da Ziliani? Sono curioso. – 
Graziosi gli sorrise a sua volta, i due uomini in fondo si piacevano:
– Quando voglio so essere molto convincente signor Generale. – 
– Per cui vede signor Presidente  – tornò a rivolgersi al Premier – una volta capito chi era il mandante politico e criminale di Ziliani il resto è stato abbastanza semplice. – 
Il premier sembrava disorientato, si era appoggiato con le mani alla scrivania, gli occhi nel vuoto, mentre la Miceli era appoggiata sulla sedia con il viso nascosto in una mano.
– E ora cosa succede? – chiese il Presidente del Consiglio con un tono quasi infantile tanto era spaventato.
– Beh, in questo momento il suo ex amico Presidente di Banca e il fidanzato della Dottoressa sono in una camionetta dei Carabinieri, destinazione Regina Coeli. Qua fuori ci sono un paio di miei colleghi che saranno lieti di prendere in custodia la Dottoressa Miceli e portarla al carcere femminile di Rebibbia. Gli assassini di sua moglie, i cinesi suoi partner, sono scomparsi nel nulla, probabilmente non li troveremo mai. – 
– E io? – 
Graziosi fece spallucce.
– Lei in questo momento è intoccabile. Il Paese ha bisogno di un leader, e finora lei mi pare sia andato abbastanza bene. In fondo la sua colpa è stata solo di fidarsi di una donna facendosi abbindolare dalle sue gambe. Ah a proposito, belle davvero, complimenti – disse Graziosi sarcastico rivolto alla Miceli, mentre Di Capua, incredulo, alzava gli occhi agli affreschi della Presidenza del Consiglio – 
– Se vuole un consiglio, dica la verità. Che era innamorato di una donna che ha tradito lei e il Paese, che sua moglie aveva ingenuamente pensato di poter sfruttare la sua posizione per fare soldi ma che si era riscattata mandando a monte l’affare e pagando con la vita. Sia sincero e vedrà che alla fine il popolo la perdonerà. O forse no, ma questo non è un mio problema. – 
In quel momento Di Capua si alzò, e due carabinieri in divisa, guanti e mascherina, si avvicinarono alla Dottoressa Miceli e la ammanettarono, trascinandola via.
Graziosi e Di Capua salutarono tutti e uscirono dalla stanza avviandosi verso la macchina.
– Graziosi, aspetti! – era De Dominicis.
Graziosi si girò e si fermò.
– Che ne dice se ci stringiamo la mano, in barba ai divieti? – propose il Generale.
Graziosi lo guardò sornione, poi tese la mano che l’altro gli strinse con forza.
– Lei è un po’ troppo teatrale, Graziosi, ma mi è piaciuto. – 
– Sa, Generale, senza un po’ di verve il nostro lavoro può diventare noioso, sempre alle prese con dei cretini che si credono dei geni. – 
De Dominicis annuì in segno di comprensione.
Mentra andavano via Graziosi chiese:
– Dammi l’amuchina, Di Capua, che chissà quello quali nidi di vespe ha toccato nella sua vita, altro che virus! – 
Occhi al cielo di Roma, stellato e fresco, Di Capua porse al suo capo un bottiglietta e poi scoppiò a ridere senza riuscire più a fermarsi.

La danza dei numeri

Oggi ho pensato di fare un po’ di chiarezza sui numeri, sperando di fare cosa gradita a chi magari di numeri non se n’è mai occupato in vita sua e oggi è circondato da bollettini, grafici, modelli matematici e non sa davvero a chi credere.
Cercherò di dare elementi il più possibile oggettivi e qualche fonte, in modo che chiunque ne avesse voglio potrà verificare da solo se quello che dico ha senso o meno: per farsi un’opinione niente può sostituire l’analisi personale.
Certo, quando si parla di numeri, in teoria non dovrebbero esserci discussioni.
Ma un vecchio adagio sostiene che se vengono torturati abbastanza a lungo i numeri possono raccontarci qualsiasi verità si voglia vedere.
Ma quindi a che servono i numeri, quelli che raccoglie la protezione civile ogni giorno e che le Regioni snocciolano con dovizia di dettagli quotidianamente? Solo a farci angosciare?
Ovviamente no: scopo dei numeri è di CAPIRE cosa sta succedendo e fare PREVISIONI su quello che succederà, adeguando la risposta del sistema (per sistema intendo noi, il governo, la protezione civile, gli ospedali insomma la società nel suo insieme) per combattere l’epidemia.
E allora veniamo alla domanda fondamentale: i numeri ci stanno aiutando in questo? sono buoni o cattivi? abbiamo idea di quello che sta succedendo e cosa succederà?
Perché in fondo questo è ciò che tutti si chiedono e chiedono, ancora ieri in una trasmissione televisiva il conduttore chiedeva ai vari ospiti della comunità scientifica: quando finirà? quando inizierà la Fase 2, perché la Lombardia è così colpita?
Insomma tutti vogliono capire cosa ci stanno dicendo questi numeri.
Le risposte (in teoria derivate appunto dall’analisi dei dati) sono molto vaghe, e si possono sintetizzare in “lo faremo quando ce lo diranno i numeri”.
Questa è una risposta che danno tutti, da Anthony Fauci negli USA fino a Brusaferro in Italia.
Questa fiducia nelle risposte dei numeri però pare eccessiva, e vediamo perché.
Prima di tutto i numeri non sono di per sé buoni o cattivi, dipende cosa stiamo cercando.
Partiamo da un dato inconfutabile: c’è un’epidemia in corso, molto contagiosa, che ha fatto finora in Italia oltre 20.000 morti accertati.
Questo non è un gioco, e nessuno può scherzarci sopra.
I morti sono tanti e probabilmente sottostimati (poi vedremo).
Ma i decessi sono ovviamente conseguenza delle infezioni, se una persona si infetta non muore necessariamente (almeno nel 99% dei casi pare) ma di sicuro se NON si infetta NON muore (non di COVID-19 almeno).
Allora probabilmente il primo dato da guardare è quello relativo agli infetti, perché se è vero che l’1% degli infetti muore, anche se il numero è basso significa che in Italia in teoria potrebbero morire fino a 600.000 persone, un numero pari ai morti della prima guerra mondiale, per capirci.
Se gli infetti continuano a crescere, le persone dopo un po’ moriranno (ricordo che tra l’infezione e l’eventuale decesso c’è un ritardo di 3/4 settimane mediamente), e quindi se cala il numero di infetti prima o poi caleranno anche i morti.
Se guardiamo le curve che tutti i siti e tutti gli organi di informazione presentano (in mancanza di altri numeri, c’è da dire) il numero di infetti continua a crescere, e quindi inevitabilmente anche il numero di morti crescerà poi, ma sta crescendo più lentamente, e sta con grande fatica dirigendosi verso una fase cosiddetta “asintotica” ossia in cui prima o poi il numero totale di infetti non crescerà più o comunque crescerà molto lentamente (e quindi anche i decessi).
Questa fase asintotica non è una proprietà del lockdown, anche se avessimo lasciato il virus libero di agire indisturbato avrebbe raggiunto una fase asintotica, ma l’avrebbe raggiunta molto più rapidamente distruggendo il SSN, e soprattutto con valori enormi: si stima infatti che l’immunità di gregge del COVID-19 sia tra il 60 el’80% della popolazione, quindi si sarebbe fermato dopo aver infettato tra i 36 e i 48ML di italiani, uccidendone un numero tra 400.000 e 500.000.
Con le misure di lockdown allora dove si fermerà l’asintoto?
Ecco, non lo sa nessuno.
Il motivo è che i nuovi infetti misurati ogni giorno non sono le persone che realmente vengono colpite dall’infezione, ma solo coloro che per un motivo o per l’altro arrivano all’attenzione delle strutture sanitarie e vengono “tamponati”: ci sono vari studi che stimano questo numero, ma è ormai convinzione abbastanza diffusa tra gli scienziati che gli infetti reali siano tra 5 e 10 volte quelli misurati.
Questo vuol dire che in Italia potremmo avere già ora oltre un milione di persone infette (e qualcuno arriva a pensare che siano anche 5 o 6 milioni).
Quindi il numero reale di infetti ogni giorno comunicato dalla protezione civile non è il valore misurato, che chiameremo N(t) ossia la misurazione dei nuovi infetti al tempo t (misurato in giorni), ma N(t)+x(t) dove x(t) è un valore sconosciuto, e che vale da 5 a 10 volte N(t) e forse anche 30 volte (come sostiene l’Imperial College in uno studio che ha fatto scalpore).
E’ evidente che tracciare una curva posizionando dati il cui valore N(t) è noto ma l’errore x(t) è enorme e sconosciuto è un esercizio sostanzialmente inutile.
A qualcuno potrebbe perciò venire in mente un’idea brillante: ma a noi alla fine che ci frega di quanto vale x(t), quello che conta è l’ANDAMENTO, quindi io seguo come varia nel tempo N(t) e penso che x(t) seguirà lo stesso andamento, che è quello dell’epidemia.
Insomma sia che siano noti sia che non siano noti, gli infetti si prenderanno la malattia nello stesso modo, o no!?
Ovviamente la risposta è no.
Ma qua esce forse la prima buona notizia dopo tante righe.
E’ vero che non sappiamo gran che di x(t) ma l’analisi dell’andamento a Wuhan e altre considerazioni sui meccanismi dell’epidemia ci fanno pensare che x(t) segua lo stesso andamento di N(t) ma ANTICIPANDOLO.
In sintesi, all’inizio tutti gli infetti sono sconosciuti e per lo più asintomatici. Poi aumentano perché la gente si passa il virus. Al passare del tempo alcuni diventano sintomatici ma dato che nessuno ha capito cosa succede ancora non si va a vedere perché queste persone hanno la febbre e la polmonite.
Solo quando un numero di persone significativo comincia a morire qualcuno si preoccupa di verificare che succede, e solo allora si iniziano a misurare gli infetti e inizia la curva N(t), ma a quel punto curva del compagno x(t) – ossia degli infetti non noti – è già andata avanti.
Quindi si può dire che la curva x(t) degli infetti non noti raggiunge il suo massimo (picco) PRIMA della curva degli infetti noti N(t) che la protezione civile ci mostra giorno dopo giorno.
Purtroppo per vari motivi, non ultime le modalità di raccolta dei dati, fare modelli previsionali su queste considerazioni non è banale, finora ho visto molti tentativi miseramente falliti, perché sì, ci interessa sapere se effettivamente la curva sta migliorando (e la risposta è SI, sta migliorando), ma ci piacerebbe anche capire quando l’epidemia si spegnerà, ma questo al momento è difficile dirlo, e forse, ahimé anche inutile.
Parentesi drammatica: il lockdown funziona? stando a casa chiusi per due mesi eviteremo di ammalarci?
La risposta è NO.
A meno che per motivi imprevedibili il COVID-19 scompaia improvvisamente nel nulla come fece la SARS qualche anno fa, in assenza di vaccino prima o poi TUTTI prenderemo il virus (almeno il 60% di noi, cioè), è solo questione di tempo.
L’unico vero obiettivo del lockdown è di rallentare così tanto l’epidemia da consentire alle strutture sanitarie di farvi fronte senza collassare.
Aggiungerei anche, per non essere catastrofico quale io non sono, che allungare i tempi di diffusione diminuisce anche la mortalità in maniera significativa perché non solo le strutture sono preparate, ma ogni giorno che passa capiamo qualcosa di più di questa infezione, troviamo nuovi farmaci, e possiamo ridurre il numero di decessi, senza tenere conto di altre misure di protezione dei più fragili di cui oggi non parleremo.
Torniamo ai numeri.
Abbiamo visto che il numero di infetti quotidiani è un numero che non ci dice gran che, qualitativamente forse possiamo farci un’idea dell’andamento ma insomma fare previsioni basate sul nostro amico N(t) è come giocare al superenalotto.
Allora forse i guariti ci dicono qualcosa?
In fondo il numero di guariti sta aumentando giorno dopo giorno.
Ecco, il numero di guariti è davvero inutile.
Intanto perché soffre degli stessi problemi del numero di infetti, ossia si misurano solo quelli che escono dall’ospedale, ma la stragrande maggioranza degli infetti guarisce in maniera asintomatica, oppure prendendo la tachipirina, e questi sfuggono completamente alla misura, ma soprattutto perché i “guariti” sono quelli che non hanno più sintomi clinici importanti e che vengono rimandati a casa fare la convalescenza. Molti di loro hanno l’infezione ancora in corso e se non opportunamente isolati possono ancora infettare, quindi sono guariti per modo di dire.
Certo, dato che il metodo con cui vengono rilevati è lo stesso da sempre, è chiaro il l’aumento di questo numero è una buona notizia, ma è anche scontato: dopo un po’ che un’epidemia è in corso aumenteranno quelli che ne escono, in un modo o nell’altro, quindi aumentano i guariti ma ahimé anche i morti.
Ecco, a questo punto forse l’unico parametro che potremmo considerare valido per una stima dell’andamento dell’epidemia è il numero di decessi.
Perché è facile contarli, e perché purtroppo non c’è tanto da dubitare sull’evento.
Mentre i guariti possono non essere guariti del tutto, purtroppo i morti sono morti. Poi si può discutere se siano morti al 100% per colpa del COVID-19, o al 50% o se siano morti di altro con il virus però presente nel sangue, insomma un dibattito reale ma direi inutile in questa fase.
Il fatto che il numero di decessi stia lentamente calando è non solo una cosa positiva, ma anche un fattore che segue un andamento atteso dell’epidemia: all’inizio ci sono gli asintomatici e gli infetti sconosciuti, poi aumentano gli infetti conclamati, e successivamente i decessi.
Alla diminuzione degli infetti dopo qualche settimana deve diminuire il numero dei decessi.
Quindi, per quanto sia doloroso vedere che ogni giorno ancora muoiono oltre 500 persone in Italia, è normale che la curva dei decessi in questa fase scenda lentamente.
C’è un problema, però.
In alcune zone del Paese è ormai chiaro che il numero di decessi per COVID-19 sono molto superiori a quelli misurati ufficialmente.
Di quanto? Difficile dirlo, le stime vengono fatte in base a dati ISTAT, che sono sì numeri precisi ma difficilmente modellabili. Possiamo però dire ragionevolmente che il numero di decessi è sottostimato di un valore che va dal 50 al 100%.
Questa è una notizia terribile da un lato, perché vuol dire che nonostante il lockdown (e forse anche a causa, per alcune situazioni) il numero di decessi reali potrebbe essere intorno a 40.000.
D’altronde molti segnali ci fanno pensare che il picco dei decessi, considerando anche quelli nascosti, si sia superato e quindi che la discesa sia leggermente migliore di quella rilevata dai dati ufficiali.
Ma anche qui, con questi numeri fare previsioni è complicato.
Vedete, siamo arrivati fino a qui, ed è chiaro che nessuno ci sta capendo niente, perché non si è messo in piedi un sistema di rilevamento dei dati efficace.
Gli informatici hanno coniato un detto: garbage in, garbage out. Ossia se a un programma dai della mondezza da analizzare, il risultato non potrà che essere mondezza.
Ed è esattamente ciò che sta accadendo in questo caso: i dati sono così sporchi da essere per lo più inutili, e metterli dentro un programma per fare stime, previsioni, modelli, non potrà che tirare fuori risultati sporchi.
Ma quindi nessuno sa cosa sta succedendo e cosa succederà?
Non proprio: andiamo a vedere l’ultimo dato grezzo misurato: ricoveri e terapie intensive.
In fondo, se stiamo facendo tutto questo, come detto, non è per “uccidere” il virus (impossibile) ma per mitigarne gli effetti nel tempo, per dare modo alle strutture ospedaliere di essere pronte a ricevere i malati.
Per capirci: l’Italia ha al momento circa 10.000 posti in terapia intensiva, se arrivano 20.000 pazienti tutti insieme 10.000 di questi moriranno semplicemente perché non c’è posto, e quindi il virus sarà molto più letale solo per questo semplice fattore (senza considerare tutti gli altri che avranno bisogno della terapia intensiva come infartuati, diabetici, etc che morirebbero perché tutti i letti sono occupati da pazienti COVID-19).
Scopo del gioco è RALLENTARE la diffusione del virus in modo che alle terapie intensive afferisca quotidianamente un numero di pazienti inferiore o uguale alla capacità delle strutture.
Ed ecco il vero (e forse unico) numero significativo: nell’ultima settimana i posti in terapia intensiva COVID-19 sono scesi da oltre 4.000 a circa 3.000. Un calo del 25%.
Un calo netto e molto veloce.
Cosa significa e cosa ci può dire per il futuro questo numero.
Prima di tutto significa che il lockdown sta parzialmente funzionando o che il virus è diventato meno aggressivo, o tutte e due le cose.
Sta anche dicendo che superata la prima fase di tsunami, soprattutto in Lombardia, si riesce ad arginare gli effetti nefasti del virus molto più tempestivamente, e quindi persone che magari erano sostanzialmente non curate fino a quando non erano praticamente in fin di vita, ora vengono trattate a casa o anche in ospedale ma tempestivamente, e quindi sono di meno quelle che hanno bisogno di entrare in terapia intensiva
A questo punto è il momento delle previsioni.
Quando potremo ricominciare a fare una vita ragionevolmente normale? (dove “ragionevolmente” vuol dire tante cose che non affronterò qua io).
Il mio parere è che dipende dalla capienza delle terapie intensive.
Non sarà il numero di infetti a darci indicazioni perché a) è inutile e b) ci dovremo infettare tutti a meno che non arrivi un vaccino DOMANI (impossibile).
Neanche ahimé il numero di decessi, perché i decessi continueranno, magari in numero minore perché saremo più bravi a trattare il virus, ma se non riusciremo a impedire che il virus ci infetti di conseguenza non riusciremo neanche a impedire che qualcuno muoia. Saranno sempre meno perché capiremo come trattare le malattie associate, ma non scenderanno mai a zero. Se dovessi dare un parametro direi che i decessi ci potrebbero dare indicazioni quando saranno dello stesso ordine di grandezza dei decessi medi misurati gli anni precedenti nello stesso periodo, ma questo, per come detto, avverrà spostato nel tempo quindi si rischia di rimanere nel lockdown per molto tempo se si vuole aspettare che il numero di decessi raggiunga questa soglia.
Io penso che si potrà riaprire, con tutte le cautele del caso, quando i posti LIBERI in terapia intensive saranno più o meno la metà di quelli dedicati al COVID-19, che non potranno né essere il 100% dei posti disponibili (altrimenti morirebbero altri malati di altre patologie) e in prospettiva neanche tutti i posti creati ad hoc per questa epidemia.
Diciamo che se consideriamo un numero di 6.000 posti standard in TI (escludendo quelli temporanei creati per l’emergenza) e di questi in prospettiva ne assegnamo 4.000 ai pazienti COVID lasciandone 2.000 per altre malattie, possiamo pensare di riaprire qualcosa quando i pazienti in TI scenderanno a 2.000.
Questo numero ci permetterebbe non solo di avere abbastanza posti per un’eventuale recrudescenza della malattia, ma anche di poter ragionevolmente gestire sia un picco improvviso ritornando ad un sistema tutto COVID, garantendo allo stesso posti sufficienti per altri tipi di pazienti, per necessità post operatorie e quant’altro.

Alla fine di questa dissertazione, fatta solo in maniera qualitativa, senza tediarvi con formule complicate, abbiamo potuto concludere che:
– i dati presentati sono reali ma molto “sporchi”, in alcuni casi così tanto che è impossibile trarne conclusioni sensate
– i modelli epidemiologici e statistici che vedete in giro sono intrinsecamente fallati e le previsioni di conseguenza. Ci sono modelli basati su dati derivati che qui non ho toccato che permettono di valutare l’andamento ma NON di fare previsioni significative
– i posti disponibili in terapia intensiva sono di fatto l’unico dato che dobbiamo guardare per capire se e quando sarà possibile rimettere la testa fuori dalla trincea, e l’unico motivo per cui siamo in casa da un mese. Potenzialre la terapia intensiva e cercare di liberarla curando i malati tempestivamente, a casa o in ospedale, è la chiave per poter riprendere le attività “normali”

Le Grandi Recensioni di Rolandfan

Gli anni più belli – di Gabriele Muccino, con Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria, Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti

Trama del film
Un gruppo di amici di infanzia si perde e si ritrova nel corso di quaranta anni, sullo sfondo dei principali avvenimenti del Paese e con drammi personali ed esistenziali.
Detta così sembra un film serio, vero?

Giudizio della critica
Prendete la trama del film di cui sopra e incollatela su Google.
Scoprirete che di questi film ne sono stati girati circa un miliardo, di cui almeno tre o quattro da Muccino stesso.
In fondo fare un film così è facile.
Prendi tre o quattro attori simpatici e bravi, amati dal pubblico, e poi distribuisci le maschere, come a carnevale, no?!’, quando si decide “te fai Arlecchino” “te Pulcinella” te Colombina” e così via.
Qua uguale.
Tu fai il bello e sofferente, tu la mezza mignotta con una vita dolorosa che la giustifica, tu l’avvocato pieno di ideali stracciati per via dei soldi, e te il simpatico a tutti i costi con una vita di merda.
Sono pezzi di un puzzle che si incastra bene, e che non si sovrappongono, e quindi funziona tutto a meraviglia.
Poi il regista a piacimento muove le leve del sentimento, del dramma, della felicità, e pure questo funziona.
Se non bastasse, metteteci Roma: la Ramazzotti nella Fontana di Trevi come Anitona, la Fontana delle Tartarughe, la Garbatella insomma il meglio del meglio e per finire una struggente canzone di Baglioni con lo stesso titolo del film, come da tradizione.
Insomma tutto bene? Non manca niente.
Embè, sì, qualcosa se la sono dimenticata.
La sceneggiatura per esempio.
La storia.
Lo spessore, la tridimensionalità.
Una versione annacquata de “La meglio gioventù”, che fa male al cuore peggio di un bicchiere di Brunello di Montalcino diluito con la gazzosa.
Un film non brutto, girato bene, recitato decentemente anche da attori costretti a fare la parte delle maschere, ma un film inutile.
Uno di quei film che ti fa dire: pensa se c’era Ettore Scola, che capolavoro che poteva tirare fuori.

L’appuntamento

Alle 19 il sole è già tramontato, in questo 7 marzo di quasi primavera, e anche l’ora blu ha pensato bene di andarsi a nascondere dietro delle insolite nuvole che riempiono il cielo di Roma.
La stanza è quasi buia: Graziosi ha lasciato accesa solo una piccola lampada che tiene sulla scrivania, talmente fioca che lo schermo del computer fa una luce molto più brillante, e le due insieme rendono l’espressione del Maresciallo intrisa di un noir che mal si sposa con il suo carattere posato e riflessivo.
Ad un certo punto, uno scatto: allunga una mano, spegne il computer nel modo che gli è stato detto un milione di volte di non fare, accende la luce della stanza e spegne la piccola lampada, poi raccoglie dei fogli e delle cartelline, li sbatte fragorosamente sulla scrivania per pareggiarli, si infila il giaccone dello scooter ed esce.
Sulla soglia della caserma si ferma un attimo.
Guarda le macchine che passano incessantemente su Via Nomentana, le guarda ma non le vede, poi ha un brivido, accende una sigaretta, cerca le chiavi dello scooter e fa per scendere un gradino, quando una voce alle sue spalle lo chiama.
Si gira e vede il suo collega amico Di Capua con dei faldoni in mano, fermo nel corridoio, che lo guarda stupito.
– Marescià, ma non vuole vedere più l’archivio del tabaccaio ucciso l’anno scorso? –
Un leggero imbarazzo corre sul viso di Graziosi. Si sente in colpa, non vorrebbe lasciare solo il suo vice, ma poi si stringe nelle spalle:
– Mi sono stancato, Di Capua. Sono state giornate lunghe, lunghissime. Riaprire i casi irrisolti è una cosa che odio, e comunque sono sfinito, non ti sarei di nessun aiuto. – si ferma un attimo – Facciamo così: tu finisci di guardare tutto e poi domani mi fai un bel resoconto e decidiamo chi è l’assassino, va bene? tanto tu sei bravo e di sicuro domani avremo le idee chiare. – sorride poco convinto.
L’appuntato Di Capua spara gli occhi al soffitto nel suo tipico gesto di insofferenza, ma stavolta Graziosi non lo riprende; sa che ha ragione e quindi lo lascia fare.
– Eh marescià, non è che gli assassini si trovano sfogliando i pezzi di carta, lei la fa facile. Comunque va bene, domattina allora ci vediamo qua alle nove? –
Il Maresciallo Graziosi si guarda per qualche secondo le punte dei piedi, senza rispondere. Poi alza la testa e fissa Di Capua con due occhi intensi.
– No. Domani non vengo così presto. E’ l’otto marzo, e ho un impegno. Ci vediamo dopo pranzo. –
Di Capua dapprima spalanca gli occhi sorpreso, poi fa un gesto inequivocabile inclinando il viso e alzando le sopracciglia, ma non fa in tempo a replicare perché Graziosi ha già spento la sigaretta e si è infilato il casco, e con una leggera sgommata scompare alla vista del suo Vice.
Di Capua fa un sorrisetto. Il suo capo finalmente ha una donna e la smetterà di passare la sua vita in caserma. Tutto sommato una notizia buona, pensa mentre torna nel suo ufficio con i faldoni stretti tra le braccia.

Graziosi la mattina dell’otto marzo si alza di buon’ora.
Fa una colazione veloce poi si fa la doccia e si veste.
I fiori, non devo dimenticare i fiori, pensa.
Sa già dove andarli a comprare: non dal solito fioraio bengalese che ti vuole propinare le rose rosse a sette euro l’una o un mazzetto stantio di mimose a dieci, no.
C’è un negozio vicino alla caserma che fa delle bellissime composizioni floreali, arricchite da terracotta, frutta, piante grasse e altri ornamenti che conferiscono al prodotto finale un aspetto più da oggetto d’arte che da omaggio floreale.
Costa un bel po’, ma non importa. Vuole fare bella figura, e la farà.
Risale in macchina con la composizione incellofanata e con un bel fiocco rosso a chiudere, e fa poche centinaia di metri prima di fermarsi di nuovo: entra in un’enoteca, il cui proprietario è probabilmente lì dai tempi dei romani, ma seppur vecchio è un intenditore, mentre lui di vino, così come di cibo, non ne capisce niente.
Prende alla fine una bottiglia di prosecco: non potrà sbagliarsi, il prosecco è sempre la scelta più sicura. Compra anche due flute, ovviamente ha dimenticato di portare i bicchieri da casa e non ha voglia di tornare indietro.
Rientra in macchina e finalmente riparte.

Mezz’ora dopo è seduto per terra.
I fiori davanti a sé. La bottiglia di prosecco stappata e i flute riempiti.
La donna che lo guarda sorride.
E’ bella, e giovane.
Anche lui le sorride, senza parlare.
Alza il suo bicchiere, poi anche l’altro, e beve prima da uno, poi dall’altro e infine li posa di nuovo a terra.
Prende la composizione, la apre con cura e la sistema sul marmo, proprio sotto la foto della donna che sorride, e che sorriderà per sempre.
Poi si alza, guarda la foto ancora una volta.
– Non sono riuscito a proteggerti. Non me lo perdonerò mai. Ma sono qua perché te l’ho promesso, e ho promesso a me stesso che sarei venuto qua tutti gli anni in questo giorno, per ricordarmi perché sei qui e per giurare al tuo dio, quello in cui credevi tanto, che non permetterò più che muoia nessuna donna per colpa di un uomo. –
La donna continua a sorridergli, sotto la scritta “Eleonora Rosati in Graziosi 7 Maggio 1935 – 8 Marzo 1981”.


L’indirizzo – un racconto di Natale

La strada che va da Rovaniemi su, su al nord, passando per Sodankyla, costeggiando il fiume fino ai fiordi, si inoltra nel bosco fitto della Lapponia finlandese in mezzo alla neve e al ghiaccio invernale, che solo d’estate lasciano il posto alla steppa e alle zanzare.
Se all’altezza di Peurasuvanto lasciaste la strada e vi inoltraste un po’ a ovest, in mezzo alla foresta, scoprireste che gli alberi diventano così fitti che il sole non filtra mai, neanche d’estate.
E più andate avanti e più gli alberi sembrano stringersi intorno a voi, quasi impedendo il passaggio, che diventa sempre più difficile, sempre più impervio, finché non diventa evidente che proseguire è impossibile.
Ma proprio lì, nel punto in cui andare avanti sembra un’impresa disperata, se voi riusciste a farvi largo tra i rami nodosi e il ghiaccio d’acciaio, e ad avanzare anche solo di poche decine di metri, improvvisamente davanti a voi si aprirebbe una radura enorme, circondata dagli alberi che intrecciano le chiome sopra di essa per proteggerla dagli sguardi indiscreti di aerei e satelliti, ma libera per centinaia e centinaia di metri.
In mezzo a questa radura vi è un edificio immenso, apparentemente di un solo piano, decorato con luci e ghirlande natalizie, che per quanto grande possa sembrare è solo una piccola parte della costruzione che scende giù sottoterra, per decine e decine di metri, quasi un grattacielo rovesciato.
Costeggiando l’edificio, camminando per un bel po’ perché è veramente grande, si arriva sul retro ad un recinto che si perde a vista d’occhio nella radura immensa, dove pascolano tranquille migliaia e migliaia di renne addobbate con un piccolo tappetino rosso e un campanello al collo.
Dentro l’edificio invece l’attività ferve.
E’ il 24 dicembre, e non c’è più tempo da perdere.

I due uomini che passeggiano vicini non potrebbero essere più differenti.
Uno è un uomo imponente, vecchio, di età indefinibile, robusto ma non grasso, con una barba bianca che si appoggia su un maglione di lana bianco e rossa, su dei bei pantaloni di flanella grigi.
L’altro è piccolino, con gli occhiali, e ha lo sguardo fisso su un tablet dove scorrono numeri in successione rapidissima.
Passeggiano lentamente lungo corridoi lunghissimi che si snodano all’interno dell’edificio, mentre intorno a loro c’è un andirivieni di persone con scatole, pacchi, telefoni cellulari incollati all’orecchio per dettare ordini, persone che salutano, persone che corrono, persone che rotolano inciampando ai tavoli e le sedie che coprono quasi interamente una sala immensa.
Tutto è improntato ad una organizzatissima frenesia.
– Come stiamo andando? – domanda l’uomo con la barba bianca.
Il piccoletto si aggiusta gli occhiali, dà un’occhiata ai numeri, e senza alzare lo sguardo dice:
– Tutto come previsto. Abbiamo dovuto incrementare la produzione perché indiani e cinesi negli ultimi anni si sono dati da fare e ci troviamo venti milioni di bambini in più da servire. –
– Ahem… – si schiarisce la voce l’omone.
Il piccoletto alza la testa e arrossisce di fronte allo sguardo di rimprovero di Babbo Natale.
– Ah eh, sì, beh, intendevo dire che l’incremento delle nascite ha richiesto un aumento della produzione, ma comunque il dipartimento di statistica tiene la situazione sotto controllo, quindi la produzione è stata adeguata. –
– Bene, bene – dice distratto l’omone con le braccia dietro la schiena, mentre lo sguardo vaga dalla sala in piena attività alla notte senza luna che si intravede dalle finestre innevate.
– Le renne sono pronte? – chiede poi
– Sì, certo, siamo già partiti; abbiamo mandato da tempo le prime squadre a est, man mano che il sole tramonta finiremo il giro, sta tutto andando come previsto, dovremmo finire tra poco. – conclude dando un’occhiata ad un orologio di Topolino, chiaro avanzo di qualche sovrapproduzione.
– A proposito – chiede il piccoletto – lei pensa di andare? –
L’omone scuote la testa.
– No, no, quest’anno salto. Abbiamo organizzato una conferenza interplanetaria del Natale. L’ha voluta il Capo – e così dicendo indica con un dito verso l’alto – dice che finché siamo svegli è meglio che ci parliamo. Pare che su un paio di pianeti ci sia un problema di disponibilità di animali simili alle renne e non sanno più come portare i regali. Prima lo facevano a mano, ma adesso anche lì l’esplosione demografica ha creato un problema. –
– Mi domando, ma non ci poteva pensare prima, mentre creava… –
– Ahem!!! – stavolta il tono è più grave.
Il piccoletto sembra farsi più piccoletto, incassa la testa nelle spalle.
– Non velevo essere irrispettoso verso il Capo, era solo un commento… –
– Lo so, ma noi non siamo autorizzati a discutere le decisioni del Capo, Lui sa meglio di noi cosa è giusto e cosa no. E comunque – continua sospirando – mi sto facendo vecchio sul serio, lascio volentieri il lavoro più divertente ai giovani, io mi farò questa noiosa conferenza interstellare e poi mi metto giù a riposare. Ci rivediamo verso fine novembre prossimo. –
Fa un leggero sbadiglio, Babbo Natale, e sta per chiedere qualcos’altro, ma in quel momento li interrompe un tizio alto, magrissimo, con un cappello da postino e una giacca blu che si intona al personaggio.
Arriva di corsa, si ferma davanti ai due e fa una specie di saluto militare: si vede che ci tiene a sembrare irreggimentato.
Babbo Natale lo guarda con rassegnata cortesia, mentre il piccoletto non nasconde la sua irritazione.
– Tutti i pacchi consegnati entro le 23.59! – urla con voce stentorea.
– Come sempre – mormora il piccoletto infastidito da tanta retorica. Ma dalla sala scatta comunque un applauso soddisfatto: sono tutti li per quello, il loro unico scopo nella vita è consegnare tutti i regali in una notte, e sono tutti felici di aver fatto il loro dovere, per poi scendere nelle viscere dell’edificio e dormire sereni per un altro anno.
– Benissimo – dice sorridente Babbo Natale – direi che mentre voi sistemate la sala comando e la mettete in stand by per l’anno prossimo, io vado nel mio ufficio per part… –
Improvviso, un suono lacera l’aria.
Una sirena comincia ad urlare, delle luci rosse lampeggianti si accendono mentre tutti i presenti si immobilizzano, e gli altoparlanti iniziano a gridare:
– Allarme rosso! Allarme rosso! Pacco non consegnato! Ripeto: pacco non consegnato! Allarme rosso! Allarme rosso! Allarme rosso! –
– Stacca l’allarme!!! – urla Babbo Natale con le mani sulle orecchie.
Il piccoletto digita freneticamente sul suo tablet finché improvviso come era venuto il suono si calma e le luci si spengono.
– System override. – dice soddisfatto il piccoletto.
Il silenzio che permea la stanza è denso di preoccupazione.
Babbo Natale si lascia cadere su una poltrona, poi si rivolge al tizio alto e magro:
– Non hai detto che avevate consegnato tutto? Vi è forse sfuggito un pacco? –
Il tizio ha gli occhi sbarrati per il terrore, mentre parla attraverso un piccolo dispositivo inserito nell’orecchio. Usa una lingua incomprensibile, ma si capisce che è ansioso e preoccupato.
Dopo qualche minuto chiude la conversazione e rivolge lo sguardo a terra.
Babbo Natale si sporge sulla poltrona e ripete:
– Avete mancato una consegna? – lo dice in maniera pacata ma si capisce che è arrabbiatissimo.
Il tizio manda giù, si schiarisce la gola, o quello che è, e poi risponde sommessamente:
– Siamo andati all’indirizzo giusto ma non c’era nessuno. –
Babbo Natale si alza di scatto, mentre il piccoletto sbraita:
– Non è possibile! Le nostre liste sono esatte. Lo sono sempre, non sbagliamo mai! –
– Eppure è così – dice lo spilungone seccato. – All’indirizzo che ci avete dato non c’era nessuno. Né bambini, né genitori, cani, gatti, nessuno. La squadra ha perlustrato tutto il vicinato, ma non c’era nessun bambino senza regali. –
– Questa cosa è inaccettabile. Voglio capire cosa è successo e trovare quel bambino. Non voglio macchiare il mio record. Quanti anni sono che non manchiamo una consegna? – chiede Babbo Natale al piccoletto.
– Duecentododici – risponde pronto.
– Ecco, non vorrei dopo duecentododici anni andare dal Capo e dirgli che da qualche parte c’è un bambino senza regali. Voglio sapere che cosa è successo e come possiamo rimediare, e lo voglio sapere ora! –
Nessuno dei presenti ha mai visto Babbo Natale così arrabbiato, e anche se i suoi scatti di ira sono proverbiali così come i suoi gesti di generosità, tutti restano in silenzio.
Nel frattempo il piccoletto si siede ad una scrivania per stare più comodo, comincia a parlare con qualcuno collegato al suo auricolare mentre digita sullo schermo.
Lavora per qualche minuto, ad un certo punto diventa anche rosso di rabbia, poi si calma. Riprende a parlare e gesticolare e alla fine chiude la connessione e il tablet.
– Hanno traslocato. Il 24 pomeriggio. –
– Che coooosaaaa!?! – dicono in coro Babbo Natale, lo spilungone, e un centinaio delle persone presenti che stanno seguendo la scena.
– E’ così. Il bambino e i suoi genitori si sono trasferiti il pomeriggio della vigilia, per questo nella lista c’era un indirizzo sbagliato. Ora abita sempre nella stessa città, ma in Via dei Merletti, 48. Ed è senza regali. –
Per un momento restano tutti in silenzio all’orribile idea di un bambino senza regali, poi è lo spilungone a parlare:
– Beh, mandiamo una squadra con le renne, e lasciamo i regali. Che differenza può fare? –
Babbo Natale lo fulmina con lo sguardo. Ora è accigliato, e non sembra più il bonario nonno di pochi minuti fa.
– Stai scherzando, spero. – dice mentre lo spilungone abbassa gli occhi a terra. – Prima di tutto ormai saranno svegli e non avranno trovato i regali. E come fai a lasciarglieli senza farti vedere? E poi abbiamo fatto soffrire un bambino, e sai come la pensa il Capo sui bambini. –
– Lasciate che vengano a me. – cita a memoria il piccoletto.
– Esatto. – annuisce Babbo Natale, grave.
Fa una pausa di riflessione. Poi si guarda intorno, tutti pendono dalle sue labbra: duecentododici anni di ininterrotto servizio sono a rischio se non troverà una soluzione.
– Andrò io. – dice alla fine.
– Ohhhhhhhhhh!!!! – il mormorio di stupore è collettivo e pieno di ansia.
Il piccoletto fa mezzo passo in avanti, e poi domanda:
– Vuole andare davvero? Ormai sono… – guarda l’orologio sulla parete, fa un rapido calcolo – le sette di mattina, là. Saranno tutti svegli, la vedranno. Magari qualcuno scatterà una foto, come faremo poi? –
Il vecchio con la barba bianca si tira su i pantaloni di flanella, controlla che la cinghia sia abbastanza stretta, e poi sorride:
– Non penserai che sia ingrassato così tanto da non passare più dai camini, vero!? –
– Ma quali camini…- prova a dire il piccoletto, ma ormai Babbo Natale è uscito dalla sala, dirigendosi verso il recinto.
Esce al freddo invernale della Lapponia ma non sembra neanche percepirlo; si appoggia alla staccionata, fa un breve fischio, e subito sei renne si avvicinano a strofinargli il muso contro il petto.
– Dobbiamo tornare dalla pensione per un po’, che ne dite? – dice mentre carezza il muso delle bestie, che sembrano capire e fanno tintinnare i campanelli freneticamente, mentre Babbo Natale va a prendere la giacca rossa d’ordinanza, per questa imprevista missione.

Via dei Merletti 48 è un condominio di otto piani in una periferia della città. Nelle quattro scale di cui è composto ci sono 43 bambini sotto i dodici anni, tutti hanno ricevuto uno o più regali dalle squadre di Babbo Natale, e ora sono tutti intenti a scartare pacchi.
Babbo Natale li guarda dalle finestre mentre cammina agile sui cornicioni: c’è la bimba dell’interno A5 che ha una bambola di pezza con due bottoni al posto degli occhi e la guarda meravigliata; al B2 un bambino piccolo piccolo sta cercando di spingere una macchina di plastica enorme, ma cade in continuazione, i suoi genitori lo rimettono in piedi ogni volta, ma lui cade di nuovo, ma non piange mai; al C6 due gemelli litigano perché hanno ricevuto due regali esattamente identici, ma quello del fratello è più bello, per entrambi.
Alla fine arriva alla scala D, e si arrampica sulla grondaia fino a guardare dalla finestra del salone dell’interno 10.
Un bambino piange disperato abbracciato alla madre, mentre il padre si passa la mano sui capelli.
I due genitori stanno litigando, anche se cercano di contenersi, ma la disperazione del bambino sta avendo un effetto deleterio sulla loco capacità di controllarsi.
– Ma non gli hai preso niente alla fine? Niente di niente? – sibila la moglie a denti stretti.
– E con che cosa? – risponde il marito allargando le braccia – Ho speso tutto per il trasloco, e per chiudere il contenzioso con il padrone di casa. Sto aspettando che mi paghino quel lavoro, ma i soldi se va bene arriveranno a gennaio, e dobbiamo pur mangiare, no!? E poi c’è la retta dell’asilo, la rata della macchina. Non abbiamo una lira. Niente, neanche per andare al cinema. –
Due lacrime scendono sulle guance della madre, mentre il piccolo le singhiozza addosso.
– Come è stato possibile. Dimmi. Come è successo che ci siamo ridotti così? Avevamo tante speranze, e ora non abbiamo neanche i soldi per un regalo per nostro figlio. Che vita è questa, dimmelo tu, se lo sai. Dimmelo. –
L’uomo affonda sempre di più la testa tra le mani, si sente responsabile, pensa di aver fallito tutto e che ha deluso le persone che più ama al mondo.
– Io sono sicuro che è solo un momento. Abbiamo dovuto lasciare la casa perché non ce la facevamo più a mantenerla, ma il mio libro andrà in stampa in primavera e sono sicuro che venderà bene, e nel frattempo le traduzioni e le ripetizioni ci permettono di vivere decentemente. –
– No, che non viviamo decentemente, non è vero! – urla la moglie facendo sobbalzare il bambino che si è addormentato, sfinito dalle lacrime e dai singhiozzi – Perché se non ci possiamo comprare delle scarpe, non possiamo andare a cena fuori, non possiamo comprare regali a nostro figlio, non è una vita decente. Io non ce la faccio più. Mi dispiace tanto, ma non ce la faccio più. Ieri… –
Lui la guarda, sorpreso, e impaurito.
– Ieri? – chiede timoroso.
Lei abbassa lo sguardo.
– Ieri ho parlato con i miei. Mi hanno detto di tornare a casa. Cosi noi due non saremmo un peso per te, e potresti concentrarti sul tuo libro. E quando le cose dovessero sistemarsi potremmo tornare di nuovo insieme. –
Lui si alza di scatto.
– No! ti prego, no. Aspetta ancora un po’, ce la possiamo fare, è solo questione di tempo, te lo giuro! –
– Ha ragione lui. – dice improvvisamente una voce profonda e roboante.
I due si girano e vedono quest’uomo imponente, vestito con giacca e pantaloni rossi, con un cappello rosso a punta e un sacco sulle spalle.
Il marito si frappone tra l’uomo e la moglie, e prende il cellulare, pronto a chiamare la Polizia.
– Lei chi è? come è entrato a casa nostra? e che ci fa vestito da Babbo Natale? –
– Oh oh oh oh oh! – esplode con una risata l’uomo in rosso.
– Sono vestito da Babbo Natale, perché io SONO Babbo Natale – afferma sorridente. E poi prosegue: – E per quanto riguarda il come sono entrato…beh, dato che non avete il camino permettetemi di mantenere un piccolo segreto professionale. Ma non facciamo rimanere in piedi un vecchio, che ne dite? –
Si siede su una poltrona con un certo fragore, appoggiando il sacco alla sua destra, godendosi le facce stupite dei due adulti, mentre il bimbo dorme in braccio alla mamma.
– Se sono i soldi che vuole, ha scelto la famiglia sbagliata. Non abbiamo una lira. Però prenda quello che vuole, purché non tocchi nostro figlio e se ne vada; non la denunceremo neanche, tanto non troverà nulla da rubare. –
– Oh oh oh oh! – ancora quella risata.
– Ma io non sono venuto a rubare. – dice asciugandosi una lacrima dal troppo ridere – Ma a scusarmi. –
I due si guardano, non capiscono ed è comprensibile.
Hanno passato un periodo di grande stress, i problemi economici, la casa da lasciare all’improvviso, questo lavoro che non arriva, non hanno spazio per la follia.
Il padre si fa coraggio, sta per dire qualcosa, ma proprio in quel momento la voce squillante del bimbo risuona nel piccolo salotto:
– Babbo Natale! –
Il bimbo si è svegliato, vede l’uomo dalla barba bianca vestito di rosso e fa per corrergli incontro, quando il padre lo ferma attirandolo a sé.
– Fermo, non ti avvicinare, questo… –
Non riesce a finire perché il bambino si divincola e corre ad abbracciare l’omone sorridente, che lo stringe forte e completa la frase:
-…è Babbo Natale. Sono proprio io. E sono venuto a scusarmi per non averti lasciato i regali sotto l’albero. Ma avevamo perso l’indirizzo. Sai, anche Babbo Natale sbaglia qualche volta, ma l’importante è non perdere la fiducia e cercare di riparare ai propri errori. –
Prende il grosso sacco appoggiato a terra e comincia ad estrarne dei pacchi colorati chiusi da enormi fiocchi dorati.
– Ecco. – dice mentre gli occhi del bambino si illuminano di felicità e quelli dei genitori di stupore – Questo è il regalo da parte di mamma, questo da parte di papà, poi ne abbiamo uno da parte di tua zia che vive lontano ma ti pensa sempre, uno da parte dei nonni, poi eccone uno dalla tua maestra dell’asilo…e infine…ecco qua! –
Prende dal sacco un pacco enorme, immenso, così grande che non è possibile che fosse dentro il sacco, o almeno questo è quello che si dice il padre, ma evita di commentare.
– Questo è il mio regalo personale per te. Sono le mie scuse per essermi perso l’indirizzo. Ma ora me lo sono segnato bene e non me lo dimenticherò più, te lo prometto. –
Dà un abbraccio forte al piccolo, che si stringe a lui per un momento, poi aiutato dalla madre va a mettere i regali sotto l’albero e comincia a scartarli urlando di gioia.
Babbo Natale si rimette in piedi, si sporge dalla finestra per vedere che tempo che fa poi si volta ancora un attimo e si trova il padre del bimbo di fronte che lo guarda incuriosito, le mani in tasca.
– Io non so come sia uscita fuori questa cosa…né chi l’abbia organizzata, ma comunque grazie. Grazie davvero. –
E’ imbarazzato, ma anche felice per suo figlio.
Babbo Natale lo guarda sorridendo per un attimo, poi mette una mano in tasca e ne prende una busta.
– Non mi deve ringraziare – dice mentre porge la busta – Ho fatto solo il mio dovere, con un po’ di ritardo. Per scusarmi, mi sono permesso di dare un’occhiatina in giro e quello è un ritaglio di giornale di ottobre che parla di lei. –
L’uomo apre la busta, e il ritaglio dice: “Superate le centomila copie per il più grande successo editoriale dell’anno!”.
Alza la testa e dice:
– Ma io non ho pubblicato nessun libro, e a ottobre nessun giornale ha parlato di me! –
Babbo Natale ride di gusto, ora.
– Infatti – dice con uno sguardo ironico – il ritaglio è di ottobre prossimo. Come vede le cose si aggiusteranno. –
L’uomo è esterrefatto, riguarda il ritaglio ed è vero, è proprio dell’anno dopo.
– Io…non so che dire.. come posso ringraziarla di tutto questo? – l’uomo ha la bocca spalancata dallo stupore.
Babbo Natale alza una spalla mentre scavalca il davanzale.
– Non c’è bisogno di ringraziarmi.  Solo – dice mentre sta già sparendo dalla vista dell’uomo – la prossima volta…traslocate per tempo. –
Affacciato alla finestra, un ritaglio di giornale che non esiste in mano, il rumore dei regali che non c’erano, l’uomo pensa che, sì: forse andrà bene davvero.

Le Grandi Recensioni di Rolandfan

A star is born di e con Bradley Cooper, con Lady Gaga

Trama del film
Una giovane fanciulla, amata dal padre ma con una vita funestata dalla morte della madre, vive in povertà tra piatti da lavare, cucine da pulire, e polvere da aspirare.
Ad un certo punto un principe azzurro…no, aspe’ quella è un’altra, come se chiamava…Cenerentola.
Vabbè tanto la storia più o meno è la stessa, con la differenza che il principe è un cantante stagionato ma figo, e lei una cozza. Che forse io un’occhiatina alle sorelle glie l’avrei data, hai visto mai…

Giudizio della critica
Remake di un remake di un remake, addormenta fin dalle prime battute.
Pellicola per amatori, anzi per amatrici, vista la salivazione continuativa delle signore in sala alla vista degli occhi di Bradley Cooper, dei pettorali di Bradley Cooper, degli addominali di Bradley Cooper e di tutto quello che si è potuto vedere di Bradley Cooper.
La trama prevedeva una cantante cozza ma brava, ma purtroppo vista l’indisponibilità di Barbra Streisand, impegnata in un torneo di burraco nella casa di riposo di Beverly Hills, ne hanno trovato solo una cozza. Ma molto, molto, cozza.



Ciao

Dopo tanto tempo, un racconto.

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– Ciao –
Le vibrazioni dell’aria impiegano qualche millisecondo a raggiungere il timpano, e a propagarsi lungo in nervo uditivo, ma quando arrivano al cervello sotto forma di parola, suono, timbro, l’archivio della memoria è scoperchiato in un attimo.
Non so quanto sia breve questo attimo, ma è di certo tra un respiro e l’altro, tra un ventricolo che si contrae e un altro che si rilascia, tra un ciglio che batte e la luce che si spegne e poi si riaccende quando si alza di nuovo.
E in quell’attimo tu sei di nuovo qui, sotto di me.
Sdraiata sull’erba con quel tuo vestito a fiori, leggero, una margherita tra i denti, un braccio sopra la testa, capelli che volano tenuti fermi da una mano.
E un sorriso assurdo.
L’erba di un verde accecante, un verde che non ho mai più visto in vita mia, e gli occhi enormi, asciutti, tranquilli.
E quel sorriso. Leggero, intenso, assurdo.
Mi guardi e io sopra di te, le mani appoggiate a terra, che ti guardo, e penso se baciarti, se baciare quelle labbra morbide o soffrire guardandole con desiderio.
Gli occhi vorrebbero rincorrere i tuoi ma tu li tieni fermi su di me, e sorridi, con quel leggero sorriso assurdo.
Poi:
– Sono incinta. –
Io mi fermo, la mandibola appesa senza vita, le braccia improvvisamente intorpidite.
Vedo il tuo sorriso e capisco, credo di capire.
Ecco perché, ora capisco. Credo di capire.
Ma il tuo sorriso oggi, qui, è assurdo.
Il tuo sorriso che si nutre di una margherita e del mio cuore, che mi fa vivere e morire in un momento.
– Non è tuo. –
Dici, e quel sorriso ora è davvero assurdo, fuori luogo.
Il sorriso di un assassino, di un pazzo omicida che gode a vedere le viscere della sua vittima rotolare lentamente a terra, sentire il cuore che batte furiosamente e poi si ferma.
Il sorriso di una gioconda malvagia.
Il sorriso di una donna che improvvisamente non è più tua.
Come non è tuo quel figlio.
Riapro gli occhi.
Mi volto.
E’ lei, non mi ero sbagliato.
E anche oggi, dopo tutti questi anni, quel sorriso assurdo, quelle labbra che mi hanno incatenato per sempre e poi ucciso.
I capelli leggermente imbiancati, le rughe intorno alla bocca nette, qualche macchia, ma sei tu.
– Ciao. – mi sforzo di dire, come se non fossero passati venti anni, come se non fossi ancora uno squarcio nell’intestino – come mai sei qui anche tu? –
Faccio un gesto per indicare la biblioteca dove mi trovo, con quelle persone che aspettano di parlare con me.
– Ti cercavo. Cercavo te. –
Annuisco. Come se capissi. Anche stavolta credo di capire, ma temo che anche stavolta sarò deluso.
Non dico niente.
– Ti ho visto ieri. Alla fine lo hai scritto il libro. –
Annuisco di nuovo.
– Sì, l’ho scritto. – un dato di fatto.
Lei sorride di più, mi mostra i denti, bianchi, che conosco bene, uno per uno, li ho toccati tutti ad occhi chiusi un pomeriggio piovoso.
– Perché mi tocchi i denti ora? – mi chiede divertita la lei di allora.
– Voglio sentire se sei buona, come i cavalli. Non voglio mica prendere una fregatura. –
La donna che eri tu mi morde all’improvviso, forte, mi fa uscire il sangue da un dito.
– Mi prenderai con o senza i denti buoni, perché io voglio così. – mi dice guardandomi negli occhi.
E non scherza, non scherza mai, neanche su quel prato verde.
Ma la donna di oggi sorride. Mostra i denti in segno di pace. Non morderà.
– Te l’avevo detto. Il mondo ha bisogno del tuo libro. –
– Me l’avevi detto, ma avevo bisogno di sentirlo io. –
– E ci hai messo venti anni? –
– Ci ho messo il tempo che ci voleva. E’ una storia complicata. –
– Lo so. Lo so bene. E’ la mia storia. –
La guardo. Non dovrei dirlo, ma lei è venuta qua, e non ha senso nascondersi. E forse non la vedrò più perciò glie lo dico.
– No. E’ la nostra storia. Noi come paradigma dell’umanità. L’amore come forza e come disperazione. La passione e l’abbandono. Io e te. Il resto sono parole di contorno. –
Rimane colpita, non se lo aspettava forse. Pensava chissà, il rancore, il rimpianto, la gelosia.
Non si aspetta che dopo tutto questo tempo io sia ancora innamorato di lei.
– Tuo figlio? – le chiedo. Non posso trattenermi.
Fa un gesto con la mano imprecisato.
– Volato via dopo pochi mesi. Non era destino. Ho due figlie però. Sono serena. –
Capisco. Ma ho un vuoto nello stomaco. Se fossi rimasto. Se avessi capito. Se avessi perdonato. Se.
– Anche io, due figli. Un maschio e una femmina. La femmina si chiama come te. –
Vacilla. Questo non se lo aspettava. Il suo sorriso assurdo non c’è più, ci sono i suoi denti bianchi che si afferrano ad un labbro come per sostenerla, e le mani che si stringono come per tenersi in equilibrio.
Si avvicina.
Sussurra.
– Sei stato così. Davvero così. Tutto quel tempo. –
– Sì. – che altro devo aggiungere.
Si avvicina ancora. E’ qui. Come quel giorno su quel prato, come quella margherita tra le labbra, come quei capelli al vento e quelle mani a tenerli fermi. Come quel sorriso assurdo che vorrei tanto rivedere.
– Sei andato via, sei scappato, non ti ho trovato più. Il tuo orgoglio di maschio ferito. Non mi hai dato una seconda possibilità. Non era il figlio di un amore segreto, era il regalo di una serata senza senso, di una bottiglia di vino di troppo che non avremmo dovuto aprire, di uno sconosciuto amico di un amico di non so chi che mi ha sbattuta su un divano e io ridevo e non capivo niente. Di un uomo imbarazzato che dopo due minuti si è rialzato ed è scomparso dalla mia esistenza, dopo averla rovinata. Ma io ci credo al destino, lo sai. Lo sai che leggo i segnali dal fato. E’ stato giusto così. Sei scomparso, hai trovato un’altra donna, hai due figli, hai scritto un libro. Sei in pace col mondo. E anche io. –
La guardo.
Provo rabbia ora. Perché mi dice tutto questo, perché vuole farmi odiare me stesso e anche lei. Perché.
– Che cosa vuoi? Perché sei venuta qui oggi? –
Mi mette una mano sul viso e per un momento penso mi voglia strangolare, invece mi vuole sentire.
– Sono venuta perché la storia che hai scritto non finisce lì. Perché ho pianto tutte le notti per anni, perché ho maledetto la mia vita e la tua intransigenza, perché ho desiderato incontrarti per caso ogni giorno, perché ho girato tutte le strade del tuo quartiere per poterti rivedere, perché ho creduto di sentire la tua voce continuamente, e mi sono girata cercandoti con gli occhi, e mentre amavo un altro uomo, crescevo dei figli, vivevo una vita normale, sapevo che era niente in confronto a quello che avrei dato a te. E che tu non hai voluto. –
Respira con affanno, mi respira addosso, mi tortura con gli occhi, non posso scappare.
E allora li chiudo.
Li chiudo sperando che capisca, che vada via.
Che legga i segni anche stavolta e che sappia che gli anni non passano invano sulla pelle delle persone, che niente sarà mai uguale a un secondo prima, o un secondo dopo, figuriamoci dopo venti anni.
Tengo gli occhi chiusi perché ho paura di afferrarla e tenerla stretta e non lasciarla più, perché è quello che vorrei, che voglio fare da sempre.
Li riapro, ma ho chiesto troppo. Non mi merito che scivoli via senza fare male.
Ha aspettato, è ancora lì.
Con quel sorriso assurdo.
Poi si gira e se ne va.


Elaborazione del lutto pentastelluto

Un notissimo “teorema” della Psichiatria, elaborato ormai 50 anni fa dalla svizzera Elisabeth Kubler-Ross, traccia il percorso di elaborazione del lutto che deve necessariamente fare chiunque perda una persona cara.
Capire questo percorso e cercare di gestirne le varie fasi, aiuta a superare il momento di sconforto.
Che poi né più né meno è quello che sta avvenendo agli elettori pentastelluti, che improvvisamente devono elaborare la perdita dell’illusione che veramente il M5S avrebbe lavorato per il popolo e avrebbe cambiato le cose.
E’ facile riconoscere le similitudini tra questi eventi, ma se non mi credete, seguite il mio ragionamento e anzi: se avete un amico pentastelluto, stategli vicino e aiutatelo a uscirne fuori.
Ma vediamo cosa succede ad un pentastelluto quando comincia ad accorgersi di aver perso la verginità politica.

Fase 1 – Negazione/Rifiuto
“I trasporti a Roma funzionano benissimo! Ho fatto un giro in macchina e non ho visto buche. Finalmente c’è qualcuno che si occupa di legalità. Daremo il reddito di cittadinanza!”
Ora, capite bene che vi parla così è una persona che non vive nel mondo reale. O quanto meno non a Roma. E’ uno che crede nelle favole. Sta rifiutando di accettare la verità. Che tutti i posti in cui i pentastelluti hanno preso il potere stanno andando peggio. Che a Roma tra arresti e indagini ha fatto più razzia la magistratura in due anni di Raggi che in dieci anni precedenti. Che non funziona niente. Che il reddito di cittadinanza non ha le coperture economiche, e così via. Questo è il passaggio più delicato, per il pentastelluto.
Avvedersi delle cose come stanno. Aiutatelo portandolo per esempio su Via Salaria facendogli percorrere avanti e indietro il manto stradale con la sua BMW GS1200 finché non avrà spaccato i copertoni, oppure fategli prendere la Metro C senza aria condizionata (“è rotta signo'”), o ancora un giretto a Villa Ada sommersa dalle sterpaglie e dalla mondezza. Ma fatelo delicatamente, il risveglio può essere brusco per i pazienti in coma.

Fase 2 – Rabbia
Impossibilitati a negare più l’evidenza, i pentastelluti cominceranno a prenderla con chiunque. L’allorismo imperante tenterà di ripristinare ai loro occhi un’impossibile supremazia.
“E allora il PIDDI’??” urleranno impavidi.
“Perché non ve li prendete a casa vostra i migranti?” tenteranno di giustificare così l’adesione alle politiche xenofobe della lega.
La fase della rabbia è la più pericolosa, per chi frequenta i pentastelluti.
Le bacheche facebook si riempiranno di truppe cammellate pronte a insultare chiunque tenti di applicare un minimo di razionalità, le pagine facebook delle star del movimento saranno piene di fantastici inviti tipo “Daje Virgi, continua così”, oppure “Non vi curate di chi parla contro di voi” e puttanate del genere.
Se avete un parente stretto che vi gira per casa nella Fase 2 cercate di non contraddirlo e aspettate che si svuoti di energie perché sta per entrare finalmente nella:

Fase 3 – Negoziazione
Il pentastelluto in Fase 3 sta cominciando ad elaborare il lutto, ma tenta ancora di resistere.
Vi dirà per esempio “D’altronde, come si faceva asistemare tutto in due anni dopo dieci di malaffare?”, dimenticando che qualcuno aveva promesso Roma pulita in due mesi.
Oppure “Ma Torino non è Roma” cercando di giustificare con una lapalissiana banalità il fatto che le Olimpiadi a Roma sono state osteggiate in ogni modo mentre a Torino sticazzi.
Ci sarà sempre il tentativo di dare la colpa a qualcun altro, anche nella Fase 3, del tipo “ma con 13 miliardi di debiti che abbiamo ereditato, come si possono finanziare le opere pubbliche?”, ma piano piano si sta realizzando che beh, sì, forse sarà colpa di qualcun altro, ma alla fine non abbiamo combinato un cazzo, anzi.
Consiglio ai famigliari dei pentastelluti di far durare la Fase 3 più a lungo possibile, con dei lunghi giri della città, visione dei telegiornali, e abbonamento a “Porta a Porta”, perché la Fase 4 sarà dura. Durissima.

Fase 4 – Depressione
Non c’è niente di peggio di un esaltato che entri in depressione.
Tutta l’energia, l’entusiasmo, i festeggiamenti, gli sberleffi, si trasformeranno in altrettanti picchi di passione ma negativa.
Il pentastelluto in Fase 4 capisce la cazzata che ha fatto, e sa che che è anche colpa sua se una banda di incapaci e demagoghi è al governo della sua città e del suo paese.
Il senso di colpa lo divora, e le notti diventano infinite maratone di pianto, abbracciati alla moglie o ad altri militanti possibilmente con le tette (perché depresso va bene, ma insomma senza esagerare) a chiedersi “ma come ho fatto?”, “ma perché proprio a me?”, “io non volevo”, e cazzate del genere.
Ma non vi preoccupate, la Fase 4 è tosta ma breve.

Fase 5 – Accettazione
Il pentastelluto in Fase 5 ormai è quasi uscito dal tunnel.
Avrà ancora delle incertezze, qualche indecisione legata al passato recente, qualche invito ad un meet-up a cui è tentato di partecipare, un sondaggio online da rimuovere subito dopo se i risultati non sono quelli che i capi si aspettavano.
Insomma si accetta l’accaduto, ma staccarsi è difficile.
E così come chi ha perso un parente per i primi tempi porterà tutti i giorni i fiori sulla lapide, così il pentastelluto in fase 5 non potrà evitare di dare una sbirciata ogni tanto al blog delle stelle.
Guarderà le foto del pregiudicato sorridente dire che i vaccini fanno male e penserà “però, dai è stato bello finché è durata, abbiamo passato un bel po’ di tempo insieme, vero Beppe?!”

E così, alla fine di questo lungo ma necessario percorso, il pentastelluto che ha perso l’honestà sarà finalmente libero.
Libero, alle prossime elezioni, di dare il voto a gente di altro livello.
Che so, Fratelli d’Italia, LEU, o magari al Partito dei Pensionati.
In fondo, mica vorranno morire pure loro, ‘sti cazzo de pensionati, no!?

16 Marzo 1978

Il 16 marzo del 1978 non avevo ancora 15 anni, andavo in prima liceo e mi svegliai alle 7 di mattina per essere accompagnato a scuola da mia madre, su una vecchia 500 grigia.
Qualche volta avevo cominciato ad andare da solo, in autobus, ma per lo più ancora mi accompagnava mia madre: era un percorso difficile, il mio liceo era lontano, e per arrivare dovevo prendere tre autobus, ed ero ancora più o meno convalescente a causa di un brutto incidente accaduto pochi mesi prima.
Avevo rischiato seriamente di rimanerci secco, in quel preciso momento avevo i legamenti del ginocchio che non funzionavano gran che bene e una sbarra di acciaio infilata dentro il midollo del femore sinistro; a settembre mi aspettava un’altra operazione, e insomma non ero proprio in forma.
L’incidente che aveva messo a rischio la mia esistenza era accaduto a Terracina, un paesino di mare non lontano da Roma, dove eravamo soliti andare in vacanza.
Negli anni passati a Terracina ricordo che spesso dopo il mare si facevano delle passeggiate verso il corso, a prendere un gelato al Lido, all’epoca lo stabilimento di punta, e sul grande marciapiede non era inusuale incontrare un uomo sulla sessantina che però sembrava già vecchio: era alto, silenzioso, e con una frezza bianca in mezzo ai capelli.
Era sempre solo, se c’era qualcuno a proteggerlo non me ne accorgevo.
Se lo salutavi, e mio padre lo salutava spesso quando era con noi, rispondeva con un sorriso, le braccia dietro la schiena; era vestito sempre elegantemente, non sembrava certo un turista.
Non saprei dire quante volte lo abbiamo incontrato, ma me lo ricordo benissimo perché una volta mio padre cercò di presentarlo a mia sorella, che era piccolina, forse tre o quattro anni.
Si chinò e le disse: “Sai chi questo signore? è l’Onorevole Aldo Moro”
Lei però non ne rimase impressa, e forse neanche io.
Ma quel 16 Marzo del 1978 mi sarei ricordato di quegli incontri, eccome.
Mentre io ero a lezione, l’uomo con la frezza bianca si mosse da casa insieme a 5 uomini della sua scorta.
Erano in tutto sei persone perbene: questo punto è importante.
In un paese normale sei persone perbene non dovrebbero temere per la loro vita, ma l’Italia degli anni settanta non era un paese normale, con oltre 200 sigle terroristiche attive e migliaia tra attentati, omicidi, rapine, e altri atti di rivolta ogni anno.
La scorta di Aldo Moro era composta per lo più da persone di fiducia, che lo accompagnavano da anni, e che forse, abituati alla mitezza dell’uomo, non avevano così chiaro che in questo universo esistono le pecore ma anche i lupi.
E così andavano in giro con due macchine non blindate, con le pistole d’ordinanza dentro il vano portaoggetti, e i mitra, che non oliavano quasi mai, nel bagagliaio, non proprio pronti all’uso.
Non c’era nella loro azione la frenesia che si vede in tanti film americani, erano persone di casa, quando lo andavano a prendere la moglie offriva loro il caffè, quando andava in chiesa magari lo accompagnavano dentro oppure stavano fuori a fumare, insomma erano una famiglia più che una scorta militare.
Sei persone perbene che alle 9 di mattina di quel 16 marzo imboccarono con le due macchine di servizio Via Mario Fani, una strada in discesa che da Via Trionfale porta verso Via Stresa: una bella zona residenziale, dove vivono professionisti, alta borghesia, insomma non i Parioli ma quasi.
Quel giorno però Via Fani divenne il crocevia della storia.
In quel crocevia doveva trovarsi anche un fioraio, tale Spiriticchio, ma quando si svegliò nell’abitazione dove risiedeva al centro di Roma scoprì che tutte le gomme del suo furgone erano state squarciate: la storia, per mano delle BR, scelse di avere una strada sgombra piuttosto che un fioraio in mezzo all’incrocio.
Per un fioraio che non era lì quando sarebbe dovuto esserci, all’incrocio tra Via Fani e Via Stresa quella mattina c’era invece una persona che non doveva trovarsi lì: un ufficiale dei servizi segreti, che per imperscrutabili motivi camminava in quell’incrocio poco prima della sparatoria. Identificato e interrogato sostenne che stava recandosi a pranzo da un amico. Il 16 Marzo 1978, un giovedì, c’era qualcuno che andava a pranzo da amici, ma forse era un po’ in anticipo. Uno dei tanti misteri di questo tragico avvenimento.
Se qualcuno avesse poi guardato con attenzione, avrebbe potuto vedere un’altra persona che non doveva essere lì quel giorno: in cima a Via Fani una donna, ritta in piedi, con un mazzo di fiori in mano. Ma il fioraio quel giorno non c’era.
E poi altri ancora: una macchina all’incrocio, un’altra macchina dall’altra parte, quattro persone con una divisa dell’Alitalia sedute a chiacchierare fuori da un bar chiuso.
Una scena surreale, a Via Fani, quel 16 Marzo 1978.
Ed eccole, le due macchine che lentamente imboccano la strada in discesa.
Stanno accompagnando il loro passeggero in chiesa: come ogni mattina vuole pregare, per poi recarsi in Parlamento a votare a favore del suo capolavoro politico.
Il compromesso storico, la prima volta che in Italia il Partito Comunista appoggerà un governo democristiano nel tentativo di creare una democrazia compiuta, per preparare un’alternanza al potere che allarghi la partecipazione del popolo.
Questo è il sogno di Aldo Moro, questo è quello per cui quest’uomo invecchiato precocemente ha lottato per tutta la sua vita politica, e questo è ciò che lo ha condannato a morte.
Non ci illudiamo che siano vere le frasi dei pentiti: l’attacco al cuore dello stato, il Presidente della DC simbolo del potere, l’uomo più importante.
Non è vero niente. Il vero potere, in quei giorni, è in mano ad altri esponenti DC, Andreotti in primis, e il potere segreto e ancora più reale lo tengono ben stretto Gladio e la P2, al soldo della CIA.
Aldo Moro è invece un folle, un sognatore, un idealista, uno che crede in dio e negli uomini, non necessariamente in quest’ordine.
Uno che ha convinto il vecchio comunista Berlinguer a dargli fiducia, ad accettare di votare ministri quanto meno chiacchierati.
Uno che ha lavorato, cucito e ricucito per mettere in piedi questo governo, senza sapere che lo avrebbero usato, anche i suoi compagni di partito, per continuare a gestire il potere nello stesso identico modo.
Un uomo di grandissima intelligenza e moralità, ma probabilmente una delle persone più ingenue che abbiano rivestito ruoli di Stato nel nostro Paese: un’ingenuità che perse infine solo durante i 55 giorni di prigionia, quando si rese conto che tutte le persone su cui aveva fatto affidamento, dai suoi amici Andreotti e Zaccagnini, al vecchio comunista, fino al Papa, lo avrebbero lasciato solo.
Uno statista che aveva così fiducia nella sua missione da andarla a raccontare al Segretario di Stato americano Kissinger, per avere un avallo di quella operazione così importante e delicata, ottenendone invece un’esplicita minaccia di morte che lo prostrò al punto di dover passare una settimana in ospedale.
Quest’uomo non era affatto il più potente, né il più scaltro, né colui che deteneva un vero potere di interdizione.
Era solo il più ingenuo, il più perbene, il più facile da colpire e quello che voleva davvero cambiare le cose, anticipando l’inevitabile cambiamento che era nell’aria per permettere al suo Paese di guardare al futuro.
Un delicato rivoluzionario.
Quando finalmente arrivò in Via Fani, quella mattina del 16 Marzo 1978, la donna con il mazzo di fiori senza fioraio lo alzò bene in vista e lo sventolò.
L’uomo con la macchina all’incrocio rallentò, si immise davanti alla scorta, e si fermò.
Gli avieri al bar aprirono le borse e ne trassero pistole e mitra.
Un’altra macchina si mise dietro alle due della scorta per bloccarne la manovra.
L’agguato era cominciato, e finì in pochi minuti.
Cinque uomini morti sul terreno, 91 colpi, di cui 50 a segno.
Una strage.
Il resto è importante, ma forse meno: i depistaggi, il comitato di emergenza in mano a Cossiga e alla P2, la banda della Magliana incaricata dai Servizi Segreti di scrivere il de profundis per Moro, le ricerche capillari ma indirizzate verso il nulla, le trattative nascoste, il Papa ormai malato che disattende le indicazioni della famiglia e condanna definitivamente il suo amico al massacro, la Renault rossa, Via Caetani, la fine.
Il 16 Marzo 1978 avevo quasi 15 anni ed era quasi Pasqua.
Avrei passato 55 giorni stupito, impressionato dai mitra spianati, dai controlli continui, dai Carabinieri in assetto di guerra.
Non sapevo che stavo assistendo alla storia, ma se l’avessi saputo non avrei voluto vederla.



Le dieci cose di lei che vi entusiasmano quando siete fidanzati…

…ma dopo venti anni di matrimonio cominciate a considerarle motivo di divorzio, o ancora meglio di uxoricidio.
Non ci prendiamo in giro: in preda all’ormone e ad un irrefrenabile desiderio di riproduzione – o quanto meno di fare un buon allenamento – il maschio è succube di qualsiasi meccanismo che il suo obiettivo copulatorio mette in atto per schiavizzarlo.
E via di lettere amorose che esaltano la beltà della fanciulla, mani che non vengono lavate per settimane per risentire il suo profumo, e per i più ardimentosi composizioni musicali, romanzi e qualsiasi cosa porti all’obiettivo finale. Diciamocelo, una sana scopata.
Poi succede che in alcuni casi, i più sfortunati, si parte dalla copula e si finisce all’altare, ci si riproduce sul serio e dopo venti anni si è ancora insieme. Amorosamente, felicemente, mannaggiaquellaporcazzosamente insieme.
E mentre a voi il desiderio della copula viene soddisfatto da incursioni notturne su youporn, la vostra compagna continua imperterrita con i suoi atteggiamenti vezzosi.
Che una volta, tanto tempo fa, vi facevano sognare, invece oggi vi spingono ad andare in armeria per comprare quelle pallottole su cui rimuginate da tempo.
Noi, dall’alto della nostra ventennale esperienza, siamo in grado di stilare una lista, per carità non esaustiva, ma che permetterà a coloro in preda all’estasi da rotazione dei lombi di fare attenzione: potreste pentirvene.

1. Figurati se mi metto i jeans
Prima

Ah che donna raffinata! Lei non mette i jeans, mica è come Laila, che stava tutto il giorno infagottata dentro un paio di jeans lisi, scarabocchiati con la biro, e un maglione di lanaccia peruviana comprato a Ollantaitambo quindici anni prima.
La mia donna non esce se non è elegante, se non è la più bella, la più desiderabile, che orgoglio!

Dopo
Ma porca eva! ma dobbiamo andare da Giovanni in campagna, siamo già in ritardo di due ore, stai da stamattina a fa’ le prove davanti allo specchio, ma che cazzo lo sai che là ci sta la fanga, ma mettiti un paio di jeans e usciamo no!? Non ce l’hai? Mo’ non c’hai un paio de jeans? E quindi a Vetralla che famo, c’annamo in abito da sera? Aspetta che mo’ pe’ anna’ a raccoje le nocchie affitto lo smoking.
Tra cinque minuti esco, basta chi c’è c’è.

2. A me il campeggio non piace
Prima

Ma amore, era per dire, quando dico “campeggio” mica penso alla canadese, e alla carta igienica per andare al bagno davanti a tutti! Ma comunque concordo con te, il campeggio è da buzzurri, infatti sapendo che non ti piace ti ho voluto fare una sorpresa, e ho prenotato quell’alberghetto romantico a Porto Santo Stefano, quello con la vista sul mare. Ho preso una matrimoniale con il letto da una piazza e mezzo, tanto staremo tutta la notte vicini vicini…

Dopo
Forse non ti è chiara la situazione: tuo figlio va negli scout, e ci va perché TU hai voluto che ci andasse, perché ci andava anche il figlio di Margherita la tua collega, che uno sticazzi più grosso non avrei saputo dirlo. E gli scout vanno in campeggio, non lo sapevi? E dato che la tua amica Margherita oltre ad essere un cesso a pedali è anche deficiente, ci ha organizzato un week end con i ragazzi. Quindi vediamo: tutti vanno in tenda, compreso tuo figlio, e noi due invece? Un albergo a quattro stelle sull’Aurelia.
Eccerto, che ti credi, che davanti ai campeggi ci fanno un centro direzionale? L’unico albergo è sull’Aurelia. Ed è “solo” un quattro stelle. E ha solo una camera con due letti separati.
Ma figurati se ti tocco, mi sono portato il tablet.

3. No, non lo famo strano.
Prima

Scusa scusa scusa, nononon, non volevo dire…ma no amore non mi permetterei mai, non volevo offenderti, non pensavo…ma no non dire così amore, non ti tratto come una poco di buono, ma che dici, è la passione che ha preso il sopravvento, lo sai quanto ti amo, fare l’amore con te è meraviglioso, non ti sto assolutamente accusando di nulla, sei la donna che ho sempre sognato. Bacino, prometto non te lo chiederò più.

Dopo
Piuttosto de ‘n’antra missionaria me lo taglio.

4. Non ho ancora deciso cosa ordinare
Prima

Amore, fai con calma, non ci corre dietro nessuno. Ho chiesto e la cucina chiude alle undici, hai ancora un paio d’ore per decidere. Intanto io mi sono permesso di ordinare un prosecco con due patati…ah dimenticavo, il prosecco ti fa acidità. Va bene lo bevo io, non ti preoccupare.
Tu intanto leggi il menu, che cosa ti piacerebbe mangiare? Pizza? Carne? Una pasta?
Aspetta chiedo al cameriere. Scusi, cosa c’è nel cus cus agrigentino? Ci sono le cipolle? Il peperoncino? il sedano? lattosio? Ci pensiamo e le facciamo sapere.
Tesoro che dici di una bistecca alla brace? Oddio hai ragione! Povere mucche, vengono torturate, mi pare giusto, lasciamo stare questi poveri animali!
Insalata di polpo? Ma amore, anche il polpo è un animale…beh sì, anche i polpi sono animali. Hai ragione, il polpo è stupido, se lo merita!
Scusi, nell’insalata di polpo c’è l’aceto? Ah. E…non si potrebbe avere solo con un filo d’olio? Va bene guardi meglio di no.
Ma se prendessimo una napoli? Le acciughe sì, tecnicamente sono pesci. Beh ma se non mangi il pesce, perché volevi l’insalata di pol…hai ragione tesoro, non è un pesce, scusami sono io che sono un ignorante.
Allora ci porta un’insalata verde scondita, e per me una fiorentina ben pepata.
Oddio! Scusa amore, non ci pensavo, avevo dimenticato le mucche.
Come non detto, ci porti due insalate verdi scondite.
E il conto, grazie.

Dopo
Ho fatto partire il cronometro. Io prendo una bistecca di cinghiale. Hai cinque minuti, poi ordino.
Non me ne frega niente. Il menù è in italiano, leggi e comunica al cameriere quello che vuoi.
Sì, hanno tutto, tranne la pazienza. E pure io. Mancano due minuti, sbrigati se non vuoi cenare con il cestino del pane.

5. Sto male
Prima

Stai male? Che hai? La febbre? Fammi sentire la fronte, aspetta, ci appoggio le labbra…un po’ sì, forse, la misuriamo? Vuoi mettere una tachipirina, una suppostina per…scusa scusa, come non detto, forse ho un’aspirina, intanto ti preparo un te caldo, e magari vado a vedere se ho una copertina in più va bene?
Tu chiudi gli occhi amore mio, non ti preoccupare di niente, penso a tutto io.
Ma no amore! Ma cosa dici! Sentirti in colpa perché ci perdiamo il concerto dei Queen? Ma dai! Chissà quante volte torneranno in Italia, Freddie Mercury è ancora un ragazzino, ci andiamo la prossima volta!

Dopo
Ci ho rimesso l’orologio.
Ogni volta che dobbiamo fare qualcosa che piace a ME, TU stai male. Che poi non si sa mai che cazzo di malattia c’hai.
Ma quale febbre! La febbre! Sempre co’ sta febbre, e i dolori articolari, e la supercazzola.
L’unica donna che una volta al mese sviene per le mestruazioni, e dai!
Senti, fai come ti pare, adesso ti metto la borsetta dei medicinali vicino, l’acqua, e prendi quello che ti pare. Io vado, Bruce Springsteen non aspetta me, non so se te ricordi che fine ha fatto Freddie Mercury.
Se, vabbè, ciao!
– Ahò, Giulia…shhhh, so’ io. Sei pronta? Quella tanto è in catalessi, che t’avevo detto? Almeno stavolta a fa’ la rompicojoni c’avemo guadagnato. Me raccomando, niente profumo eh!? che nun me va de famme la doccia quando torno. –

6. Domenica siamo a pranzo dai miei
Prima

Non osavo chiedertelo, tesoro. Non so, sarà che quando mi hai presentato mi hanno trattato così bene, io avevo paura che mi giudicassero perché vengo da un quartiere popolare, e invece tua madre carinissima, ha preparato le lasagne, le fettine panate, i carciofi, le zeppole, il tiramisu, gli amaretti e anche la grappa distillata da zio Pasqualino.
Ma no, non ho mangiato troppo, al massimo farò una corsetta dopo pranzo, se fa il pranzo dell’altra volta vale la pena fare un piccolo sacrificio dopo.
Che dici, a tua madre piacciono le gerbere? No perché mi sembrava che le rose…ah è allergica!? O povera. allora dai, prendo delle paste, così nessuno sta male.
Anche tuo padre, caruccio, per non farmi sentire a disagio mi ha detto che lui ama la periferia, soprattutto perché sono tutti della Roma come lui. Vabbè, dai, ma ti pare che gli vado a dire che sono della Lazio, è stato così carino, abbiamo visto la partita insieme, per fortuna che faccio il fantacalcio e qualche giocatore della Roma lo conosco. Purtroppo l’inno non l’ho cantato, mi guardava strano, ma per fortuna l’apparato digerente ha richiesto la mia attenzione e così ho evitato di metterlo a disagio.
Ahaha nooo, ma figurati se tuo nipote mi ha disturbato mentre facevo la cacca! Un ragazzino così simpatico e sveglio, poi tua sorella lo ha sgridato, eh!?
Dai, non vedo l’ora che sia domenica di nuovo!
A proposito, ma sai se la Roma gioca di nuovo alle ore di pranzo? Magari potremmo andare a cena…

Dopo
Domenica gioca la Lazio, ho già preso i biglietti.
No guarda, se me nomini di nuovo il tiramisù vomito, basta co’ sto tiramisu, che ho dovuto fa’ na cura per colesterolo solo pe’ colpa de tu madre.
Senti, ce vai te, je dici che purtroppo infatti ho avuto un impegno de lavoro e basta.
A Sa’, ma so’ vent’anni che me porti a pranzo da tu’ madre tutte le domeniche, me sarei pure rotto li cojoni, che dici?
Ah sì? tu’ nipote non riesce a passa’ l’esame de Analisi e vuole che lo aiuto?
Sai che c’è? Poteva strilla’ Forza Lazio quando je l’ho chiesto, invece de risponne “a zì, mavvaffanculo va”.
Lazio 1 – Analisi 0

7. Questo vestito mi ingrassa
Prima

Ma amore! ma che dici? ma assolutamente no!? a parte che sei un giunco, bellissima, sottile, flessuosa, e niente potrà mai farti sembrare grassa, ma questo vestito in particolare ti sta da dio. Guardati, guardati allo specchio, dai mettiti di profilo, vedi? Perfettamente liscio, il seno appena accennato, niente pancia. Girati adesso, guarda, da dietro è perfetto, ti fa un gran bel c…scusa scusa, non volevo essere volgare, ma insomma sei meravigliosa e io ti adoro.

Dopo
Vero.

8. Com’è venuta la carbonara?
Prima

Mmm. zz..cs..ft…ah scusa, avevo la bocca piena. Incredibile, eccezionale, guarda di carbonare ne ho mangiate eh!? ma questa…senti dammene un altro po’, lo so che sono a dieta ma non posso resistere.
Questa tua versione apocrifa è da stella Michelin. No! Aspetta! Non mi dire cosa ci hai messo! Voglio indovinare. La pancetta l’hai sostituita con la salsiccia, e questo è chiaro, tra l’altro è un’idea fantastica. Poi credo di sentire spezie orientali…tipo cumino…curry dolce…ci ho azzeccato? Accidenti! Ce l’avevo sulla punta della lingua! L’anice. Ecco il tocco di classe, l’anice. Meravigliosa la tua carbonara amore!

Dopo
Du’ gocce de Plasil e è perfetta.

9. Lo sai che sono allergica alle rose
Prima

Oh amore, quanto mi dispiace! Avevo preso 24 rose rosse a gambo lungo per festeggiare il nostro primo mesiversario, ma non sapevo di questa tu allergia, scusami tanto.
Vorrà dire che domani quando vado a trovare mamma a Prima Porta…nononono non ci pensavo neanche! Figurati se metto a mamma le tue rose, non mi verrebbe mai in mente.
Volevo solo dire che quando vado a trovare mamma, per lei prendo dei crisantemi, che le piacevano tanto anche da viva, e a te un fascio di gerbere multicolore, che ne dici?
Anche le gerbere.
Capito. Compro un pandoro?

Dopo
Non sono per te.

10. Domenica sono in ritiro spirituale con Don Silvio
Prima

Ti spiace se vengo anche io? Lo so, non sono neanche battezzato, ma questo tuo entusiasmo per la fede mi ha fatto pensare, voglio provare a capire meglio, e poi lo sai, io desidero che il nostro rapporto non sia solo fisico ma anche spirituale. Certo, amore, so bene che il lato fisico del nostro rapporto si inizierà dopo il matrimonio, è per questo che ora non posso non esserti vicino mentre purifichi la tua anima.
Verrò con te, se tu lo vorrai, e ti starò vicino tutto il tempo.
Ma certo, io dormirò in un’altra stanza, ci mancherebbe.

Dopo
– Giulia? Ciao. Via libera, il week end lo passa in ritiro. Ho preso la frusta e le manette, ma non ti dimenticare il guinzaglio stavolta, eh!? –

Il campione e il bambino

A Natale mi piace di solito scrivere delle storie.
Quest’anno ne racconto una vera. Parla di un grande uomo, e di un piccolo bambino malato.

Nel 1972 Muhammad Ali fece costruire a Deer Lake in Pennsylvania un training camp costituito da decine di edifici di legno, all’interno del quale si allenava, invitava gli amici, portava i genitori a cucinare, era insomma il luogo dove poteva avere una vita normale o quasi, e dove continuare ad allenarsi insieme a tutta la sua famiglia.
Dopo un po’ tutti sapevano che the Champ si allenava lì, fu anche messo un biglietto da un dollaro per seguire i suoi esercizi, cosicché a bordo del ring dove faticava e dove spesso girava interviste c’erano sempre decine di persone.
Anche le celebrità andavano a trovarlo: fu famosa una foto di Tom Jones che lo mette KO, ovviamente costruita, che però per qualche tempo fu data per vera e preoccupò non poco i fan di Ali.
Nel 1974 Ali si stava preparando per il match con Foreman. Era maggio, faceva caldissimo, e il campione sudava.
Ad un certo punto il suo manager, Gene Kilroy, gli dice che c’è un bambino con il padre che vorrebbe salutarlo.
Se c’è una cosa che ha reso grande Muhammad Ali era la sua amabilità verso chiunque: amava veramente le persone, e non si tirava mai indietro.
Scese dal ring e andò a salutare questo ragazzino. Quando lo vide, emaciato, magrissimo, con un bastone e un cappello di lana gli chiese:
– Perché porti un cappello, con questo caldo? –
Jimmy – il ragazzino – rispose:
– Perché ho la leucemia, sto facendo la chemio e ho perso tutti i capelli. –
Ali fece una foto con il ragazzino, poi glie la diede autografata e lo abbracciò, e gli sussurrò all’orecchio:
– Io batterò George Foreman e tu batterai il cancro, te lo prometto. –
Il ragazzino andò via felice.
Dopo due settimane il padre di Jimmy telefonò a Kilroy, gli disse che il ragazzino era in ospedale e che le cose non andavano bene.
Kilroy, che era solito correre con Ali la mattina, lo disse al campione prima dell’allenamento.
Ali si fermò e disse:
– Corriamo un po’ poi ci facciamo la doccia e andiamo a trovarlo. –
Dopo il breve allenamento salirono in macchina e dopo due ore arrivarono all’ospedale.
Jimmy stava veramente male, Ali lo abbracciò di nuovo e quasi lo rimproverò:
– Che ti avevo detto? Io sconfiggerò George Foreman e tu sconfiggerai il cancro. –
Il ragazzino era felice di vederlo.
Diede un pugno ad Ali, come fosse un pugile e gli rispose:
– No. Io andrò da Dio e gli dirò che Muhammad Ali è mio amico. –
Durante il viaggio di ritorno verso Deer Lake Ali non disse una parola, cosa per lui quasi impossibile.
Una settimana dopo Jimmy morì.
Ali non se la sentì di andare al funerale, ci andò il suo manager e vide che accanto al bambino, nella bara, c’era la foto che gli aveva autografato Ali.
Il 30 ottobre del 1974 Ali schiantò George Foreman e tenne fede alla promessa che aveva fatto a Jimmy.
Non sappiamo se Jimmy tenne fede alla sua, e abbia detto o no a Dio che Muhammad Ali era suo amico, ma a me piace pensare di sì.

Una lettera per mamma

Lo so, lo so, e so che lo sai anche tu: non mi sono ricordato l’anniversario della tua morte.
E’ il primo anno che non lo ricordo, e questa non è una giustificazione, ma sto diventando vecchio anche io, tra non molto avrò la stessa età di quando te ne sei andata; non possiamo farci niente, sai; la vecchiaia è una coperta ogni giorno più corta, e passiamo la nostra giornata a tirarla da una parte e dall’altra, cercando di non sentire troppo freddo.
Sono passati diciotto anni, ci pensi? I bambini nati quel giorno ora sono degli adulti, hanno festeggiato la maggiore età e passeranno il primo Capodanno da grandi. I nostri ragazzi del ’99, un altro ’99 ma per me molto più importante.
Se ti può consolare non ricordo niente di quei giorni, non ricordo dove fossi io QUEL Capodanno, non ricordo cosa ho fatto quei giorni, con chi sono stato; con la mia famiglia, certo, ma nessun dettaglio.
E’ come se quell’evento abbia spento la mia testa per un po’.
Ricordo solo un altro episodio analogo nella mia vita, quando mi spezzai una gamba in un incidente stradale: il mio cervello conserva perfettamente tutti i ricordi fino ad un istante prima dell’impatto, poi più niente.
Già, un meraviglioso meccanismo di salvaguardia, per evitare che un dolore così forte ci uccida o ci faccia impazzire.
Però, sai, ricordo tutto il resto.
Ricordo le carezze, un po’ ruvide perché non eri tipo da smancerie, e anche gli schiaffi, quanti ne ho presi e quanti me ne sono meritati.
Ricordo le vacanze al mare, che passavi immobile sotto il sole per riposarti dopo i mesi in cui ti alzavi alle 4 per lavorare ore e ore.
Ricordo di quando sei stata male, un sacco di volte, e ogni volta ti rialzavi come se niente fosse.
Ricordo infiniti viaggi in macchina e che da quando presi la patente non volli più venire con te perché mi faceva paura come guidavi.
Ricordo lo sguardo di tenerezza e comprensione quando urlai che non volevo far sopprimere il nostro cane che era gravemente malato.
Ricordo quelle poche cose che sapevi cucinare, che però non ho più mangiato, mai più, così.
Ricordo l’ultimo abbraccio e l’ultima telefonata.
Ricordo le tue spoglie mortali e i tuoi capelli.
E dopo di te non mi ricordo più.



Piazzale Douhet

L’uomo che cammina lentamente sul vasto marciapiedi di cemento chiaro è giovane.
Un giovane adulto di quaranta anni o giù di lì che cammina così lentamente da sembrare quasi fermo; e ad un certo punto si ferma davvero, lo sguardo basso e le chiavi della macchina che saltano nervosamente da una mano all’altra.
Si sente stupido, è sicuro che venire qui è stata una pazzia, solo un romantico omaggio ai bei tempi andati, e che non valeva la pena di litigare con sua moglie per questo. Non proprio oggi.
Sente un rumore, alza lo sguardo: sono i camion della nettezza urbana che continuano a raccogliere i resti della nottata, pulendo le strade con le spazzole rotanti, mentre addetti in tenuta arancione spostano la spazzatura caduta in strada verso l’aspiratore.
Sono le 17.00 del 1 Gennaio 2000, e Roma sta dando il benvenuto al nuovo millennio con un bel sole tiepido che scende rapido dietro i palazzi, e una quantità inimmaginabile di immondizia per le strade.
L’emozione di varcare una soglia storica ha moltiplicato le vendite di fuochi d’artificio, coriandoli, birre, panettoni, regali inutili, e tutti i resti sono finiti per strada.
Questo giovane uomo non vive a Roma, anche se ci è nato e cresciuto: da molti anni ormai la sua vita è in Francia, lavora per una grande azienda e ha sposato una donna francese. Anche i suoi figli sono francesi, parlano male l’italiano e quando sono dai nonni romani è sempre una fatica farli dialogare, anche se l’affetto è tanto e sono sempre contenti di questa loro seconda patria lontana.
Per questa occasione speciale, il Capodanno del nuovo millennio, ha insistito lui per venire in Italia: nella battaglia silenziosa tra Roma e Parigi ha vinto la passione italica, quella voglia di stare insieme almeno una volta l’anno a cui non sappiamo rinunciare, questa consuetudine da tribù di paese che abbiamo nel sangue, e alla fine non è stato difficile vincere le ultime resistenze della moglie.
Hanno passato il Natale a Parigi, poi sono scesi a Roma; sono stati giorni intensi, belli, pieni di cose da fare per stare tutti insieme.
Fino a stamattina, quando ha comunicato a sua moglie che aveva un appuntamento e che ci sarebbe andato da solo.
Guarda distrattamente il cellulare mentre ripensa alla discussione, alla moglie che non capiva e a lui che non sapeva cosa dire.
In fondo, cosa avrebbe potuto raccontarle?
Che aveva un appuntamento con un po’ di gente, ma che non sapeva se qualcuno si sarebbe presentato?
Che era un appuntamento preso venti anni prima?
Che c’era solo una persona che sperava di incontrare?
Una pazzia, si ripete. Una vera pazzia.
E poi per l’ennesima volta torna a quei giorni.

Il Duemila.
Per un ragazzo di vent’anni il Duemila era lontano anni luce, un’epoca in cui – immaginava – sarebbe stato vecchio, un vecchio quarantenne.
Avrebbe valicato la soglia del millennio reggendosi sulle stampelle, chissà, o da anziano pensionato; così si vedeva in futuro, e sebbene fosse consapevole che i quarantenni erano giovani come lui, solo un po’ più riflessivi, chissà perché lui vedeva se stesso vent’anni dopo sull’orlo della vecchiaia.
Forse perché l’Università, l’inizio della sua vita adulta, era in qualche modo l’apoteosi della giovinezza, e tutto ciò che c’era oltre era chiaramente marchiato con “hic sunt leones” nella mappa della sua vita: la laurea era un traguardo finale, la chiusura della sua adolescenza; dopo ci sarebbe stato il lavoro, magari un matrimonio, dei figli, le responsabilità, e tutto ciò sarebbe stato l’inizio di un inarrestabile declino.
Con questa idea in testa, e con il Duemila lontano, viveva il presente al massimo delle sue forze.
A lezione di giorno, a studiare il pomeriggio e la sera, da qualche parte la notte, poche ore di sonno per volta, poi il campeggio, una ragazza, poi un’altra, poi il pallone, e la bici, e la montagna d’inverno, la band rock con gli amici del liceo. La sua vita era un magma continuo di emozioni, il presente lo avvolgeva stretto e non gli faceva guardare il futuro con chiarezza, ma non gli importava.
Ogni tanto sbirciava a dire il vero, e cercava di guardare il sé del Duemila, ma non gli piaceva quello che immaginava di diventare, e allora tornava al centro del suo personalissimo tornado.
Tutto bello, tutto intenso, tutto con passione e bravura.
Poi all’inizio del secondo semestre arrivò lei.
Entrò in aula alla prima lezione dopo la sessione invernale e il mondo si capovolse: il pavimento sopra la sua testa, il domani improvvisamente migliore dell’oggi, lo stomaco al posto del pancreas che si spostava dove prima c’era la milza, in un ballo che i suoi organi interni fecero, irrequieti, prima che il cuore gli comunicasse che aveva intenzione di fermarsi.
Non fu l’unico, certo, a rimanere colpito da questa ragazzina smilza, con i capelli vagamente rossastri, senza trucco sugli occhi verdi e con un paio di libri tenuti stretti ad un seno inesistente.
Ma fu lui che scelse di darle tutto, subito, senza difesa.
E non le aveva ancora parlato.
Dopo un mese erano là, sui gradini bianchi dell’Università.
Non parlavano, non c’era molto da dire, guardavano qualche pesce che faceva avanti e indietro nella vasca di marmo sotto al monumento. Improvvisamente, al termine di un lungo ragionamento, lei disse solo:
– No. –
Lui annuì.
– No. – ripetè.
– No. – disse di nuovo. E poi aggiunse. – E perché? –
Se fosse stato più adulto avrebbe saputo che non c’è mai un perché, o forse ce ne sono così tanti che è inutile chiederlo, che il fatto stesso di fare quella domanda è una sconfitta per sempre, che solo nelle favole il cavaliere combatte per la sua dama e alla fine la conquista in punta di lancia.
Nella vita reale gli esseri umani si danno e si prendono subito, non dopo un secondo, una settimana, o venti anni.
– Lo sai perché. – disse lei – Ma se vuoi te lo ripeto. –
Lui non replicò, attese.
– Perché sono qui solo per un semestre, perché questa estate mi trasferisco negli Stati Uniti, sono iscritta a Stanford, mio padre lavorerà là e questo è solo un periodo che ho voluto fare qui prima di andarmene definitivamente dall’Italia e da Roma, perché dopo dieci anni passati a girare per l’Italia abbiamo la possibilità di fermarci in un posto, e perché tra due mesi non ti ricorderai più di me, e io di te, e tutto questo non avrà più senso. –
Se c’è una cosa di cui si sarebbe sempre pentito è di non aver urlato, in quel momento.
Di non aver negato, di non aver affermato la sua verità, che era un’altra verità.
Di non aver avuto la forza di promettere, di implorare, di combattere.
Forse non lo fece perché lei aveva ragione.
O lui era troppo debole, o chissà.
Invece le chiese:
– Come ti vedi nel Duemila? –
Lei si girò a guardarlo negli occhi, divertita da quella domanda improvvisa e inaspettata.
Si strinse nelle spalle delicate.
– Non lo so, magari sarò una grassona americana con cinque figli, oppure mi sarò rifatta le tette. –
Lui rise.
– Effettivamente potrebbe essere utile. – disse.
Lei lo guardò con un sorriso ironico ma di rimprovero.
– Forse ho sbagliato a fartici mettere le mani allora. –
Voleva essere una battuta, ma vide che lui si incupì.
Gli si strinse al braccio e gli diede un bacio leggero sulla guancia.
– Solo le favole finiscono a lieto fine, lo sai. – gli sussurrò, mentre lui annuiva.
Alla fine lui saltò in piedi.
– Va bene! – disse con voce squillante. – Facciamo così: ci vediamo il 1 gennaio del 2000, alle cinque del pomeriggio, a Piazzale Douhet. E’ vicino alla fermata della Metro e ci si arriva facilmente; e poi là dietro ci sono un sacco di locali, c’è una birreria che sta lì da sempre, figurati se non ci sarà ancora nel Duemila. Ci vediamo lì così potrò vedere se sei diventata una grassona o se le tue tette saranno piatte come oggi. –
Lei abbassò il viso, rideva e piangeva, poi lo rialzò per guardarlo negli occhi.
– Ci sarò. – disse.

Negli anni che seguirono, tra cartoline sempre più rare e esami sempre più difficili Piazzale Douhet era rimasta una costante.
Prese l’abitudine un po’ folle di dare appuntamento il 1 Gennaio 2000 alle cinque del pomeriggio a Roma, Piazzale Douhet.
– Se ci perdiamo di vista, ci troviamo là. – diceva ignorando qualche sguardo ironico.
In fondo in un mondo senza cellulari e senza email un appuntamento al Duemila gli sembrava la cosa più ragionevole da fare.
Poi ad un certo punto era diventato grande sul serio, era andato in Francia, si era sposato, i suoi amici francesi non conoscevano Roma e tantomeno Piazzale Douhet, e aveva smesso di dare appuntamento a tutti, e anzi se ne era praticamente dimenticato.
Fino a qualche settimana prima, quando il Duemila era ormai alle porte.
Sua moglie gli aveva chiesto:
– Come ti vedevi tu nel Duemila quando eri ragazzo? –
La guardò con la bocca spalancata.
Come mi vedevo.
Con lei.
Vent’anni fa io mi vedevo con lei.
E basta.

Ora è appoggiato alla vetrina di un supermercato, con le mani su un carrello per tenersi.
Non ha la forza di andare avanti, perché sa che è stata una grande, inutile stupidaggine.
Tutto quanto. Quegli inviti ridicoli, quella speranza, questo momento qua.
Chissà cosa credeva, in tutti questi anni, che il futuro fosse un’autostrada in cui ci si potesse dare appuntamento a qualche casello.
Non sa neanche se le persone a cui lo aveva detto fossero ancora vive, figuriamoci ricordarsi di una stupidaggine del genere.
Eppure in qualche meandro del suo cervello questo appuntamento era sempre presente: ogni tanto gli balenava l’immagine di tutti gli amici che aveva conosciuto che si incontravano quel giorno, a festeggiare una rinnovata promessa di affetto per il nuovo millennio.
Scuote la testa e diventa rosso, si vergogna da solo di quello che sta facendo, ma per fortuna non c’è nessuno che guarda questo giovane uomo imbarazzato.
Si rimette in piedi, si stringe la sciarpa e lascia la sicurezza del carrello.
Piazzale Douhet è un una slabbratura su Via Laurentina e non la si vede finché non ci si finisce dentro: i palazzi e gli alberi chiudono alla vista questo piccolo piazzale, con le fermate degli autobus, un ristorante e dei portici stile ventennio.
Gli angoli della piazza sono appoggiati a dei palazzi di marmo bianco squadrati, e lui può nascondersi fino all’ultimo secondo; poi gira, e si ferma.
Guarda il piazzale da lontano, tutto insieme.
E’ spopolato, sono pochissime le macchine che circolano; autobus nessuno, qualche mezzo della nettezza urbana, qualcuno che va a piedi chissà dove.
Guarda di nuovo: non c’è nessuno.
In fondo è sollevato, chissà se si fosse presentato qualcuno a cui aveva dato appuntamento anni prima, che imbarazzo: dei cretini che dopo dieci o venti anni si ritrovano dall’altra parte della macchina del tempo senza sapere bene cosa dirsi o perché sono venuti in questo posto sperduto.
Comincia a camminare piano lungo un lato della piazza, ha deciso che la girerà tutta e poi tornerà alla macchina e alla sua vita razionale di sempre.
In fondo al primo lato iniziano i portici, li imbocca, gira a novanta gradi per percorrere il lato lungo della piazza, e lei è là.
Magra, un cappotto nero dritto, una sciarpa rossa al collo – di sicuro un regalo di Natale – i capelli sempre vagamente rossi, gli occhi sempre di un verde scurissimo, la pelle chiara.
E’ là.
Sa già che passerà il resto della sua vita a cercare di descrivere con le parole quello che sta attraversando in quel momento, senza riuscirci.
Chiude un attimo gli occhi perché non vuole che la vista lo inganni, vuole che l’emozione marchi a fuoco il suo corpo e le sue viscere, per tirarla fuori a piacimento negli anni a venire.
Lei è là e gli sorride, i capelli ondulati di una giovane madonna, il viso inclinato e le braccia strette intorno al cappotto, per il freddo e l’emozione.
Quando riesce a mettere in moto le gambe le si avvicina e poi si ferma quando può finalmente vedere ogni millimetro del suo viso.
– Ti ho detto che sarei venuta. –
Annuisce, non può parlare.
– Non è stato facile, e forse neanche giusto. – continua lei. – Forse avevi ragione tu, se sono qui è perché avevi ragione. –
Lui annuisce, mentre piange.
– Ma ormai è fatta, non possiamo tornare indietro. Siamo andati avanti, e abbiamo fatto bene, sei sempre il ragazzo di venti anni fa, mi piaci un sacco, ma hai una fede al dito, e anche io. Però sono venuta lo stesso, per dirti che mi dispiace, avevi ragione. –
– Lo so. – riesce a farfugliare lui.
– Mi potrai perdonare mai? – gli chiede mentre gli appoggia una mano sul viso per asciugare le lacrime.
Lui la guarda.
– Perdonarti di essere qui, oggi? Di essere la donna della mia vita? Di avere dato un senso a venti anni di attesa? Sì, posso perdonarti. –
Lei gli si butta addosso, lo abbraccia, lui la tiene stretta.
Sono cinque minuti, cinque minuti di amore per venti anni di attesa, cinque minuti di passione per venti anni di pazzia, cinque minuti di tutto per venti anni di niente.
– Non te le sei rifatte le tette, lo sento. – le sussurra mentre le carezza la nuca.
Lei ride, tra le lacrime.
– Volevo vedere se te ne accorgevi. –
Allora ridono, ridono come pazzi, come quei pazzi che sono, ridono come due ragazzi al secondo semestre, come vent’anni fa.
Lei gli prende la mano.
– Devo andare. –
Lui annuisce, lo sa, anche lui deve andare.
In punta di piedi, come venti anni fa, un leggero bacio sulle labbra. Poi fa per andarsene, ma lui la blocca.
– Non aspetterò altri venti anni. –
Lei si ferma, lo guarda intensamente.
Cerca di capire cosa ci sia rimasto di quel ragazzo di venti anni fa dentro di lui, e cosa ci sarà tra venti anni.
Si avvicina di nuovo.
Gli afferra la camicia con le mani, si morde le labbra, gli tira su il colletto fino al mento, lo guarda con gli occhi in fiamme e i denti stretti.
– Non aspetterai altri venti anni. Ci ho messo venti anni a capire che avevo torto, mi servono venti anni della tua vita per farmi perdonare. –
Va via senza voltarsi, ma stavolta lui non è triste.
Quando non la vede più si gira a guardare la piazza.
Piazzale Douhet, torno presto.

8 Ottobre 1962

L’uomo che si tiene appoggiato al muro per non cadere non è debole, tutt’altro.
A sessantacinque anni è in un’età per cui suo padre sarebbe stato definito anziano, suo nonno vecchio, e suo bisnonno forse non ci sarebbe neanche arrivato vivo; ma lui no: è un bell’uomo maturo, un fisico importante solo leggermente appesantito dalla buona cucina e dal vino caloroso delle sue parti.
Ha i capelli brizzolati, ma i neri e i bianchi sono assurdamente intensi, fili che si intrecciano e raggruppano senza sosta come onde bianche e nere in un oceano senza colore.
La barba invece è tutta bianca, curatissima, e fa da cornice a due occhi celesti intensi come solo al sud si possono trovare.
Ma quest’uomo imponente oggi è debole e non riesce più a camminare.
La donna che gli è vicino, piccola, magra, una signora bella e curata, lo guarda con preoccupazione e tenerezza e gli tiene una mano sul braccio, non per dargli sostegno ma solidarietà.
Fino a qualche minuto prima erano seduti in un bar in fondo a Via Cavour, e ci sono rimasti a lungo.
Roma in ottobre è un luogo magnifico, all’aperto anche di più: il caldo non è asfissiante, la brezza rinfrescante, le nuvole corrono veloci e aiutano a sopportare i raggi del sole a mezzogiorno, per poi disperdersi la sera in un tramonto rosa pallido che ha dell’incredibile.
Sono turisti, così si definiscono, ma hanno anche una missione da compiere.
Sono rimasti in quel bar a bere e a chiacchierare per ore. Ore e ore. Ogni tanto guardano verso i Fori e intravedono lo stradone lastricato di fronte a loro.
Sono poche centinaia di metri, forse solo decine, e sanno che quando finalmente avranno la forza di alzarsi e andare in quella direzione, alla loro sinistra il Colosseo esploderà alla loro vista.
Ma non ce la fanno, non subito. Prendono un altro caffè, poi un altro, poi una bibita.
E poi infine lei lo guarda dritto negli occhi.
Lo vede, che ha paura, lo sente; ma non vuole che questa paura la contagi, lo vuole aiutare.
– Andiamo? – gli dice.
Lui annuisce, e senza una parola si alza e si avvia.
Camminano così, mano nella mano, lentamente: quest’uomo imponente, di matura bellezza, e la sua minuta moglie.
Camminano in silenzio, sempre più piano.
Quando arrivano all’angolo lui gira la testa a destra e vede in lontananza Piazza Venezia, con la colonna di Traiano, poi il Vittoriano con i suoi cavalli alati.
Rimane così per un minuto, finché lei gli tocca il braccio.
Lui si gira e non lo vede, non ha coraggio di guardarlo, ma ne intuisce la maestosità.
Il Colosseo.
E’ in quel momento che le gambe gli cedono, si appoggia al muro, chiude gli occhi e piange, mentre la moglie lo carezza e lo guarda con un amore e una tristezza inifiniti.
Chiude gli occhi, l’uomo, ma l’immagine di quel monumento ce l’ha stampata sulla retina, sempre la stessa immagine, lo stesso luogo, anni e anni e anni fa.

Era solo un bambino, avrà avuto dieci anni, forse nemmeno.
Non era mai stato a Roma, ma se è per questo non era mai stato da nessuna parte.
Aveva passato la sua infanzia in un paesino sulle Madonie, giocando sempre con gli stessi compagni, comprando il pane nello stesso negozio, andando sempre nella stessa, unica scuola.
Un giorno sarebbe diventato un ingegnere, avrebbe costruito bellissimi palazzi, ma ora era solo il figlio del sarto, e a malapena aveva visitato Palermo, accompagnando il padre quando andava a comprare le stoffe nei giorni in cui la scuola era chiusa.
Poi venne il suo compleanno, e i genitori gli mostrarono dei biglietti: erano il traghetto per Napoli e poi il treno per Roma.
Pianse, rise, urlò, fece salti e capriole, la ruota, insomma tutto il repertorio del bambino felice.
Roma! Da quando aveva studiato la storia di Roma era rimasto innamorato dei racconti sui Re e gli Imperatori, Giulio Cesare e Augusto, Caligola il pazzo, Nerone il persecutore di cristiani.
E poi il Circo Massimo, Caracalla, la Bocca della Verità.
E il Colosseo.
Più di qualsiasi altra cosa nella vita questo bambino che un giorno sarebbe diventato ingegnere voleva vedere il Colosseo.
Fu grande la delusione quando finalmente arrivarono a Roma, una mattina di ottobre, caldo e delicato come questo, e i genitori gli dissero che no, non poteva andare subito a vedere il Colosseo.
Erano stanchi, avevano passato la notte in traghetto, poi avevano preso il treno; infine erano arrivati in albergo ma era presto: la stanza non era pronta ma potevano accomodarsi sui divani, gli aveva detto il titolare dell’hotel, che in realtà era poco più di una pensione.
E così i due adulti si erano addormentati, e lui era rimasto con il viso incollato alla finestra: lo vedeva da lontano, ne vedeva un pezzetto, ma voleva vederlo tutto.
Entrare, girare nelle gabbie dove tenevano i leoni, salire i gradini dove migliaia e migliaia di spettatori urlavano alla vista del sangue.
Poi voleva vedere i tunnel da dove entravano i gladiatori, immaginare il suolo ricoperto di terra dove combattevano schiavi all’ultimo sangue, lo scranno dell’Imperatore che poteva decidere della vita e della morte degli atleti con un solo gesto della mano.
Voleva vedere tutto questo, e non poteva resistere.
Guardò i genitori: dormivano profondamente, appoggiati sul divano della hall.
Guardò la porta.
Guardò l’uomo alla reception, che era impegnato a fare dei conti.
Fu un attimo: aprì la porta e uscì.
Torno tra cinque minuti, si disse, nessuno se ne accorgerà.
Corse in direzione del Colosseo, e dopo pochi minuti si trovò su Via dei Fori Imperiali, nello stesso punto in cui cinquantacinque anni dopo si sarebbe fermato per appoggiarsi al muro e permettere alle gambe di sorreggerlo.
Ma quel bambino non aveva bisogno di riposare, era pieno di vita e di passione, e continuò a camminare verso il Colosseo, ad ogni passo più grande. Lanciò uno sguardo dall’altra parte e vide i Fori Imperiali pieni di gente, il colonnato che degradava verso il Colosseo, le mura imponenti.
Fece qualche altro passo ma fu costretto a fermarsi: una mano lo aveva afferrato per un braccio.
Era un uomo. Un uomo brutto. I suoi vestiti erano in ordine e i capelli puliti, ma gli occhi no, quelli erano sporchi.
Erano occhi che non gli piacevano; tentò di divincolarsi ma l’uomo lo strinse ancora di più.
– Dove vai ragazzi’? sei da solo? mamma dove l’hai lasciata? –
Erano domande, ma non volevano risposte.
– Vado a vedere il Colosseo… – tentò di dire flebilmente.
L’uomo rise.
Una risata che non avrebbe mai più dimenticato, la risata del demonio, se ma ce n’era stato uno in terra.
– Io penso che tu invece verrai con me oggi. – disse mentre lo trascinava verso un angolo della strada, svelto, verso un arco che dava su una stradina nascosta alla vista dei tanti turisti.
Mentre con la mano teneva il ragazzino, con l’altra si sbottonava la patta dei pantaloni.
Era rapido, l’uomo, ma il ragazzino cercò di fare resistenza, provò a tirare il braccio, poi a dargli un calcio, e infine urlò:
– Lasciami!! –
L’uomo lo guardò con odio poi gli mollò un ceffone sonoro che gli fece istantaneamente sanguinare il naso e disse ad alta voce:
– Ti faccio vedere io come devi rispondere a tuo padre! –
Nessuno, cinquantacinque anni fa, avrebbe mai contestato l’autorità paterna, e nessuno avrebbe criticato un padre che dava un ceffone al figlio.
E quindi nessuno dei turisti che passeggiavano per via dei Fori Imperiali ritenne di doversi fermare; qualcuno guardò la scena distrattamente, qualcun altro pensò forse che l’uomo stava esagerando, ma nessuno intervenne.
Il ragazzino era disperato, e piangeva adesso, mentre l’uomo gli metteva una mano sulla bocca e lo tirava verso il vicolo.
La testa del bambino si muoveva convulsamente, ma la mano che gli chiudeva la bocca era forte, più forte di lui.
Ad un certo punto lo sguardo del bambino vagò, e mentre i piedi perdevano il contatto con il suolo, gli occhi si bloccarono sullo sguardo di un uomo.
Era un uomo giovane, era vestito bene, con un completo scuro, una camicia bianca e una cravatta chiara da cerimonia.
Teneva per mano una bella ragazza con i capelli rosso scuro, vestita di bianco e con un mazzo di fiori in mano.
Sorrideva la donna, era felice.
Così come le altre persone che affiancavano i due: degli anziani, altri giovani, un bambino piccolo accovacciato davanti; tutti eleganti davanti ad una chiesa, di fronte un uomo chinato con in mano una macchina fotografica.
Tutti sorridenti, tutti felici, tutti presi dal momento.
Tranne il giovane uomo, che guardava la scena dall’altra parte della strada.
Guardava il bambino, afferrato per un braccio e con una mano sulla bocca, e poi l’uomo brutto, e poi gli occhi del bambino.
Fu un attimo.
Lasciò la mano della sposa e attraversò la strada, rapidamente, mentre tutti gli altri lo guardavano stupiti, lo chiamavano ad alta voce e la sposa si guardava intorno un po’spaesata.
Il giovane uomo ignorò i richiami e si avvicinò a quella coppia improbabile.
Fece un sorriso, ma si capiva che non era un sorriso gentile, era più un modo per poter parlare.
– Come va? – chiese guardando l’uomo negli occhi.
L’uomo brutto sorrise a sua volta, ma il suo era un sorriso con i denti serrati.
– Sto spiegando a mio figlio che non si risponde male ai genitori. –
Il giovane sposo annuì. Non era convinto, ma anche lui come gli altri non si sarebbe intromesso, normalmente.
Sarebbe andato via: in fondo lo aspettavano impazienti per finire il rito delle foto, ma vide negli occhi del bambino qualcosa che non gli permetteva di allontanarsi.
Era paura, certo, la paura di una punizione, forse, ma non solo.
Spostò lo sguardo verso l’altro uomo e poi vide: la patta dei pantaloni era aperta.
Alzò lo sguardo e gli occhi si incontrarono con quelli cattivi dell’altro, che diventò rosso, cominciò a farfugliare, e allentò leggermente la presa sul ragazzino.
Lui riuscì a togliere la bocca da sotto la mano dell’uomo e ad urlare:
– Non è mio padre!!! –
In un momento cambiò tutto.
Il giovane sposo mise una mano sul braccio dell’uomo e lo strinse forte, così forte da costringerlo a mollare la presa.
Il bambino scappò, lontano, lontano dal Colosseo, lontano da quell’uomo, lontano da Roma.
Corse finché non sbatté sul petto di un Carabiniere, che lo abbracciò mentre piangeva, gli comprò delle caramelle e poi lo aiutò a tornare dai suoi genitori.
L’uomo rimase sotto la presa dello sposo, mentre un poliziotto si avvicinava attratto dalla scena, vide quella brutta persona, la riconobbe come una vecchia e laida conoscenza e lo portò via.
Lo sposo, rimasto solo, mise le mani in tasca e alzò gli occhi verso il cielo.
Poi finalmente li abbassò verso la sposa che lo prendeva in giro dall’altra parte della strada, facendogli ciao con la mano.
Le sorrise, attraversò, e si andò a mettere vicino a lei dove sarebbe rimasto per sempre, in una foto in bianco e nero.

L’uomo con i capelli striati di bianco e di nero è ancora appoggiato al muro.
Ha passato cinquantacinque anni in attesa di avere il coraggio di tornare qui, e ora pensa di non farcela.
Pensa che tornerà indietro, che continuerà a nascondere il momento più brutto della sua vita nello scantinato della memoria, a ricacciarlo indietro ogni volta che tenterà di affiorare alla coscienza.
Ma resiste. Resiste ancora.
Pensa a quell’uomo, al giovane sposo che ha lasciato la sua sposa dai capelli rossi per salvarlo da un demonio.
Pensa che deve a lui, se non a se stesso, il coraggio di attraversare la stessa strada, di guardare la vita negli occhi, anche la parte più brutta.
Lentamente stacca la mano dal muro e abbandona il braccio lungo il corpo.
Rimette la schiena eretta, per ultimo alza la testa e apre gli occhi, quegli occhi di un celeste così intenso che anche un orco ne è stato attratto.
Guarda il Colosseo, per la seconda volta nella sua vita: è bello, è proprio come lo sognava da bambino.
Non trattiene più le lacrime e la donna lo abbraccia: gli tiene il cuore con una mano e gli mette l’altra sulla nuca, lo accarezza leggermente, come fa da quasi quaranta anni.
L’uomo si curva e usa il collo della moglie per appoggiare le labbra e depositare le lacrime.
Alla fine si tira su, la guarda negli occhi:
– Chissà…-
Lei sorride.
– Se è ancora vivo? –
Lui annuisce.
Lei si stringe nelle spalle.
– Andiamo. – gli dice – Torneremo domani, e tutti i giorni. Il Colosseo lo troveremo ancora qua, vedrai. –


All’anulare della mano sinistra porto una fede che era di mio padre e prima di lui di mio nonno e di mio bisnonno.
All’interno sono incise due date: quella del mio matrimonio, e un’altra, per me forse più importante.
Otto ottobre millenovecentosessantadue.
Questo racconto è dedicato al giovane uomo e alla giovane donna dai capelli rossi che quel giorno uscivano felici da una chiesa.
Vicino al Colosseo.


Le Grandi Recensioni di Rolandfan

La ragazza della nebbia – di Donato Carrisi, con Toni Servillo

Trama del film
In un paesino di montagna si aggira Toni Servillo nei panni di un agente di Polizia.
Toni Servillo indaga.
Toni Servillo passeggia.
Toni Servillo gira intorno ad un tavolo neanche fosse il tempietto del Bramante.
Toni Servillo ammicca.
Toni Servillo sorride.
Toni Servillo urla.
Toni Servillo servilla.

Giudizio della critica
In Italia si possono fare tre tipi di film: impegnato/drammatico, brillante, comico.
Se vuoi fare un film impegnato devi chiamare Toni Servillo, se brillante Raoul Bova, se comico Checco Zalone.
Il film impegnato lo deve girare uno che è andato a scuola da Sergio Leone, grandi spazi, primi piani stretti, lunghi silenzi, musica intrigante, basta che ci sia Toni Servillo.
Il film brillante lo deve girare uno che vorrebbe essere Monicelli, molti personaggi atipici, dialetti strani, luoghi improbabili, basta che ci sia Raul Bova.
Il film comico è indifferente, basta che ci sia Checco Zalone.
La trama del film impegnato deve essere contorta, astrusa, possibilmente inesistente, ma l’importante è che ci sia Toni Servillo.
La trama del film brillante deve prevedere un contrattempo serio, una donna apparentemente inattaccabile, un finale lieto e divertente, basta che ci sia Raul Bova.
La trama del film comico è irrilevante, basta che ci sia Checco Zalone.

In questo film c’era Toni Servillo.

I colloqui

Mia figlia è in primo liceo.
Un momento importante, per lei e per noi genitori.
Sono andato ai primi colloqui insieme a mia moglie.
Ero emozionato, mia figlia diventa grande e io la seguo in questo percorso bellissimo e accidentato che è la vita.
Il liceo è in un bel quartiere, ha una storia lunga e prestigiosa.
Mi sono vestito bene, ci tenevo ad essere un genitore di cui un figlio non deve vergognarsi.
Ed eccoci, entrambi distinti, laureati, ascoltare i professori, fare domande, raccontare di noi e di nostra figlia, creare un legame, fare il nostro dovere.
Siamo usciti soddisfatti, eravamo stati bravi, e nostra figlia anche.
Ci siamo salutati, io ho preso lo scooter per andare in ufficio e ad un certo punto mi sono dovuto fermare: le lacrime non mi permettevano di andare avanti, non vedevo più niente.
A Porta Pia ho accostato e mi sono accasciato sul manubrio.
Avevo pensato a mia madre.
A quella donna ignorante – non per scelta ma perché aveva vissuto in un periodo infame – che prendeva la sua macchinina e veniva a scuola.
Sfacciata, a parlare con professori forse più altezzosi e meno preparati di oggi, e sentire resoconti di materie di cui non conosceva neanche l’abc.
Lei e la sua quinta elementare a fare i conti con un mondo per certi aspetti alieno, ma in cui si muoveva con una sola certezza: questo è mio figlio, questi sono i miei figli, ho combattuto e sofferto per loro, e loro faranno quello che io non ho potuto fare.
Me la ricordo, controllare sui libri parole che non capiva, mentre io ripetevo quello che avevo imparato.
Eppure funzionava, questa strana coppia: io che ripetevo le astrusità del liceo, e lei che leggeva e faceva l’unica cosa che sapeva fare, controllare che le parole fossero le stesse.
Lei era il mio libro, io la sua parola.
E quando mi sono laureato, la più grande gioia era vedere la sua soddisfazione, l’orgoglio di poter dire a tutti “mio figlio è laureato”.
Ho pianto perché avrei voluto poterla chiamare, e dirle “lo sai mamma, che Elena sta andando benissimo, che è brava, che ha la stima di tutti. Lo sai che è anche merito tuo, e delle ore passate a leggere libri che non capivi”.
Chissà se la perdonerò mai di essersene andata prima di averla conosciuta.
E per quanto io adori mia figlia un amore così, totale, puro, assoluto, vitale, non potrò mai eguagliarlo.

La telefonata

La mattina usciva di casa molto presto.
Odiava il traffico romano, e anche se le automobili in giro erano solo una frazione di quelle che sarebbero state in circolazione venti anni dopo, le strade erano tuttavia molto più strette: il raccordo a due corsie poteva diventare un incubo se solo ci fossero stati dei lavori in corso, o un incidente, o le due cose insieme.
Di solito si svegliava perciò verso le 6, beveva un caffè amaro che la moglie gli preparava con una vecchia moka, poi si lavava, si vestiva e alle 6.30 era già fuori.
Dal quartiere popolare di Roma dove abitava erano buoni 25 chilometri fino alla sua destinazione, un capannone industriale in mezzo a tanti altri sulla Tiburtina.
Di solito a quell’ora faceva il centro: all’epoca chiunque poteva passare in macchina per il centro di Roma, arrivare a Piazza di Spagna, percorrere tutta Via del Corso, girare per Piazza Venezia.
Il raccordo lo odiava, e lo prendeva solo nelle giornate di pioggia intensa, quando sapeva che i sampietrini sarebbero stati un rischio per le ruote piccole e instabili della sua seicento; e anche se qualche volta ci aveva messo anche due ore, preferiva essere sicuro di arrivare.
Di solito però percorreva la Colombo fino al centro e da lì proseguiva per le strade vicino alla stazione Termini.
Non di rado lungo il percorso rallentava la già non frenetica marcia della seicento per guardare da vicino le persone che come lui popolavano la città.
Spazzini non ancora operatori ecologici con la ramazza, autisti che portavano stancamente vecchi autobus verdi con bigliettai sonnecchianti, vecchie puttane che chiudevano baracca per andare a dormire chissà dove, baristi che alzavano la serranda per cominciare la giornata.
Gli era nata poi da tempo l’abitudine di fare una sosta in un vecchio bar allo scalo San Lorenzo.
Aveva delle sedie con la plastica colorata a strisce avvolta sullo scheletro di alluminio e dei vecchi tavolini di formica che non toglieva mai dalla strada, neanche la notte: d’altronde, chi li avrebbe mai potuti rubare?
Il bar era uno schifo a essere sinceri, ma il caffé era buono, i proprietari simpatici e alla cassa c’era fin dalle prime ore del mattino una signora piacente con delle zinne enormi, sempre sorridente e gioviale.
Una volta era anche riuscito a metterci sopra le mani, su quelle zinne, ma poi non aveva dato seguito alla cosa; nonostante ciò la signora gli sorrideva sempre, ma un po’ di meno.
Uscito dal bar accendeva una sigaretta appoggiato alla macchina, una marlboro dal sapore di catrame che gli scendeva nei polmoni svegliandolo più del caffè.
La fumava in silenzio con un gomito appoggiato all’altro braccio, e con quegli occhi socchiusi da fumatore incallito che rendono gli uomini vagamente più interessanti e le donne vagamente più sensuali.
Finita la sigaretta guardava il filtro con curiosità, come se sotto la cenere potesse esserci qualche sorpresa o segreto.
Ma non c’era mai niente, e ogni volta lo lanciava via con un gesto consumato delle dita, una schicchera affinata in anni e anni di vizio che gli permetteva talvolta a lanciare il mozzicone a distanze considerevoli.
Poi risaliva in macchina e percorreva gli ultimi chilometri più sveglio e attento di quanto non fosse prima di fermarsi al bar.
Arrivato al capannone parcheggiava la macchina in uno spazio riservato.
Non che ci fosse molta altra gente durante la giornata, a dire il vero.
L’edificio era adibito quasi completamente a magazzino, e ne usciva di quando in quando un camioncino con della merce imballata: abbigliamento, cancelleria, alimenti, non poteva dirlo e non gli interessava.
In cima al capannone, arrampicato ad una scala, c’era il suo ufficio: una stanza di 30 mq con il pavimento coperto di un vecchio linoleum nero puzzolente, e una scrivania.
Sulla scrivania, un telefono.
Vicino al telefono una poltroncina.
Niente altro.
Quella mattina come tutte le mattine guardò il suo ufficio, senza piacere ma senza astio, e posò a terra la borsa.
Si sedette sulla poltroncina e guardò il telefono.
Forse avrebbe squillato, ma non poteva saperlo. Non lo sapeva mai.
Attese qualche ora, rigirando un elastico tra le dita e fumando di tanto in tanto una sigaretta, poi quando il telefono suonò facendolo sobbalzare leggermente rispose al primo squillo.
– Pronto – disse solo.
Poi ascoltò.

Prese la borsa, una 48 ore di pelle scura, e la appoggiò sulla scrivania.
Aveva un manico robusto e due zip che tagliavano in due la borsa: poteva contenere tutto il necessario per l’ufficio, ma poteva essere aperta a libretto per poter inserire il necessario per una notte in albergo, un vestito di ricambio, il pigiama, una camicia.
Mentre apriva le zip fece una smorfia.
Una puttana.
Inclinò una spalla in un gesto istintivo che voleva significare un certo fastidio, poi spense la sigaretta che penzolava dalla bocca in un vecchio posacenere divorato dalle bruciature, che originariamente doveva riportare la marca di un’acqua minerale.
Tolse dalla borsa un’agenda, un portadocumenti, un astuccio per gli occhiali, il portabiglietti da visita, dei quaderni, e liberò la zip che dava accesso al doppio fondo.
La zip correva lungo tutto il perimetro interno della borsa e una volta liberato da una copertura di stoffa leggera il fondo della borsa rivelò degli scompartimenti ben ordinati, all’interno dei quali c’erano degli oggetti scuri tenuti fermi da grossi elastici neri.
Le puttane mi stanno simpatiche, pensava.
In fondo, questa era la sua idea, assolvevano un ruolo importante per la società, e facevano un mestiere che fin dai tempi dei romani era ritenuto dignitoso e utile, anche se ai margini della società borghese,
Anch’egli ogni tanto si lasciava andare al piacere di qualche incontro con una gentile battona di Tor di Quinto, che lo trattava quasi da amico tanto che in un paio di occasioni non lo aveva fatto pagare, ma lo aveva rincoglionito con i lamentosi racconti della sua famiglia disastrata.
Ma le puttane non erano tutte brave, sicuro. E ogni tanto facevano le furbe, e serviva una lezione: qualche schiaffone, niente di serio.
Poi però c’erano quelle che esageravano: rubavano sugli incassi, si innamoravano di un cliente, o addirittura volevano mollare perché avevano trovato un “lavoro onesto”.
Sorrise a questo pensiero, mentre slegava gli elastici.
E allora in questo caso finivano a lui.
Prese il caricatore, controllò che fosse pieno, e lo inserì con un colpo secco nell’impugnatura della pistola.
Si accertò che la canna non fosse ostruita, fece muovere piano avanti e indietro il binario, poi prese dalla borsa un cilindro metallico e lo avvitò gentilmente sulla bocca della pistola, fino a stringerlo con forza.
Le puttane avevano un bruttissimo difetto, lo aveva sperimentato lui stesso: erano aggressive.
Quella che aveva strangolato sulla Salaria per farlo sembrare un incidente lo aveva preso a calci e pugni, e mentre lui le stringeva le mani sul collo fino a farla soffocare con una delle sue unghie affilate era riuscita a fargli un segno sulla guancia e per poco non gli cavava un occhio.
Alla moglie aveva dovuto raccontare di essere finito in una rissa mentre prendeva una birra con i colleghi dopo il lavoro, e si era dovuto sorbire la sua ramanzina mentre gli disinfettava la ferita e glie la cauterizzava con l’allume di rocca.
Mai più, era stato chiarissimo: puttana uguale pistola, mai più a mani nude.
Guardò il silenziatore e annuì come per chiudere il dibattito con se stesso.
Appoggiò quindi la pistola sulla scrivania e si tolse la giacca.
Prese dalla borsa una fondina di pelle leggera, con delle bretelle scure e consunte e la indossò, stringendo poi la fibbia in modo che aderisse perfettamente al corpo.
Alzò e abbassò un paio di volte le braccia, se le strinse al copro, le agitò a destra e a sinistra, e quando fu soddisfatto del risultato infilò la pistola nella fondina e rimise la giacca, allacciandola sul davanti.
Poi richiuse la borsa, dopo aver rimesso dentro tutto, la lasciò appoggiata alla scrivania, e uscì.

L’indirizzo lo aveva imparato a memoria; si aiutò con un Tuttocittà che teneva sempre in macchina, sempre l’ultimo, il più aggiornato.
In ogni caso conosceva abbastanza bene la zona, un gruppo di palazzi sull’Anagnina che spiccava in lontananza anche dall’Appia, palazzi senza storia e senza qualità, giusto un posto dove poteva vivere una puttana.
Parcheggiò la macchina a qualche centinaio di metri, e si avviò con decisione ma con calma verso il portone.
Possedeva per scelta e per natura un aspetto distinto, nessuno gli chiese cosa stesse facendo in piedi davanti ad un portone, era abile a sembrare innocuo.
Finalmente una vecchia signora uscì dal portone ed egli ne approfittò per sgattaiolare dentro; lei gli diede un’occhiata rapida poi lo ignorò. Non avrebbe saputo riconoscerlo neanche se gli fosse tornato davanti, cosa che non aveva alcuna intenzione di fare.
Guardò la cassetta delle lettere per individuare l’appartamento, poi fece le scale silenziosamente e molto piano: non voleva arrivare in cima con il fiatone e fare qualche cazzata solo perché i suoi polmoni reclamavano più ossigeno.
Giunse su un pianerottolo da dove si aprivano tre porte, quella a destra era la sua. Il suo sguardo andò a terra, un tappetino da quattro soldi recitava “Welcome”. Sorrise per l’ironia, poi si immobilizzò per qualche minuto per percepire anche il minimo rumore dalle altre due porte.
Quando fu ragionevolmente sicuro che gli appartamenti fossero vuoti suonò alla porta, ed estrasse la pistola.
Chiuse gli occhi per un attimo, prese un grande respiro e fece un passo indietro.
Sentì i passi che si avvicinavano e la porta che si apriva.
Lei si affacciò per capire chi potesse suonare all’ora di pranzo. Forse pensava ad una vicina, o al postino, chissà, fatto sta che spalancò la porta e gli comparve davanti, mentre lui puntava il silenziatore al suo petto.
Fu così che riconobbe le zinne prima del viso, zinne che sbirciava tutte le mattine presto mentre pagava il suo caffè e su cui una volta aveva avuto il piacere di mettere le mani.
Zinne che adesso sobbalzavano fragorosamente in preda al panico, sormontate da due occhi spalancati per la paura e lo stupore.
E dietro, su un piccolo triciclo, un bambinetto di pochi anni che gli sorrideva curioso.
Fu un attimo, un solo lunghissimo attimo che dipinse a tinte nere le esistenze di tutti, come se un temporale improvviso avesse oscurato la luce del sole.
Poi i suoi occhi si posarono di nuovo su quelli della donna e sparò.
Una volta al cuore, poi quando lei fu a terra un colpo secco sulla fronte per chiudere la pratica.
Rimise la pistola nella fondina e senza girarsi scese le scale, sempre con calma ma un po’ più rapidamente di quando le aveva salite.
Uscì dal portone e si diresse verso la macchina, mise in moto e si avviò verso l’ufficio, e solo quando fu a un chilometro di distanza si rese conto che non respirava da diversi minuti.
Fermò la macchina e scese.
Vomitò bile e lacrime, tossì e pianse, poi si appoggiò al cofano per qualche secondo.
Quando pensò che le gambe lo avrebbero di nuovo sorretto si tirò su, rientrò in macchina, si puli la bocca con un fazzoletto e ripartì.

La mattina dopo uscì come al solito alle sei e mezza.
Scrutò il cielo: era limpido.
Restò un secondo con gli occhi a terra a fissare le scarpe sul marciapiedi, poi decise: avrebbe comunque preso il raccordo.

Il marketing della forchetta

Una volta gli esercizi commerciali di ristoro – bar, pizzerie, ristoranti, trattorie – almeno a Roma avevano un’insegna e un nome semplice.
In fondo una pizzeria è una pizzeria, e per distinguerla dalle altre, anche in una città densamente popolata come Roma, era sufficiente il nome del proprietario: da Giggi, Sora Lella, Checchino, Meo Patacca e così via.
In alternativa al nome si trovava spesso il soprannome, o il mestiere del “trattore”: al Pompiere, al Pescatore, er Bottaro, dar Poeta, etc.
Qualche volta il mestiere, o alcune specifiche caratteristiche note ma non ufficiali superavano in fama il nome del proprietario: da Marisa aa Vinara, dallo Zozzone, dallo sciancato, i Professionisti e così via (lo Zozzone a Circonvallazione Ostiense si puliva le mani sulla parannanza e faceva il conto con una penna sulla tovaglia di carta al volo, e poi la strappava e ti consegnava l’angoletto. Ma la pizza era gran bona…).
Caso di scuola eclatante, una famosa pizzeria trasteverina il cui nome è sconosciuto a tutti perché l’hanno sempre tutti chiamata “l’obitorio”, per via degli enormi tavoli di marmo grigio su cui venivano lanciate le pizze a velocità tale che se non le intercettavi te le trovavi per terra dall’altra parte.
La più seria alternativa al nome del proprietario era la zona o l’argomento.
Tralasciamo l’evergreen “Bar Sport” perché troppo usato, per ricordare i vari ar Montarozzo, la Sedia del Diavolo (che in realtà si chiamerebbe pomposamente “Ambasciata d’Abruzzo”, ma i romani hanno controllato e l’Abruzzo non è uno stato a sé, quindi il ristorante è stato derubricato a trattoria di quartiere), la Pariolina, e così via.
In realtà, in una città come Roma il quartiere e spesso la via non sono sufficienti a indicare con esattezza l’esercizio, ed ecco una mirabile combinazione di nomi e location, che creano anche una certa armonia ritmica che talvolta piace più della pizza che propinano: Checco allo Scapicollo, Bruno ai Quattro Venti, Giggetto al Portico d’Ottavia e così via.
Infine, i più sofisticati, i veri ripuliti, mettevano solo il cognome. Una specie di garanzia tipo “parola di Amadori”, che ha reso intramontabili alcuni spacciatori di cibo come Perilli, Piperno, Frontoni, Tornatora.

Poi, ad un certo punto, qualcuno ha cominciato a pensare che forse sarebbe stato utile indicare COSA si mangiava in questi posti. Che sì, vabbé, da Giggetto si sta bene, ma alla fine che se magna?
Ecco che timidamente cominciano a nascere i primi “Pizza e Birra”, che non è proprio una sorpresa visto che già negli anni settanta a Monteverde la pizzeria Sandokan strillava “Pizza&Birra 1.500 lire!”, ma spostare il prodotto dal menù all’insegna è un bel passo avanti.
E allora via con il Pomodorino, Fiori di Zucca, la Marinara, Bufala e Pachino, Alici e Mozzarella e tutte le combinazioni possibili di due o tre cibi, fino al geniale “Bir & Fud” (scritto proprio così) che coniuga birrazza e ironia dietro Piazza Trilussa.
Poi però ad un certo punto si è degenerato.
Perché neanche mettere il menù sull’insegna ha soddisfatto i ristoratori romani, alcuni dei quali evidentemente hanno fatto viaggi in luoghi esotici da cui hanno riportato la convinzione che il cliente vada attirato con ogni mezzo, non necessariamente con la buona cucina: è il marketing al massimo livello.
Per cui negli ultimi anni a Roma è tutto un fiorire di Ristoro della Salute, Mucca Bischera, Pulcino Ballerino, Mattarello d’Oro, e chi più ne ha più ne metta, fino all’apoteosi.
Quelli che credono di essere simpatici e originali, e intitolano il loro locale “Nonsolopizza”, “Nonsolocarne”, “Nonsolopane”, “Nonsoloquellochetupensiiovendamasechiedic’hopureartro”.
Che l’istinto sarebbe di entrare, sparare un bel “malimortaccivostri”, e di fronte alle rimostranze del proprietario sorridere e dire: “Nonsolovaffanculo”.

Romanzo – incipit

Dopo quattro anni di stasi il mio romanzo si muove. La storia c’è, i personaggi pure e mi sembrano abbastanza tridimensionali.
Sono circa a metà della prima stesura, e mi pare che fili.
Chissà, magari mi prende di nuovo il blocco e rimane lì altri quattro anni, oppure riuscirò a finire la prima bozza entro quest’anno.
In ogni caso, mi fa piacere condividere l’incipit, o meglio il primo capitolo, che è quello che ha dato fuoco alle polveri.
Il titolo provvisorio del romanzo è “Anni ’70”, e speriamo di finirlo prima del 2070…:-)
Un ringraziamento a tutti coloro che vorranno dare una sbirciatina.

1. La fotografia
Mi trascinai dall’ascensore alla porta di casa come se dovessi percorrere ancora dieci chilometri a piedi dopo una maratona; quei pochi passi che mi separavano da casa mia mi sembravano interminabili.
Davanti alla porta guardai la serratura con aria di sfida; volevo vedere se per una volta, stanco, sudato, depredato da qualsiasi interesse per la mia vita, sarei riuscito a trovare subito le chiavi per entrare.
Infilai le mani nelle tasche del cappotto, poi nella saccoccia esterna dello zaino, poi lo poggiai sul davanzale di un finestrone sul pianerottolo e iniziai a frugarne l’interno, nella vana speranza che le chiavi fossero la prima cosa che avrei toccato e non fossero invece nascoste in una di quelle sacche spazio temporali che richiedevano di solito almeno due minuti prima di dissolversi e restituirmi le chiavi.
Anche stavolta, dopo aver esplorato inutilmente tutti i meandri più oscuri delle mie tasche, riuscii a resistere all’impulso di gettare tutto a terra e urlare.
Non era un buon segno, mi dissi, mi stavo spegnendo. Neanche più una sana incazzatura.
Ormai prendevo ogni evento della mia vita, piccolo o grande che fosse, con rassegnazione, e ad ogni piccola angheria che la mia esistenza mi riservava alzavo le spalle e cercavo di farmela scivolare addosso, anche se sapevo che in realtà stava incidendo un altro graffio su un animo già segnato.
Finalmente riuscii a trovare le chiavi e ad entrare in casa.
Mi chiusi la porta dietro le spalle e non guardai neanche dove lanciavo lo zaino; ne percepii vagamente il tonfo sul pavimento poi mi trascinai in camera da letto, per spogliarmi in fretta.
Il venerdì era un giorno peggiore degli altri.
Ero stanco e la mia casa – per quanto malmessa, disordinata, senza capo né coda come me – mi sembrava l’unico posto in cui potessi lasciarmi andare e dimenticare.
Dimenticare di essere solo a quaranta anni; di avere una ex-moglie che viveva a mille chilometri; che mio padre non mi riconosceva quasi più ed era da due anni in una casa di riposo che non riuscivo a pagare con regolarità; dimenticare che non ne potevo quasi più del mio lavoro, e sforzarmi invece di ricordare che mi serviva quel maledetto stipendio per tirare avanti.
Dimenticare che non riuscivo a tenere una donna vicino per più di pochi mesi perché mi stavo chiudendo sempre di più in me stesso, e cazzo, non è divertente dividere la propria vita con un depresso cronico.
Non bevevo, non mi drogavo, almeno questo.
Però fumavo e mangiavo troppo: la strada ideale per un infarto in giovane età.
Mi diressi in cucina, ma erano già le otto e non mi andava di cucinare. Non era una novità, non mi andava mai.
Per fortuna la mia piccola casa – tutto quello che mi era rimasto dopo il divorzio – aveva una grande frigorifero, e nel congelatore i piatti pronti non mancavano mai.
Come quasi tutte le sere perciò il microonde fece il suo dovere; presi infine una coca e mi buttai sul divano davanti al televisore.
In teoria avevo un invito a cena da parte di una coppia di amici che volevano presentarmi una tizia, ma avevo già visto questo film: una quarantenne, pensai, o giù di lì, sola come me, che cercava qualcuno con cui dividere il suo letto.
Non ero interessato.
Accesi il televisore mentre masticavo senza sentire il sapore di quello che stavo mangiando, ma cambiai subito canale appena mi resi conto che stavano trasmettendo un telegiornale, ormai non mi interessava più neanche la politica, e men che mai i fatti di cronaca.
Cominciai a seguire una partita di calcio senza vederla veramente, e oziosamente pensai che in fondo quel pollo precotto con le patate riscaldato non era male, considerando la mia situazione.
Presi un sorso di coca e ricominciai a cambiare canale; il calcio non mi piaceva prima e ora lo trovavo fastidioso.
Infine trovai un compromesso con me stesso e mi fermai su un canale dove trasmettevano storia ventiquattro ore al giorno; una volta ci vidi l’epopea di Giulio Cesare e mi era piaciuta. Non ricordavo se fosse stato prima o dopo il divorzio; probabilmente prima, ma comunque posai il telecomando e continuai a mangiare.
Pensai che sarei dovuto andare a dormire presto: il giorno dopo avevo intenzione di uscire all’alba e respirare un po’ di aria buona. Magari potevo andarmene al mare, anche se il tempo non prometteva per niente bene. Anzi, proprio per questo, così non avrei rischiato di incontrare nessuno che conoscevo.
Continuai ad ascoltare distrattamente lo speaker che parlava di gruppi terroristici post-68: una volta mi piaceva la politica e anche la storia d’Italia, ma ora mi sembrava un teatrino in cui si muovevano solo figuranti di poco talento.
La voce in sottofondo continuò a raccontare di come dopo le agitazioni universitarie del ’69 alcuni gruppi teorizzarono la via del terrorismo come arma di lotta politica:
“Alcuni perciò rimasero nella politica ufficiale, altri passarono alla lotta armata e alla clandestinità. In quei tumultuosi, momenti iniziali, la polizia riuscì a identificare e ad arrestare una cellula terroristica: non sapevano che stavano rovinando la loro vita e quella di molte altre persone, in quel momento si sentivano degli eroi rivoluzionari, e la gioia di immolarsi per la rivoluzione era chiara nei loro occhi di ragazzini – 20 anni o poco più, figurarsi!”
Seguii con gli occhi lo slideshow mentre mangiavo, guardavo poliziotti fieri e terroristi alteri, sembrava di essere in un film di Sergio Leone: primi piani taglienti alternati a campi lunghi, la folla in silenzio.
Improvvisamente comparve una foto: una donna giovane con una gonna a pied-de-pule, una camicia chiara e un maglioncino a “v”. Le calze chiare e le scarpe basse.
Le mani dietro la schiena chiuse dalle manette e un poliziotto che la trascinava per un braccio.
I capelli, di media lunghezza, non riuscivano a nascondere lo sguardo cattivo, quasi feroce.
Misi in pausa e mi avvicinai per guardare meglio, con la bocca spalancata: la camicia era celeste e il maglioncino viola; la gonna bianca con i disegni neri e le scarpe marrone testa di moro.
La foto che scorreva sullo schermo in realtà era in bianco e nero, ma i colori li conoscevo a memoria.
Non ebbi bisogno di controllare per sapere che il giorno del mio battesimo mia madre portava gli stessi vestiti.